«Rimanete in me e io in voi.
Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite,
così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi
rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete
far nulla». (Gv 15,1-8)
Fino a
domenica scorsa il vangelo si era preoccupato di descriverci gli eventi
accaduti immediatamente dopo la risurrezione di Gesù. Dalla quarta domenica di
Pasqua invece abbiamo fatto un brusco salto indietro: dalle apparizioni di Gesù
risorto ai suoi, siamo passati a meditare alcuni brani particolarmente
significativi, tratti dal discorso di addio pronunciato da Gesù nel
cenacolo dopo la cena del giovedì santo, immediatamente prima della sua cattura
e della sua morte. Un lungo discorso, che è un po’ il suo testamento spirituale (Gv 13-17), in cui Gesù apre il proprio cuore ai discepoli e parla di ciò che più gli preme;
parla di sé, di loro, di ciò che li aspetterà, dell’amore e dell’odio che
troveranno. Abbiamo meditato domenica sull’immagine del buon pastore: un “pastore bello” che non ci abbandonerà; qualunque cosa accada lui veglierà sulla nostra sopravvivenza. Oggi invece ci viene proposta un’altra immagine, altrettanto carica di significato, quella della vite e dei tralci: la sopravvivenza questa volta è possibile solo se saremo noi a rimanere uniti a Lui, come tralci alla vite-Vita.
Gli apostoli e i primi cristiani concepivano in questo modo il loro rapporto con il Signore: Lui la vite, loro i tralci. Il tralcio è indipendente, un'altra cosa rispetto alla vite. Il tralcio non è la vite. Ma il tralcio, se unito alla vite, porta frutto; lontano da lei, tagliato via, dissecca e non potrà mai più portare frutto. La vite è per il tralcio la forza, il nutrimento, la vita, il suo tutto. E il tralcio, pur essendo tralcio, diverso dalla vite, è un tutt'uno con la vite.
L’immagine, molto chiara e accattivante, rende perfettamente ciò che dovrebbe essere la comunità cristiana. Tutti uniti (un’unica vite) ma ciascuno nella sua grande diversità (tralci diversi con una resa diversa). Sì perché, fratelli, pur nella nostra unicità con la vite, siamo peraltro assolutamente “diversi” tra noi, siamo tutti “entità autonome”. Guardiamoci attorno: c’è chi ama l’arte, chi il disegno, chi la musica, chi la pittura, chi lo studio, chi la letteratura, chi lo sport, chi viaggiare. Ma se non siamo per niente studiosi, o artisti, o musicisti, o sportivi, non per questo siamo inferiori agli altri: siamo tutti tralci; ma “altri”. Ogni tralcio è se stesso, siamo noi, sono io: nome e cognome.
Spesso succede, invece, di pensarci tutti uguali: e pretendiamo non di uniformarci noi agli altri, ma di uniformare gli altri a noi. Se non corrispondono al nostro modello, non ci vanno bene, li critichiamo, li giudichiamo, li condanniamo. Non sappiamo accettare la coesistenza con gli altri, l’unicità degli altri. E ci succede questo, fratelli, perché siamo noi stessi che non ci conosciamo, non accettiamo la nostra unicità, perché non ne apprezziamo il valore e la potenzialità, e quindi non la viviamo.
Se invece noi viviamo noi stessi, automaticamente accettiamo che anche gli altri vivano loro stessi, vivano cioè la loro realtà, le loro aspirazioni. Ma se noi non riusciamo a farlo, al momento dell'inevitabile confronto con l'altro, la nostra frustrazione esplode, ci provoca invidia, rabbia, malessere, cattiveria.
Ciò che conta invece, fratelli, è che ognuno deve vivere se stesso, deve potersi esprimere al massimo delle sue potenzialità, essere esattamente il tralcio che lui deve essere. Ciò che conta è che ognuno deve portare frutto secondo le sue potenzialità. Ciò che unisce una famiglia, una comunità, non è fare le stesse cose, ma è l’amore, la circolazione della linfa, il dialogo, la condivisione, l’unione profonda che si crea e che viene vissuta comunitariamente.
