«Mancavano due giorni alla
Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di
catturare Gesù con un inganno per farlo morire» (Mc 14,1-15,47).
Nel
racconto della Passione, riviviamo la storia di un uomo perdutamente innamorato
di Dio e degli uomini. Un amore “folle” che lo ha spinto fino ad accettare l’estrema
conseguenza: la morte. Tutta la vita di Gesù, uomo-Dio, è stata vissuta con passione, con
intensità, bruciando, amando, piangendo, commovendosi, non passando
indifferente vicino a niente, infuocato ora d’amore e ora di sdegno. Una vita
vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare. Una
vita di fedeltà. Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo e
per tutto ciò che vive, e soprattutto alla sua unica e vera passione: Dio. E
quando tutto sembrò finire, concludersi; quando tutto sembrò chiudersi Dio non
lo tradì. La Passione è la storia di quest’uomo fedele a se stesso e al proprio
profondo, innamorato di questo Dio che non lo lasciò, ma che confermò con la
resurrezione che tutto ciò che Egli viveva era “Dio”. Ripercorriamo insieme alcune scene di questo straziante percorso di Gesù, così come ci vengono proposte oggi dal vangelo: in Gesù possiamo anche noi ritrovare la forza per compiere il nostro viaggio, fino in fondo, per vivere con passione la nostra vita; possiamo rispecchiarci nelle varie situazioni, nei personaggi che vengono coinvolti nel racconto, per capire come noi viviamo la vita di ogni giorno, con quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura. In loro possiamo rivederci, ritrovarci; capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono dei simboli profondi, delle icone stampate a fuoco, che vivono in ciascuno di noi e in ogni uomo:
14, 3-9: l’unzione di Betania. Due giorni prima della crocifissione Gesù partecipa ad una cena a Betania. Una donna gli si accosta e gli unge il capo con unguento prezioso. Non era un gesto insolito, ma si usava, in genere, solo in occasioni solenni. Il valore dell’unguento è molto elevato, stimato quasi quanto il salario annuo di un lavoratore. È un gesto di assoluta bontà. Del resto che cosa può fare questa donna per Gesù? Niente. In che modo lo può aiutare? In nessun modo. Può togliergli la delusione, il senso di fallimento, della fine, che Gesù vive? No. Questa donna non può fare niente, non può cambiare o togliere niente dal corso preso dagli eventi. Non può fare nulla. Ma può amarlo. E così le sue mani delicate e tenere, curano, accarezzano e sollevano il capo di Gesù. “Lasciatela stare, lasciatela che mi ami, lasciate che mi conforti, lasciate che si prenda cura di me”. È l’amore! Quando non si può fare più niente, possiamo sempre amare, stare vicini, stare a fianco, prenderci cura, stare silenziosamente presenti. Quando più nulla è possibile fare, non ci resta che amare. E questo è tutto il nostro potere.
14, 10-21: Giuda. Come è stato possibile che uno di quelli che seguivano, che amavano Gesù, lo abbia tradito? Come è stato possibile che uno di quelli che per Lui avevano lasciato tutto, lo abbia consegnato ai nemici? Rimane un mistero. Il Vangelo accenna al denaro. Cosa non si fa per denaro! Per il denaro può succedere che siamo pronti a vendere quello che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il nostro cuore, la nostra anima, l’affetto e il nostro tempo. E quando abbiamo perso tutto, cosa ci rimane? Chi insegue il denaro finisce come Giuda, che disperato si impicca. Il denaro è una illusione affascinante che conduce alla disperazione quando ci si accorge che, credendo di avere tutto, di potere tutto, in realtà, non abbiamo niente; non abbiamo amato, non abbiamo vissuto; abbiamo solo inseguito una illusione, un’apparenza, un sogno. È la morte.
