Il vangelo di oggi torna ancora sul tema della “chiamata”, della vocazione.
Gesù
passa e guarda: vede Simone e Andrea, due pescatori che stanno gettando le
reti, e li invita a seguirlo per essere suoi discepoli.
Non
sappiamo cosa Gesù abbia notato di tanto interessante in loro: due poveretti
che stanno semplicemente facendo il loro lavoro: un lavoro umile e ordinario,
che non ha assolutamente alcuna attinenza con la missione per cui vengono
scelti.
Ma Gesù
vede più lontano di noi; capisce al volo chi sono in realtà. Lo capisce dalle
piccole cose, dai piccoli gesti. Egli li osserva infatti nella loro
quotidianità, per come affrontano gli inevitabili imprevisti del momento,
deducendo da ciò la loro grandezza. Perché non sono mai le cose che facciamo a
renderci importanti, ma è la cura, l’amore che ci mettiamo nel farle.
Gesù non
ha bisogno di chiedere ai due pescatori i loro “curricula” o gli “attestati di
frequenza” a qualche “università” rabbinica del tempo. Nulla. A Gesù basta
guardarli in faccia per decidere di chiamarli ad essere “pescatori di
uomini”.
È una
proposta sconvolgente, quella che prospetta loro; un radicale cambiamento della
loro vita: nonostante ciò, essi accettano immediatamente, piantano tutto, e lo
seguono.
Esteriormente,
è vero, non è cambiato nulla: ma è il loro intimo, il loro animo, è la loro
mentalità che è completamente cambiata, rivoluzionata.
Se prima
la barca (il lavoro) e la casa (la famiglia) erano il loro “assoluto”, ora non
più. Hanno capito che nella vita ci sono altri impegni, altri ideali,
importanti e altrettanto fondamentali, che vanno affrontati con un entusiasmo diverso,
con un “amore” diverso: un sentimento nuovo, travolgente, che vuole essere anteposto
a tutto, che vuole guidare la loro vita, che vuole suggerire ogni loro pensiero.
E lo
hanno capito guardando a loro volta Gesù: una persona che non è preoccupata per
il lavoro, che non si affanna per impegni e scadenze, per cosa mangiare o per
come vestirsi; una persona che è spinta da un’unica preoccupazione: di
avvicinare continuamente nuove persone, di offrire loro amore, amicizia,
carità, tenerezza, comprensione, sicurezza. Sicuramente Gesù non è ricco: ma
l’uomo che essi vedono, è sereno, felice, e soprattutto tanto amato.
“Il
tempo è compiuto. Il regno è vicino; convertitevi e credete al vangelo”.
I primi
discepoli hanno dunque accolto l’invito di Gesù. Il tempo di scegliere, di
lasciare le barche, di lasciare la loro casa è il passato: convertirsi,
cambiare stile di vita, modo di vedere, è il loro “adesso”. Non possono più
tergiversare, far finta di nulla: l’impulso interiore che avvertono è solo
quello di seguire Gesù, e collaborare alla costruzione del Regno di Dio.
Quando
sentono parlare del “Regno di Dio”, le persone rimangono piuttosto
disorientate: “Cosa vuol dire? In che consiste?”. C’è chi pensa al paradiso,
all’altra vita, chi pensa a chissà cosa. Niente di tutto questo: il regno di
Dio è la Vita Vera, quella che dobbiamo vivere qui nell’oggi seguendo
fedelmente gli insegnamenti di Gesù. Ogni scelta, ogni sforzo, ogni azione che ci
riguarda deve essere finalizzata alla realizzazione della Vita (ego sum Via,
Veritas et Vita), deve cioè concorrere alla realizzazione della presenza di Dio
in noi e, nostro tramite, nel mondo.
Ecco
perché è importante anche per noi scegliere adesso, perché non possiamo
rimandare: perché questa è una scelta che impegna, che cambia radicalmente la
nostra quotidianità. Una scelta che deve realizzare, concretizzare, trasformare
in vita vissuta il messaggio evangelico in cui crediamo.
Il Regno
di Dio non può più aspettare, esige un nostro immediato intervento: e dobbiamo
iniziare subito col mettere ordine al nostro disordine spirituale.