Molte famiglie si credono unite perché, magari, si ritrovano insieme tutte le domeniche. Ma non è questa l’unità. L’unità è essere uniti nell’anima, in profondità, sentire che anche gli altri percepiscono il nostro profondo e che noi sentiamo il loro. Come la vite con i suoi tralci. Questa è unità.
L’immagine della vite, della vigna, era molto usata al tempo di Gesù. Israele era la vigna di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nelle vigna, il luogo dell’amore, dell’estasi, della gioia nuziale. Il vino, frutto della vite, per gli antichi era il simbolo della felicità, dell’ebbrezza, dell’intensità del piacere, della vita vera. Quando a Cana, alle nozze, manca il vino la festa sembra compromessa, sembra finire; ma poi ci pensa Gesù e la festa e le danze ricominciano con maggior entusiasmo perché il vino, quello migliore, improvvisamente è ricomparso in abbondanza.
L’immagine dei tralci uniti alla vite, proposta dal vangelo di oggi, ci dice quindi gioia, felicità, frutto abbondante, vendemmia assicurata: e ciò grazie alla vita, alla linfa che scorre continuamente al loro interno. Il riferimento a noi è immediato: se perdiamo contatto con le nostre radici, con la vite, con la Vita, nessuna gioia è più possibile. Noi infatti siamo come tanti tralci: per cui non separiamoci dalla vite, dalla nostra unica fonte di Vita; non isoliamoci mai, non separiamo mai il nostro cuore dalla nostra anima, non distruggiamo la comunione profonda che li lega, non tagliamoci fuori dal nostro profondo, da ciò che abbiamo e proviamo dentro di noi, perché, in quel preciso momento, noi ci perderemo; non avremo più linfa e seccheremo, moriremo, diventeremo inutili sarmenti destinati a bruciare. È la legge inesorabile della vita, della natura.
Gesù si propone come la Vite-Vita vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto della vita, io sono l’ebbrezza della vita, io sono l’elisir della vita, io sono il vero piacere della vita”.
Ogni volta che il sacerdote nell’eucaristia pronuncia sul vino: “Questo è il mio calice, versato per voi”, ci suggerisce due cose importanti: che il sangue rappresenta la sofferenza, l’aspetto difficile della vita, l’aspetto duro, ostico, doloroso (del resto nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma ci dice anche che quel vino è Gesù stesso, quel vino è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere; è ciò che ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura.
Ecco perché la vita deve essere un piacere; vivere, deve essere bello, gustoso, appassionante, altrimenti è una pena, un peso insopportabile. Gesù non è stato e non sarà mai nemico del piacere, della gioia, del divertimento: lui è la vite, è l’origine stessa del piacere! Gesù mangiava, beveva, faceva festa, e... guarda guarda, per dare felicità non rispettava neppure il sabato. Egli amava la vita perché Lui era la vera Vita.
E allora, fratelli, che aspettiamo? Coraggio: come il vino che gustiamo ci rallegra la vita e l’anima, così non dobbiamo temere di accostarci anche ad altri piaceri della vita: come dare (e ricevere) un bacio, una tenera effusione amorosa, un lungo e carezzevole abbraccio alla persona che condivide la nostra quotidiana esistenza; non dobbiamo aver timore, farci scrupoli, di ricevere le sue tenerezze; come pure non dobbiamo temere di concederci qualche giornata di svago con gli amici, di farci una lunga passeggiata, un bel viaggio turistico, di andare al cinema o al teatro per assistere ad uno spettacolo che valga. Gesù è il vino, è il gusto, il sapore della vita; provare il piacere di vivere, gustare la gioia della vita, è un modo giusto per esprimergli riconoscenza per la Sua bontà, per prepararci a sperimentare con il poco di ora, la grande felicità eterna, il Suo gusto, il suo sapore eterno, il suo amore incontenibile e senza fine, nella visione beatifica di Dio.