14, 22-25: l’eucarestia. Il sinedrio ha già deciso di condannare Gesù. E Gesù, durante la cena pasquale, con l’immagine del pane e del vino, fa della sua vita un dono. Gesù dice: “Sì, sono io quel pane che viene spezzato. Desidero che la mia vita sia come il grano, che si dona e diventa alimento, vita, per molte persone. Desidero che dal mio morire, che dal mio andare fino in fondo, altri gustino la vita. Desidero che la passione della mia vita, il mio vibrare e il mio sangue siano ebbrezza, gusto, fuoco per altre persone. Vorrei essere per tutti voi un po’ di pane e un po’ di vino. Vorrei che la mia vita, che sta per finire, diventasse per voi e per il mondo, alimento, vita, sapore, gusto, senso e felicità”. Con queste parole Gesù affronta la sua sofferenza. Non gli sarà tolta: niente esternamente cambierà. Ma tutto sarà diverso, perché adesso c’è una preghiera, un senso su ciò che sta per accadere. Nonostante tutto, al di là di tutti i motivi razionali, il nostro dolore da oggi sarà qualcosa di buono. Sapremo, come nel pane e nel vino, che ciò che è frantumato crea nuova vita. La nostra sofferenza diventerà nuova vita; anche se perdiamo la vita non moriremo e, se ci lasceremo portare, dalla nostra morte risorgeremo meravigliosamente a nuova vita. Cosa poteva donarci di più Gesù? Gesù non ci ha donato solo delle belle parole, dei bei miracoli, dei bei discorsi. Gesù si è donato lui stesso a noi. Questo è il vertice della vita. Perché l’amore è donarsi. L’amore vuole darsi, e darsi del tutto, fino alla fine, completamente. In ogni eucaristia noi celebriamo proprio questo: un amore donato. E in ogni amore donato, noi celebriamo un’eucarestia.
14, 26-42: il Getsemani. Gesù prega: avrebbe potuto fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Non viene descritto come abbandonato da Dio, sfiduciato, lontano da suo Padre. Anzi, Gesù lo prega, il Padre. C’è molta comunicazione tra lui e suo Padre. Ma Gesù ha paura; è terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere. È l’angoscia di finire nel nulla della lotta per la vita. È l’angoscia per un supplizio che gli si prospetta terribile; l’angoscia per sentirsi tradito; la paura del fallimento, del dubbio terribile: Gesù continua ad essere in comunicazione con Dio, ma dall’altra parte tutte le paure, tutti i mostri interiori si materializzano. Qui c’è, tutta la solitudine di Gesù. Nessuno dei suoi amici, neanche i più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, riescono a stargli vicino. Dormono. Cioè, non capiscono, non colgono la profondità, il dramma, cosa ci sia in questione. Vivono nella superficie, non si accorgono di ciò che sta accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, sono così presi dalle loro cose e da tanto altro che non “vedono” la tragedia che si sta per compiere. Ma come si fa a dormire, ad essere tranquilli in momenti simili? Gesù, ed è qui così umano, chiede loro: “State con me; ho paura, so che non potete far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono. Gesù si accorge che non può contare su nessuno. È solo. Nessuno gli è vicino; nessuno lo comprende; nessuno lo consola. Non può contare su nessuno.
14, 26.-31. 66-72: il tradimento di Pietro. A Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il punto! Pietro è la roccia (Cèfa, Pietro, roccia); è l’uomo che ostenta sicurezza: “Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò”. È l’uomo istintivo, d’azione, un uomo che, dice lui, non ha paura. Pietro in questo rappresenta la nostra “rettitudine” morale, religiosa, il nostro credere di essere fedeli, la nostra esuberanza che ci fa pensare: “Capiteranno agli altri queste cose, non certo a me!”. Pietro rappresenta la banalità con cui la gente si conosce, un idealismo e una superficialità che si dissolve di fronte alla vita. Gesù perdona Pietro, prima ancora che lo tradisca. Ma finché Pietro non si rende conto di ciò che lui è, di ciò che ha potuto fare, non può percepire che l’amore di Gesù e di Dio è più grande del nostro fallimento, del nostro errore. Dio non ci chiede di essere perfetti; ci chiede solo di essere umani, consapevoli di ciò che abbiamo dentro, dei nostri sentimenti, delle nostre paure e delle nostre fragilità. Perché ogni volta che presumiamo di noi allora, anche noi, spinti dalle nostre paure inconsce lo tradiremo, e non ci accorgeremo dei nostri tradimenti! Pietro rappresenta qui la chiesa, noi cristiani. Di fronte al pericolo ci defiliamo. Finché le cose vanno bene, sono facili, allora è semplice seguire Gesù. Quanti lo hanno seguito finché predicava, finché guariva! Qualche giorno prima era entrato a Gerusalemme tra canti, palme e ulivi. Ma adesso? Quando c’è da mettersi in gioco, da mettere in gioco quello che si è, da cambiare, da convertirsi, da trasformarsi, quando c’è il pericolo delle proprie scelte, allora la chiesa, noi, ci comportiamo come Pietro: rinneghiamo la verità, facciamo finta di niente, tradiamo la nostra chiamata. Quante volte imprechiamo, spergiuriamo, quante volte ci difendiamo con tutte le forze e ci ribelliamo, quando seguire Gesù è pericoloso, è compromettente, doloroso, controcorrente! Quando Gesù ci chiama a testimoniare di persona, con la nostra vita, allora, fratelli miei, con quanta facilità ci tiriamo indietro!
