Gv 10,11-18
In quel tempo, Gesù disse:
«Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il
mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede
venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le
disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il
buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il
Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho
altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo
guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo
pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi
riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere
di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho
ricevuto dal Padre mio».
Giovanni, nel vangelo di
oggi, ci presenta Gesù che si definisce “buon pastore”. Non un pastore
qualunque, ma “ò poimèn ò kalòs”, come dice il testo greco: “il pastore quello
bello, quello buono”.
E si sofferma a descrivere
quelle che sono alcune delle caratteristiche particolari di questo pastore
buono: non solo guida le pecore, si prende cura di loro, ma le conosce per
nome, una per una; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono,
va a cercarle fino a quando non le ritrova; le ama talmente, da dare per loro
la propria vita.
Un pastore, dunque,
decisamente agli antipodi rispetto al mercenario: a colui cioè che lo fa per
lavoro, per soldi, per interesse, per guadagno. Al mercenario non interessa il
bene delle pecore, ma unicamente il proprio, egli guarda soltanto il proprio tornaconto,
a ciò che può guadagnare da esse. Egli non le ama, ma si serve di esse, le
utilizza, sono una merce di scambio.
Un po’ come ci comportiamo
oggi anche noi “cristiani”, immersi in una società che di cristiano ha ben
poco: in una società del benessere in cui ciascuno non dispone mai di un po’ di
tempo per pensare concretamente al prossimo, per aiutare i più bisognosi, per
prodigarsi a favore dei fratelli più deboli. Siamo circondati da gente che usa
e abusa del prossimo: governanti, politici, datori di lavoro, amici, colleghi,
noi stessi: siamo tutti indistintamente “pastori” che cercano di trarre dalle
“pecore” un utile personale; dimostriamo loro attenzione soltanto se la pensano
come noi, se sono mansuete, accomodanti, se ci obbediscono, se non creano
problemi, se sono produttive. E poi? Più nulla.
Certamente non siamo dei
“buoni” pastori: non nutriamo vero amore, siamo autoritari, presuntuosi,
egocentrici, il nostro interesse primario è una smodata affermazione personale.
Quando invece l’intera
umanità, noi per primi, sentiamo l’assoluto bisogno di “buoni” pastori: di
persone che ci siano vicine, che ci diano fiducia, che ci offrano la certezza
dell’accoglienza, di essere benvoluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo
o di ciò che siamo. Persone alle quali poter dire: “So che se non mi
abbandonerai mai: sia nella buona che nella cattiva sorte, tu sarai sempre con
me”. Persone insomma che ci rassicurino, ci tranquillizzino; pastori veri,
pastori “buoni”, che trabocchino di carità e regalino amore sull’esempio di
Gesù.
Sono questi insomma i pastori
che desideriamo costantemente al nostro fianco: in particolare per adeguarci a
loro, per imitarli, per immedesimarci in loro; perché anche noi abbiamo il
nostro piccolo gregge da accudire: anche noi siamo “pastori”: anzi lo siamo
doppiamente, sia nei confronti di noi stessi, che nei confronti dei nostri
fratelli.
Siamo pastori di noi stessi,
perché raccolte nel recinto della nostra anima, della nostra mente, abbiamo
molte “pecore” da accudire: sono le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre
aspirazioni, gli ideali della nostra vita, i richiami della nostra coscienza, i
nostri propositi, le nostre necessità spirituali. Come dobbiamo comportarci con
queste “pecore”? Noi le conosciamo bene, le sentiamo nostre, in genere ci
teniamo ad esse. Cerchiamo anche di riservare una maggiore attenzione alle
“malate”, a quelle che strada facendo si sono ferite.
Per essere però degli
autentici “pastori”, per meritare pienamente il titolo di “buoni”, non dobbiamo
mai lasciarci condizionare dall’orgoglio, non dobbiamo mai “pretendere”, essere
duri, testardi, esigere da noi stessi l’inarrivabile; al contrario dobbiamo
essere umili, riconoscere i nostri errori e porvi immediato rimedio, non
smettere mai di “cercarci” quando ci perdiamo, percorrere sempre la strada
maestra, quella sicura, per condurre questo nostro “gregge” al recinto sicuro
della pace.
Tutto ciò che prende forma
nella nostra mente e che vive in noi, ha bisogno di cura, di amore, di
protezione, di dedizione; non ogni tanto, ma di continuo, ogni giorno.
Raggiungere un controllo maturo delle nostre “pecore”, diventare fedeli,
rispettosi dei nostri principi, precettori coscienziosi di noi stessi, richiede
tempo, applicazione, costanza. “Quanto ci vorrà?” È la classica domanda che
puntualmente ci poniamo nell’affrontare qualcosa di impegnativo: non lo
sappiamo; ci vorrà tutto il tempo che ci vorrà! Risolvere tutto velocemente, il
più in fretta possibile, significa non affrontare correttamente il problema,
equivale a cercare un risultato di comodo, un compromesso, un rimedio,
soprattutto una risposta, che potrebbe poi rivelarsi deleteria per la nostra
vita.
Quello di condurre, di
guidare saggiamente quella miriade di “pecore” che escono quotidianamente dal
recinto della nostra mente, è ovviamente un compito invisibile all’esterno, ma
non per questo meno fondamentale, poiché si tratta di un “gregge” che
inevitabilmente si proietta, si materializza all’esterno.