Tutti i
discepoli hanno ricevuto una proposta ardita, rischiosa, provocante, fuori dai
loro schemi; era decisamente controcorrente. Ma le parole di Gesù rinfrancarono
la loro debolezza, riempirono la loro anima. Sentirono i loro cuori incendiarsi
di amore per Lui.
Sicuramente
si saranno chiesto: “Ma perché proprio noi?”; “Cos’abbiamo noi di speciale?”.
Nulla! Assolutamente nulla. E noi come loro.
Dio non
sceglie uomini con doti particolari, speciali, super-intelligenti o
super-dotati. Ha scelto e sceglie sempre persone umili, disponibili, persone
pronte a farsi coinvolgere, a seguirlo.
Gesù,
nella sua missione terrena, non ha mai cercato persone già sante e perfette per
essere suoi discepoli, ma solo umili, disponibili, aperti: Pietro, per esempio,
la “roccia” su cui doveva poggiare la Chiesa, dubitò e lo rinnegò più volte;
Giacomo e Giovanni erano presuntuosi, ed erano chiamati “boanèrghes” (Mc
3,17), “figli del tuono”, proprio perché “peperini”, suscettibili,
carrieristi, al punto da litigare tra loro per il posto da occupare nel futuro
“regno”; Tommaso era sospettoso, dubbioso e diffidente: se non toccava, se non
c’era e non vedeva, lui non credeva; Giuda era attaccato ai soldi e,
addirittura, per trenta miseri denari lo tradì.
Ebbene,
tutte queste miserie confermano che Dio lavora con il poco a sua disposizione:
uomini comuni, limitati, pieni di difetti, spesso immaturi; uomini, però, che
non hanno esitato a mettersi completamente al suo servizio.
Il
vangelo dice infatti “lasciate le reti” (afèntes tà dìktua): lasciarono
cioè le loro idee, i loro pregiudizi, le loro fissità e lo seguirono.
Gesù
passa e ci chiama. Anche a noi chiede sempre e solo una cosa: di lasciare le
“nostre case”, i nostri riferimenti, le nostre certezze, di fidarci di lui e
seguirlo.
Ma non è
sempre facile per noi: non siamo proprio convinti di lasciare ciò che siamo,
ciò che sappiamo, ciò che viviamo, per incamminarci verso qualcosa di nuovo, di
sconosciuto, di impegnativo: ci sentiamo inadatti a seguire Gesù, preferiamo
rimanere con le nostre reti bucate.
Nella
nostra vita siamo dei campioni nell’aggrapparci a quanto ci capita a tiro -
lavoro, famiglia, parenti, amici, soldi, idee - pur di non schiodare dalle
nostre posizioni. Cerchiamo ovunque garanzie, certezze, rassicurazioni,
vorremmo che il mondo girasse sempre secondo i nostri piani: ma questo è semplicemente
assurdo.
Se ci
fissiamo su quanto potrebbe succederci l’indomani, nel futuro, su cosa ci
accadrà o non ci accadrà, se avremo o no la forza di affrontare l’imprevisto, è
la nostra fine, ci demoralizziamo, diventiamo schiavi di ogni possibilità.
Il segreto
della vita che Gesù ci prospetta è invece quello di abbandonarci, di fidarci,
di smettere di voler pianificare tutto a nostro esclusivo tornaconto.
Dobbiamo
convincerci, che quel “venite dietro a me” non è un ordine, ma una
proposta di felicità, di vita piena, di vita vera, un’offerta di enorme valore:
non è un invito ad un giro turistico, ma l'invito ad una imitazione, ad una
“sequela”, inizialmente difficile, ma sempre possibile per tutti: chiediamo
allora a Dio il coraggio di “andare”, di seguirlo, di non rinunciare mai ad
essere come lui ci vuole, di non resistergli, di lasciare “tutto”, per
diventare anche noi “pescatori di uomini”.
Già,
perché questo dobbiamo essere nella sua Chiesa: “pescatori di uomini”.