14, 43-52: l’arresto di Gesù. Osserviamo semplicemente come si scagliano contro Gesù. Va da lui “una folla con bastoni e spade”. Giuda, uno degli apostoli, lo bacia e lo tradisce. Gli mettono “le mani addosso e lo arrestano”. “E tutti, poi, abbandonandolo, fuggirono”. È l’infamia, il giudizio, della folla, della gente; del detto per sentito dire; di chi si scaglia e attacca per cose riportate da altri; del perché sembra, del perché qualcuno ha detto. È l’infamia di chi ci ferisce e ci bastona senza motivo. È la falsità di chi ci sembrava amico. Di chi ci bacia (certi baci sono proprio come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa e poi ci tradisce. È la meschinità di chi nel pericolo se ne va: “Si arrangi, non sono affari miei”.
14, 53-65: Gesù davanti al sinedrio. I capi e i sacerdoti cercano, e non li trovano, motivi per metterlo a morte. Molti attestano testimonianze contro di lui, ma sono così false e distorte dalla verità che non concordano. Alla fine trovano qualcosa, un qualche motivo per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio, la rabbia e tutto il sentimento interno scoppia e sfocia in un’aggressività che giudica, che vuole ferire, che vuole punire. E non importa chi ci sia davanti; non importa cosa l’altro abbia detto o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia allora bisogna trovare qualcuno da infangare. Allora non esiste più l’altro nella sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo il nostro odio che esce, giudica, uccide e si scaglia contro l’altro. Quante persone insultano, schiaffeggiano, sputano addosso agli altri tutto il loro male! E non si accorgono che non sono gli altri a fare il male: ma è il loro di male, il loro lato negativo, il loro marcio. Combattono negli altri il loro male. E facendo così, continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa verità.
15, 1-15: Pilato. Gesù è stato giustiziato dai Romani. Difficile dire quanto Pilato abbia influito. Pilato coglie la forza, la profondità dell’uomo che ha davanti e anche l’inganno che i giudei stanno per tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui glielo hanno consegnato. Potrebbe lasciarlo andare. Lui sì che potrebbe fare qualcosa. Lui decide, lui può decidere per la vita o per la morte di Gesù. Ma l’unica cosa che gli interessa è il potere, aver meno problemi possibili e non incrinare i rapporti politici. Pilato sembra comandare, essere il potente; e, invece, è intrappolato nel gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del detenere il potere. Sembra comandare, sembra essere il re e, invece, è l’impotente, colui che non può agire, che non può deludere i suoi pari; che non può manifestare il suo dissenso; che non ha il coraggio di prendere una posizione chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo che si omologa, che va dove vanno tutti. E si crede il re. Si crede il governatore, si crede potente. Potente di cosa?
15, 24-38: la crocifissione e la morte. Guardiamo la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno di “sostare” per entrare nel suo mistero. Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte le speranze, chi aveva lottato con lui, chi aveva coltivato il desiderio e l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero, per lui e per questo mondo. Come avranno vissuto questo evento le persone che Gesù aveva guarito? Come l’avrà vissuto la Maddalena? Come l’avrà vissuto Zaccheo, i sordi che tornavano a sentire, i muti che tornavano a parlare, i ciechi che tornavano a vedere, i morti che tornavano a vivere? Come l’avranno vissuto, cos’avranno provato nel vedere che chi aveva dato loro la vita, adesso è appeso, attaccato come il peggiore dei farabutti ad una croce? Sapere che quell’uomo che li ama è proprio Dio, che quell’uomo viene in nome della verità, che quell’uomo parla perché ispirato da Dio, e vederlo in croce: cosa si prova? Dove finiscono tutte le nostre certezze? Cosa si prova nel vedere chi si ama appeso ad una croce? Chi è il colpevole del numero impressionante di bambini che muoiono di fame? Nessuno. Chi è colpevole delle tante nefandezze e miserie che colpiscono il mondo? Nessuno. Di chi è la colpa della morte di Gesù? Di nessuno, è chiaro! Tutti avevano buoni motivi: Caifa, “la necessità storica”; Pilato “la ragione politica e il mantenimento dell’ordine”; Pietro “la mia semplice sopravvivenza”; i sadducei “la legge”; i farisei “la religione”; le persone rispettabili “la morale”; i soldati “l’obbedienza”. Ognuno aveva i suoi validi motivi; ma erano sufficienti? O non erano solo tentativi di tranquillizzare la propria coscienza? Di lavarsene le mani? La croce è l’abbandono totale di Gesù nelle mani del Padre e della vita. È lo scontro fra due religioni: quella di Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la religione della forma, della maschera. Qui contano i grandi numeri, l’istituzione, l’ordinamento e l’obbedienza. Non importa se le leggi distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto ossequioso alla norma. Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita, non la sofferenza. Gesù dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso, prostituta o pagano che fosse, perché tutti per lui erano figli dell’unico Padre. Gesù non faceva molti sacrifici, non digiunava, non si comportava scrupolosamente nei confronti delle regole. Era molto libero, mangiava, banchettava, faceva spesso festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva che il vero sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era fare qualcosa, ma fare della propria vita qualcosa di vero, di importante e di significativo. Non cercava sacrifici o sofferenze. Anzi le evitava. Gesù non reprimeva l’amore, non evitava il contatto con le donne, come quelle che lo accarezzavano o lo baciavano. Gesù piangeva. Gesù si arrabbiava. Com’era dentro, così era fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva. Gesù voleva che fossimo umani. Che in noi non c’è niente che sia indegno agli occhi di Dio, da nasconderci. Che davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o belle maschere. Perché in croce tutto questo finisce. Questa era la religione di Gesù. Questa è la religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare, di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, ma mai distrutta. E, infatti, non solo Gesù è risorto, ma con lui anche la sua pretesa del regno dei cieli e di questa religione. E quando il venerdì santo andremo a baciare la croce, noi baceremo questa religione, cioè, la religione di Gesù, della vita, dell’amore, della verità. Andremo a baciare la croce perché, nonostante tutto, la religione di Gesù non è stata sconfitta: Dio, risorgendo il suo Figlio, ha dimostrato che questa è l’unica e vera religione. Ciò che viene da Dio non muore mai. Può essere perseguitato, ucciso, deriso, umiliato, annientato, ma non può morire. Dio è l’unica realtà. Ciò che viene da Lui, chi si affida a Lui, non muore mai.
15, 38-41: il centurione e le donne. Sotto la croce c’è un centurione, un soldato, uno che ha obbedito agli ordini. È l’uomo che ha sempre obbedito, che non ha riflettuto per conto suo. Ha eseguito ciò che altri avevano stabilito. Fa quello che tutti fanno. È l’uomo che ha rinunciato a pensare, che ha delegato le sue responsabilità alla tv, ai sistemi, agli esperti. Ha appaltato il suo cervello ad altri. Non ha voluto faticare: si è adattato, omologato, ha seguito il pensiero dei più, quello comune, quello già digerito da altri. E adesso si rende conto di aver preso parte ad un dramma e ad una tragedia di cui anche lui, senza saperlo, ne è stato la causa. “Davvero quest’uomo era figlio di Dio”. Vivere senza pensarci, trascinati dagli altri, senza consapevolezza, senza ragione critica, produce nuove crocifissioni. Ognuno è responsabile della sua vita, delle sue scelte, e anche di non aver scelto.
Vicino alla croce ci sono inoltre delle donne. È un caso che ci siano solo delle donne a seguire Gesù? Dove sono gli uomini? Dove sono gli apostoli, i suoi fedeli amici? È un caso che le prime testimoni della resurrezione, in tutti i vangeli, siano delle donne? O non è forse un messaggio forte per noi? È la donna, solo la parte femminile di ogni persona, che può cogliere la resurrezione. Chi non conosce la tenerezza, l’amore, l’affetto, lo stupore, il pianto, i sentimenti, la disperazione, il dolore, l’impotenza, la paura, non può “vedere” nessun Gesù. Solo chi conosce la vita, chi la vive, la sente; solo chi conosce l’amore, chi sa provare qualcosa nel cuore e percepire l’altro, solo costui potrà “vedere” il risorto, potrà constatare che la vita non ha fine, e che l’amore è più forte. L’amore non si arrende, l’amore non può credere alla fine, alla morte. Chi vive nell’amore conosce l’eternità. Anche quando tutto sembra dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l’amore conosce l’eternità. L’amore vuole il “per sempre”. Queste donne non si arrendono all’evidenza dei fatti perché conoscono l’evidenza del cuore, dell’anima, della vita e di Dio. E proprio per questo sperare al di là di ogni speranza; per questo credere al di là di ogni dubbio; per questo amare al di là della fine; ecco, saranno proprio loro le prime testimoni della resurrezione. Avevano visto bene: l’amore è più forte e vince tutto. È eterno. Amen.
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