“In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafarnao,] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Mc 1,21-28).
Per
inciso: sappiamo dai vangeli che Gesù non è mai entrato nelle sinagoghe per partecipare
a cerimonie, o per pregare: qui lo fa, ma come sottolinea Marco, direttamente per
insegnare!
Un
comportamento il suo, con cui forse voleva farci capire che certe preghiere, certe
sfarzose liturgie, certe catechesi roboanti, oggi come allora, non sono per niente
gradite a Dio.
Il che,
tradotto in chiaro, ci porta a pensare: se le nostre preghiere, le
celebrazioni, le liturgie delle nostre chiese non sono compiute esclusivamente
a lode di Dio, se non si trasformano in vita cristiana vissuta, in amore,
passione, coraggio, fiducia, in apertura e solidarietà verso i fratelli, rimangono
tutte soltanto delle “sacre” rappresentazioni, spesso neppure belle ed
edificanti, che lasciano Dio completamente indifferente; se le nostre liturgie si
limitano ad un insieme di movimenti sciatti, disordinati, meccanici, consunti
dall’uso, se la nostra partecipazione è soltanto sterile ripetizione di formule
ormai inaridite dalla ripetitività, prive di convinzione, di presenzialità, di
consapevolezza, di spiritualità, ebbene: sono celebrazioni che non servono
assolutamente a nulla, che non riusciranno mai a creare quella particolare
atmosfera soprannaturale attraverso cui poter incontrare, ringraziare, lodare, il
Dio della Vita.
Ecco
perché le liturgie devono emozionare, devono appassionare il nostro cuore, devono
potenziare la nostra fede, tutte le nostre risorse; devono soprattutto soddisfare
la nostra anima creando quell’incontro specialissimo con l'Infinito, con il Dio
Amore, che ha scelto di “rimanere” con noi, in noi.
Gesù dunque
entra nella sinagoga, legge e spiega: predica e la gente si “stupisce”; rimane sorpresa,
ammirata, (in greco “exeplessonto”, “sbalordivano, rimanevano sconvolti”),
da ciò che dice, da come parla, perché lo fa con “autorità”, con credibilità,
convinzione e fascino: la sua esposizione è decisamente superiore a quella degli
scribi; tutti i presenti si rendono conto che, a differenza loro, le sue parole
provengono direttamente da Dio, le sentono scendere in profondità nei loro cuori,
cariche di umanità, di vita, di liberazione.
“Non
come gli scribi”:
un giudizio forte, pungente, quasi impietoso, questo di Marco, ma assolutamente
veritiero, concreto, reale: con Gesù non c’è “scriba” che possa competere!
Un parere
conciso, di quattro parole, che ci invita a riflettere: noi, che ci riteniamo
cristiani osservanti, noi che partecipiamo assiduamente alle liturgie della
Chiesa, noi che pensiamo di conoscere bene la sua Parola, noi che talvolta siamo
chiamati anche a proclamarla nell’Eucaristia domenicale, ebbene proprio noi
dobbiamo stare molto attenti a non trasformarci in altrettanti “scribi”;
dobbiamo cioè svolgere sempre i nostri piccoli “ruoli” con grande umiltà, consapevoli
dei nostri limiti, per evitare che un minuscolo servizio a Dio, diventi
occasione di vani personalismi, di puerili protagonismi.
“Vigilate”,
ci suggerisce tra le righe il vangelo: perché lo “spirito impuro” dell’orgoglio,
può introdursi con grande facilità nell’animo di tutti.
Ma chi
erano esattamente questi “scribi”? Inizialmente erano i materiali “trascrittori”
dei testi sacri (in greco “grammateus” = scrivano, amanuense), che
gradualmente si sono imposti nella comunità con una autorità così esclusiva, da
ritenersi superiori allo stesso sommo sacerdote, superiori persino alla stessa Torah,
della quale si dichiaravano infallibili interpreti, gli unici autorizzati a
commentarla in pubblico nelle sinagoghe: quando parlavano era come se parlasse Dio
stesso in persona. Solo che i loro interventi, i loro insegnamenti, erano diventati
stucchevoli, monotoni, sempre uguali: praticamente consistevano in aride
sintesi di regole minuziose, di leggi, di vincoli cavillosi, il cui unico scopo
era di lanciare accuse, critiche e rimproveri contro la condotta dei presenti per
le loro inosservanze.
Il
risultato? Una tortura, poiché tutti, chi più chi meno, si sentivano
colpevolizzati e mortificati: nessuno infatti avrebbe potuto ritenersi del
tutto innocente di fronte ai 613 precetti della legge mosaica, particolarmente
rigida e intransigente.