L’importanza del nostro
essere dei “buoni pastori” in questo nostro compito nascosto è infatti
strettamente correlato con la nostra seconda identità di pastori, quella che ci
impegna all’esterno, che ci qualifica immediatamente per come ci comportiamo nei
confronti di un altro nostro gregge, di quelle “pecore” cioè che si
identificano come nostro prossimo, nostri fratelli, “pecore” che vivono
materialmente la nostra stessa esistenza, che ci stanno sempre vicine, oppure
che incontriamo saltuariamente: pecore con le quali dobbiamo relazionarci
materialmente, pecore che meritano tutta la nostra attenzione, la nostra
carità, la nostra dedizione: soprattutto, pecore che non dobbiamo “usare”, non
dobbiamo “gestire”, non dobbiamo umiliare; pecore che al contrario, proprio nel
nostro ruolo di pastori, guide, maestri, genitori, leader, dobbiamo “servire”
con la massima attenzione e cura: perché sono tutte “creature” speciali, che
Dio ci ha affidato come compagne di percorso: sono insomma quelle “pecore” che
costituiscono il nostro “capitale umano”.
A questo proposito, essere in
particolare dei “buoni pastori” significa anche non scaricare su di esse i
nostri malumori, le nostre manie, le nostre fissazioni, non imporre le nostre
vedute; significa non abusare della nostra autorità, non far pesare le nostre
richieste; significa non svilirle, non disprezzarle considerandole degli
oggetti, degli “utensili” da usare, delle “macchine” a nostro servizio,
privandole di ogni loro dignità personale.
Quante “pecore” purtroppo
vivono in balia dei capricci dei loro “pastori”! Quante devono fare i conti con
la loro aggressività, con la loro violenza, con i loro comportamenti
assolutamente negativi, immorali, inumani, che generano dolore, ansia, insicurezza,
smarrimento.
Il “buon pastore”, al
contrario, trasmette stima, crea serenità, fiducia, gioia; egli crede nelle
proprie pecore; è convinto che in ognuna di esse ci siano germogli di bontà:
“Io credo in te perché sei importante, sei una creatura di Dio, sento che tu vali”.
Per questo egli vuol conoscere personalmente una ad una le proprie pecore:
vuole valorizzarle singolarmente, perché nessuna è uguale all’altra: egli sa
infatti che dirigerle, guidarle, significa stimolarle, incoraggiarle, spronarle
nella loro personale creatività, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro
stesse.
Essere “buon pastore”, in una
parola, significa amare le proprie pecore. Dove amare, come insegna Gesù, sta
per servire: mettersi cioè al servizio delle loro possibilità, delle loro
necessità, ponendo in secondo piano la propria volontà. “Servire” non è assolutamente
“asservire”, termine simile, ma che significa l’esatto contrario; poiché indica
un comportamento inaccettabile in un buon pastore, come sottomettere,
assoggettare, conquistare, dominare gli altri.
Anche qui però bisogna fare
attenzione, perché questa importante “apertura” verso l’altro, questa
sensibilità, questa bontà, non va assolutizzata indiscriminatamente: non deve
cioè “condizionare” sistematicamente il pastore, non deve influenzare a priori
ogni sua valutazione. Egli deve sempre rimanere neutrale, libero, per decidere
con equità, con imparzialità; chi comanda, chi dirige non può assecondare
passivamente ogni velleità, ogni capriccio delle persone affidate alle sue
cure, soprattutto se sono minori. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere,
se c’è da puntare i piedi per riprendere una “pecorella” finita fuori strada,
va fatto nella carità ma con mano ferma, senza esitazioni o ripensamenti. Il
capo, l’educatore, non deve temere il loro rifiuto, non deve temere di
deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono genitori
letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno tenere un
punto fermo. Madre e padre per assecondarli finiscono per mettersi l’una contro
l’altro: con il risultato che in genere l’una, la madre, per lo più disponibile
al “sì”, è la buona; l’altro, il padre, propendendo per il “no”, è il “solito”
cattivo. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla
sempre vinta, di comportarsi come vuole, diventando col crescere sempre più un
tiranno, un despota, un patologico narcisista, che non avrà rispetto per niente
e nessuno, convinto di potersi permettere tutto ciò che vuole.
Molti “pastori” confondono la
bontà con la debolezza: si guardano bene dal dire un “no” deciso, temendo di
offendere, di ferire, di mancare di rispetto, di passare per “senza cuore”.
Pensano che deludere talvolta le aspettative, i desideri di qualcuno, equivalga
ad averlo in odio, ad essere crudeli nei suoi confronti. Ma non è vero: la
delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono posizioni
decisamente positive, costruttive, perché obbligano il destinatario a fare
delle riflessioni altamente educative, a capire cioè che nella vita non tutto è
permesso, non tutto è legittimo; che esistono dei limiti, delle condizioni, dei
paletti da rispettare; che la convivenza umana, la morale, la coscienza,
impongono delle restrizioni, dei “no” precisi, che non consentono a nessuno di
fare ciò che si vuole.
D’altro canto però, i
“pastori” non devono neppure “maramaldeggiare”: non devono cioè infierire per
principio, per partito preso, sui loro sottoposti, opponendo sistematicamente,
sadicamente, un netto rifiuto ad ogni loro iniziativa: perché anche questo è
sbagliato, è altrettanto diseducativo; est modus in rebus, diceva Orazio: ogni
cosa ha una sua misura, un suo modo ottimale per affrontarla; non bisogna mai
scegliere gli eccessi, il rigore preconcetto, perché, pur trovandosi nel
giusto, colui che comanda senza amore, senza carità, finisce col perdere la
propria autorevolezza, col diventare un burbero fantoccio che difficilmente
otterrà ciò che chiede.
Il buon “pastore” sta sempre
davanti, perché deve condurre gli altri (in greco agaghèin, da àgo,
portare, precedere, guidare): deve cioè percorrere la loro stessa strada, deve
dare il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i
suoi passi la direzione più agevole e sicura da seguire: convinto che le regole
del reciproco rispetto, dell’amore, della comprensione, sono le stesse, sia per
chi precede che per chi segue, sia per i pastori che per le pecore. Amen.