“In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva” (Mc 1,29-39).
Il vangelo
non dice nient’altro se non, appunto, che Gesù la guarisce; niente di
straordinario: egli lo fa con chiunque, lo fa con gente estranea e sconosciuta,
e quindi, a maggior ragione, lo fa con la suocera di uno dei suoi primi
discepoli.
Potremmo
quindi fermarci tranquillamente qui, se non fosse per la curiosità di conoscere
altri particolari sulla vicenda come, per esempio, quale sia stata la causa scatenante
del febbrone che ha improvvisamente colpito la donna, in maniera tanto grave e
preoccupante, da richiedere l’intervento urgente di Gesù: una curiosità sollecitata
peraltro dalla voluta essenzialità del racconto di Marco.
Cerchiamo
allora di capire meglio questa particolare “situazione”, inserendola nel suo contesto
più ampio.
Sappiamo
dalla presenza di questa “suocera”, che Simone è sposato, che ha una famiglia,
e che possiede una casa sufficientemente ampia, in grado di ospitare anche la
madre di sua moglie. Sappiamo che l’attività del capo famiglia è la pesca, alla
quale si dedica nelle ore notturne, servendosi di reti e di una barca di sua proprietà:
un lavoro povero con cui tuttavia riesce ad assicurare alla sua famigliola un’esistenza
dignitosa. Ma sappiamo anche che poche ore prima, per aderire alla chiamata di
Gesù egli, senza alcuna esitazione, aveva abbandonato tutto, casa, attrezzatura
e lavoro.
E allora
pensiamo: non sarà forse questa “pazzia” di Simone la vera causa della febbre improvvisa
di sua suocera? Lei e la figlia infatti non lavorano, si occupano soltanto della
casa: Simon Pietro rappresenta pertanto il loro unico sostentamento.
C’è un verbo
che fa pensare a questa possibilità: per indicare la febbre della donna, Marco infatti
usa il termine greco “purèssousa”, da “purèsso” che significa,
oltre che “avere la febbre”, anche “essere furioso, risentito, irritato;
avere l’animo infuocato, bruciare dentro”: significato che fa pensare appunto
ad una persona afflitta non tanto da una febbre corporea, esterna, quanto da un’alterazione
spirituale interna; ad una con l’animo “alterato, infuocato”; in altre parole, la
suocera di Pietro, più che febbricitante, era letteralmente in preda all’ira,
arrabbiata furiosa, piena di rancore, prima di tutto con il genero, colpevole,
secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità
familiare; e poi con Gesù, da lei ritenuto la causa scatenante di questa loro sventura.
Appena Gesù
viene a conoscenza del suo malore, appena “gli parlarono di lei”, Egli
intuisce il vero dramma della donna: capisce immediatamente la vera causa della
sua “malattia”, del suo febbrone: “Questa donna ce l’ha con me!”. Poteva
benissimo far finta di nulla, come in genere facciamo noi in questi casi;
poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo! È
un problema suo, non mio!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna
si trova veramente in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E
appena entra in casa, le si avvicina, la fa alzare prendendola per mano.
Fra i
due c’è distanza, incomprensione, diffidenza, non si conoscono: Gesù per questo
“si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la “incontra”,
si fa conoscere.
“La
sollevò”: la
donna è distesa, sulle sue, non vuole avere nulla a che fare con Gesù, ma Lui
le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si toglie
cioè dalla sua paura, dal suo totale disappunto, dalle sue preoccupazioni per
ciò che le sta accadendo.
“La
prese per mano”:
Gesù le fa capire con i fatti che vuole incontrarla, che vuole entrare in sintonia
con lei; vuole che “senta” chi è lui, le offre l’opportunità di capire, di farsene
un’esperienza diretta. E lei finalmente si adegua. E cosa avviene? “La
febbre la lasciò”.
Non
sappiamo in realtà come sia successo, cosa i due si siano detti. Ma queste
poche parole ci confermano che la donna ha capito che l’uomo accanto al suo
capezzale non è né un pazzo, né uno fuori di testa. Il vangelo dice addirittura
che “si mise servirli”.
Il capovolgimento
dei suoi sentimenti è istantaneo e decisivo: l’odio si tramuta in umile
servizio, il rancore in amore per l’uomo straordinario che le sta di fronte; il
volerlo più lontano possibile si trasforma nello stargli docilmente vicina, a sua
completa disposizione.
Finché
la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di
sofferenza.
Ma
quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando condivide
le sue ragioni, allora tutto il suo fuoco, il suo rancore, il suo odio, la sua
febbre, improvvisamente svaniscono. E finalmente capisce che Simone, di fronte
alla chiamata di quell’Uomo, aveva preso la giusta decisione! Lei aveva bisogno
di aiuto, di comprensione, di amore. E Gesù glieli dà.
Esattamente
come continuerà a darli a quanti incontra per le strade della Palestina. Ogni
giorno.
Il
vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie
e scacciò molti demoni”.
“Molti
demoni”:
certo, ai tempi di Gesù gli indemoniati dovevano essere proprio tanti!
Oggi
invece sembrano spariti: la gente non crede più al demonio. Un personaggio che
non si vede, non si tocca, che non va mai in televisione, non c’è, non esiste.
Possiamo stare tranquilli: il demonio è un fenomeno che non ci deve
preoccupare. È una favola d’altri tempi!
Ma
noi sappiamo molto bene, che non è così. Il demonio esiste, è presente, eccome!
Il
Vangelo ce lo descrive come un essere spirituale, un’entità ribelle, un
“qualcuno” che ci spia in continuazione, che ci segue ovunque; uno che è
contrario all’Amore; uno insomma che va costantemente combattuto, perché
rappresenta un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la
nostra serenità, per la nostra salvezza.
Un
esempio pratico? “Demoni” sono tutte le accattivanti lusinghe del male, le luci
scintillanti del peccato che accecano la ragione. Noi pure possiamo essere autentici
“demoni”, nel momento in cui adottiamo uno stile di vita opposto a quello che
ci suggerisce la nostra coscienza, lo Spirito di Dio; “demoni” siamo noi
quando, ammaliati dallo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo
limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima
spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta; siamo noi, quando ci
disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari non
appena percepiamo che essa è indebolita, ferita, inerte.
Come
combattere questo demonio? Con la preghiera. Marco scrive che Gesù “al
mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non
nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo
deserto: la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel
raccoglimento del cuore; è infatti solo nel “deserto” della penitenza dei
sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare
il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo
spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È
in tale “isolamento” che possiamo vincerli, come faceva Gesù, con la preghiera:
una preghiera che deve essere, come la sua, intensa, umile, sincera,
riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di
completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma
decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di
cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che
presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e
pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla
bontà di Dio.