Molte persone straparlano di amore, di amore di Dio: sono convinte di essere loro gli unici illuminati, gli unici destinatari, gli autentici depositari, gli esclusivi dispensatori dell'amore divino; e per essere degni di questa “alta” vocazione, conducono una vita triste, sconsolata, inerte, con scelte volutamente cariche di sacrifici, di sofferenze, di privazioni. Ma non è così, fratelli, che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi. Dio ha creato il mondo, le persone, le cose, il buon cibo, il sole, il vento, le stelle, i fiori e i colori, solo ed esclusivamente per noi; perché noi li potessimo gustare, assaggiare e assaporare; perché noi potessimo gioirne, riempiendoci il cuore e l’anima. Dio è buono, fratelli. Egli ci ama e ci vuole soddisfatti. Non dobbiamo quindi aver paura di essere felici. Il Talmud dice in proposito: “Saremo giudicati su tutti i piaceri legittimi a cui abbiamo rinunciato”. E Gesù ci ripete: “Non assolutizzate mai il piacere, non siatene dipendenti, non siatene succubi, non attaccatevi smodatamente alle cose terrene; ma gustate e godete di tutto ciò che io ho creato per voi”. Sì, fratelli: tutto ciò che esiste, il mondo intero, esiste per noi; ed esiste non perché lo possediamo, lo rapiniamo o pretendiamo di dominarlo egoisticamente, in maniera esclusiva; ma esiste perché lo godiamo serenamente, con le persone che amiamo.
Per natura, invece, noi vogliamo possedere sempre tutto: vogliamo che tutto il mondo esista soltanto per noi, sia esclusivamente al nostro servizio. E ci comportiamo così anche con le persone: noi non le godiamo, non gustiamo la gioia della loro presenza; siamo preoccupati soltanto di possederle, di sottometterle e basta. Succede un po’ anche quando guardiamo un bel paesaggio: non ci fermiamo ad ammirarlo, non ci interessa di goderlo nella sua maestosità, ma siamo preoccupati solo di fotografarlo in ogni particolare; vogliamo in qualche modo catturarlo, possederlo, tenerlo per sempre con noi, piuttosto che assaporarlo serenamente lì, sul posto, dal vivo.
Godere è lasciare che le cose esistano, che ci siano, nella loro splendida bellezza. Godere e sentirle vibrare dentro di noi, assaporarle, ma lasciarle libere dove sono, non volerle possedere, circuire, perché non sono nostre. L’amore, fratelli miei, è gioia e dà vita, sempre; il possesso invece, anche se accattivante, se soddisfa al momento, a lungo andare svilisce, perde la sua attrazione e intristisce l’anima.
L’immagine della vite ci ricorda soprattutto la legge fondamentale della sopravvivenza: se ci stacchiamo dalla linfa che ci nutre, moriamo. Ecco perché il vangelo dice: “Rimanete in me”. Lo ripete quasi ossessivamente. Perché in questo “rimanere” c’è il segreto di ogni cosa. Se ci stacchiamo dal nostro profondo per noi è la fine.
Perché molti sono infelici? Credete veramente che se avessero più soldi sarebbero più felici? Perché molti sono sempre arrabbiati? Credete che sia sempre colpa degli altri? Perché molti sono continuamente annoiati? Credete veramente che non ci sia nulla che li possa entusiasmare? No, fratelli. Purtroppo noi siamo convinti che avendo quella determinata cosa, quando raggiungeremo quella certa meta: quando avremo ottenuto la laurea o saremo sposati o avremo figli o la casa nuova, allora sì che saremo felici. Invece ci stiamo illudendo. Se crediamo che la felicità consista nell’avere, nel godere, nell’essere e basta, ci stiamo illudendo, fratelli. Per tutta la vita continueremo invano a rincorrere questo o quello, senza alcun risultato, perché ciò che noi cerchiamo non è all’esterno, ma è dentro di noi. Se noi continuiamo a cercare lontano da noi, non vedremo mai nulla di ciò che ci sta vicino. Se noi non “ci” sentiamo, non “ci” percepiamo, non potremo mai sentire né percepire nulla.
Le parole di Gesù sembrano astratte, teoriche, riservate ai grandi mistici: “Rimanete in me; io in voi; voi in me”. Sembrano difficili, ma al contrario dicono una cosa semplice e vera: l’intimità è data non da quanto facciamo, ma da quanto in profondità noi andiamo.