Oggi la
Chiesa ha dimenticato questa missione: tutti indistintamente, pastori e fedeli,
siamo diventati cerebrali, freddi; ci lasciamo blandire da questo mondo, dalla
pubblicità, dall’apparire, dalle ovazioni mediatiche; ci preoccupiamo più
dell’ovvio e delle futilità, piuttosto che di tutelare apertamente quei
principi fondamentali della nostra fede cristiana e cattolica, intoccabili e
mai negoziabili; non ci preoccupiamo più di evangelizzare nuovi popoli, di rettificare e consolidare la fede dei nostri fratelli più deboli, ormai assorbiti dal relativismo
dominante; non siamo più l’espressione visibile di un Cristo invisibile, ma
sempre presente tra noi; in una parola la Chiesa oggi non sa più “guarire” i
suoi figli e i suoi fratelli, come sapeva fare Gesù.
Ma una
Chiesa che non “guarisce”, che non “irrobustisce” più la fede in chi vacilla,
che non la rende ricchezza insostituibile per chi la cerca, che non traccia più
la strada sicura al gregge, che non cerca di ricondurre all’ovile le pecore
smarrite; una Chiesa che non si preoccupa più di “salvare” gli uomini per
questa vita, come può pensare di poterli salvare per l'altra?
Purtroppo
il paventato fumo di satana ha ormai ammorbato i suoi settori vitali: adoratori
del dio sesso e del dio denaro, continuano a deturpare impunemente il suo volto
splendido, riducendola da immacolata Sposa di Cristo a squallida meretrice.
Ci
consola e ci sostiene la promessa di Cristo: “Io sarò con voi fino alla fine
del mondo, èos tès suntelèias tù aiònos” (Mt 28,20).
Ed è
vero: perché ci sarà sempre nella Chiesa un insopprimibile manipolo di umili e
santi profeti, che con la loro voce, le loro preghiere, la loro predicazione e
la loro vita esemplare, riusciranno ad avere la meglio su tale sudiciume e,
come già il profeta Giona per la biblica Ninive, scongiureranno la sua totale
distruzione.
È quindi
al seguito di questi degni e instancabili “pescatori”, che dobbiamo
prontamente tornare anche noi al “metodo” di Gesù; per farlo non abbiamo più molto
tempo, personalmente non abbiamo secoli a nostra disposizione, perché, come ci
ricorda san Paolo, “il tempo si è fatto breve!” (1Cor 7,29).
Il “metodo”
di Gesù da praticare? L’amore: Egli per tutti è stato padre, pastore, medico,
taumaturgo: guardava le persone, le amava, le conquistava.
Il suo
era un amore profondo, concreto; un amore che raggiungeva i malati guarendoli
all’istante nel corpo e nell’anima; raggiungeva i morti ed essi subito
riprendevano vita; era un amore misericordioso, fatto di accoglienza, di
ascolto, di empatia, di conforto, di emozioni, di pianto, di gioia, di fiducia;
ma era anche un amore severo, non dimentichiamolo mai, che quando necessario,
rovesciava banchi e mercanzie, sferzando venditori e ladri che occupavano vergognosamente
l’area del sacro Tempio.
L’uomo
contemporaneo, galvanizzato dal materialismo ateo, ha un bisogno assoluto,
vitale, di percepire, di sentire, di “toccare” con mano questo amore di Dio; ha
necessità estrema di questo amore che, unico, risana l’anima, trasforma il
cuore, illumina la mente.
Sì, noi
per primi abbiamo bisogno di questo amore. La Chiesa tutta ne ha bisogno!
Perché
quello di Dio è “agàpe”, è amore puro: è la sua stessa definizione, è la sua identità;
dice infatti Giovanni “Deus caritas est”; meglio: “O Theòs agàpe
estin”, “Dio è Amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane
(mènei) in lui” (1Gv 4,16b): ricordate domenica scorsa? “Maestro, dove
abiti?”, “pù mèneis?”: anche qui per tre volte lo stesso verbo “mèno”,
rimanere!
L’amore
di Dio, insomma, è la nostra “residenza”, è la garanzia illimitata, senza
scadenza, dell'eterna sopravvivenza nostra e della Chiesa di Cristo. Amen.
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