Marito e moglie stanno insieme da una vita; ma succede che tra loro non ci sia intimità: se due sposi non sanno parlarsi delle loro emozioni più intime, non sanno dirsi le loro paure, i loro desideri, le loro ferite, se non condividono ogni stato d’animo, se non si lasciano commuovere, se non piangono davanti all’altro, ma che intimità c’è? Non basta abitare sotto lo stesso tetto per essere intimi. E neanche andare a letto insieme. Intimità è incontrarsi in profondità, dentro l’anima, nudi e spogli, con tutti i nostri difetti e le nostre miserie, i nostri antiestetismi spirituali e corporali, e accoglierci e amarci lo stesso, per quello che siamo. Anche senza ritocchi o interventi rigeneranti di chirurgia plastica!
Intimità è dunque entrare dentro. Chi dice: “Di certe cose preferisco non parlare perché poi mi commuovo”, rimane all’esterno. E quello che dice: “Io non voglio raccontare niente di me perché mi fa star male”, rimane fuori. Come faranno ad entrare in intimità con qualcuno, se hanno paura di scendere dentro loro stessi?
Non basta venire in chiesa e riempire Dio di parole e preghiere. Molti parlano a Dio ma non con Dio. Molti, anche persone religiose e consacrate, non provano nessuna vibrazione interiore, nessuna vitalità, nessuno slancio quando sono in chiesa, quando pregano, quando cantano. Non si commuovono di fronte alle parole del vangelo; non si lasciano mettere in seria discussione da ciò che sentono; non provano l’ebbrezza del canto o l’intensità del silenzio. Insomma, non parlano con Dio; lo riempiono semplicemente di parole.
Abbiamo detto che la vita è fatta anche di cose esterne, di superficie, non solo di austerità. E che a volte fare quattro risate, bere un bicchiere di vino in compagnia, o chiacchierare “del più e del meno” (senza spettegolare!), fa proprio bene, ci riconcilia con la vita. Ma la vera felicità della vita, fratelli, il suo essere feconda e vitale, sta solo dentro, all’interno, nell’anima delle cose. Essere felici significa raggiungere il centro della vita: essere cioè “al centro”, nel luogo esatto dove palpita la vita, dove scorrono le emozioni, il pianto e le risa, il dolore e l’amore. Vuol dire percepire la linfa che scorre nei nostri tessuti vitali, esserne riempiti, saturati, sommersi. Se infatti andiamo al mare nel caldo torrido dell’estate, e non ci tuffiamo completamente dentro l’acqua, non sentiremo refrigerio, non proveremo sollievo. Per provarlo, dobbiamo andare sotto, immergerci dentro. Così anche vivere, fratelli, è “stare sotto”. Essere vitali, portare frutto, significa vivere in profondità con noi stessi, vuol dire “entrarci” dentro e conoscerci a fondo, vivere al centro di noi, nella nostra anima. Se rimaniamo lì, allora veramente “ci” sentiamo; allora veramente capiamo chi siamo, e percepiamo tutte le nostre potenzialità. Portare frutto, ripeto, significa incontrare il mistero della vita che è nascosto in noi, entrarci dentro; entrare in Lui che è Vita dentro di noi, e cercare di capirlo, di goderlo, rimanendo incantati dalla Sua grandezza, dalla Sua bellezza, dalla Sua immensità; e irradiare prepotentemente tutto questo, all’esterno; conviverlo con i fratelli nel loro intimo, nella loro anima. Portare frutto nel nostro relazionarci quotidiano, significa infatti incontrare anche l’altro nella sua parte più profonda, più interna, dove è più vero, dove è maggiormente se stesso; lì dove possiamo scorgere anche in lui il volto di Gesù. Perché il nostro prossimo, il nostro fratello, è Lui, sempre e soltanto Lui! Basta saperlo vedere.
Ecco, fratelli miei; così c’è incontro. Solo così c’è unione tra i tralci e la vite; solo così il frutto è assicurato! «Perché senza di me, voi non potete far nulla». Parole sacrosante. Vere. Meditiamole! Amen.
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