Poi nella
sinagoga arriva Gesù: con le sue parole, con la sua legge dell’amore, egli fa
esplodere nell’animo dei presenti un turbinio di sentimenti completamente
nuovi, rivoluzionari, che in un attimo stravolgono il clima rigido e terrificante
che condizionava il loro rapporto con Dio.
In
sostanza Gesù dice: “Dio vi ama tutti, proprio tutti, come figli suoi, di un
amore senza limiti; è questa la “buona notizia” (eu-anghelion = il
vangelo) che io vi sto annunciando. Non importa se pregate come previsto o no,
se siete in regola con le purificazioni o no, se siete perfetti osservanti oppure
no: Dio vi ama comunque, al di là di queste cose. Egli ama ciascuno di voi in
maniera esclusiva, a prescindere da come siete, da come vi chiamate, da come vi
presentate”.
Parole autorevoli,
convincenti, completamente nuove e diverse da quelle degli scribi: parole che
offrono nuove prospettive di salvezza; parole che infondono vigore nei cuori
dei presenti, poiché hanno finalmente compreso il valore rivoluzionario, innovativo
e risanante, di termini sconosciuti come “liberi, riscattati, apprezzati,
amati da Dio”. E lo dimostrano apertamente, esternando a gran voce la loro
profonda soddisfazione.
Nella
sinagoga, tra i tanti, c’è anche un uomo “dallo spirito impuro”, che
improvvisamente si mette a urlare; il suo spirito (ruah) non è quello di
Dio, ma appartiene al male, è “impuro”, è contrario a Dio; egli inveisce con
rabbia, con odio, contro la persona di Gesù, che ha appena parlato di salvezza,
di amore: “Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”.
Anche
qui il testo sollecita alcune riflessioni: prima di tutto, perché questo tizio parla
al plurale? Che ruolo pensa di interpretare attribuendosi l’autorità di parlare
a nome degli altri? È chiaro che anche qui, come sempre, il maligno intende
rappresentare tutti gli uomini, ed è a nome della collettività che egli si
esprime usando il plurale. Ma perché tanta avversione nei confronti di Gesù e
del suo messaggio? In fin dei conti il Maestro entra nella sinagoga e predica
tranquillamente; solo che, fatto singolare, questa volta la gente capisce perfettamente
quello che l’oratore espone, lo apprezza e si immedesima immediatamente nella bontà
delle sue parole: è questo il motivo cruciale dell’avversione di satana.
In
pratica, con la sua stravolgente novità dell’amore profondo e gratuito di Dio per
l’umanità intera, Gesù distrugge quella che è la teologia ufficiale,
l'insegnamento tradizionale degli scribi. Da qui la furia dello “spirito
immondo”, l’avversione rabbiosa contro Gesù, e contro Dio che Egli vuol far
conoscere a tutti.
L’uomo
che lui ora possiede, in fin dei conti, è un poveraccio, imbottito di credenze antiche,
di superstizioni popolari, di leggi opprimenti: le autorità religiose gli hanno
sempre insegnato che Dio è vendicativo, terribile, crudele, che può
distruggere, in caso di peccato, intere città: e lui, soggiogato dalla
tradizione ebraica, ne è fermamente convinto.
È l’emblema
di chi non pensa: è un “pensato” da altri. Non vive: sono gli altri che vivono
per lui. Solo che non può giustificarsi, lui come nessun altro, dicendo: “Io faccio
solo quello che mi ordinano; obbedisco e mi basta!”. Noi tutti infatti abbiamo
una testa: pensiamo, ragioniamo e qualunque cosa facciamo, siamo “noi” che la
facciamo, siamo noi gli unici responsabili delle nostre azioni, è nostra unica
responsabilità accettare o rifiutare la voce di Dio.
Nei
vangeli Dio non chiede mai l'obbedienza. Possiamo leggerli e rileggerli, e non
troveremo mai, neppure una sola volta, la richiesta di Gesù di “obbedire” (upakòuein)
a Dio. Mai!
Due sole
volte in Marco, e cinque in tutti gli altri vangeli, è presente la parola “obbedire,
obbedienza” (Cfr. Mt 8,27; Mc 1,27; Mc 4,41; Lc 8,25; Gv 3,36): ma non è
mai riferita all’uomo; quelle che obbediscono sono sempre le forze della natura
o quelle del male, ostili a Dio: una di queste volte è infatti presente nel
vangelo di oggi: “gli spiriti impuri obbediscono (upakùousin) a Gesù!”. Gesù
dunque non ci chiede mai di obbedire a Dio: ci chiede piuttosto, ripetutamente
e caldamente, di assomigliare, di imitare Lui e il Padre (Cfr.
per esempio Lc 6,36-38; Gv 13,14; 15,10.12); una cosa che, riuscendo ad
attuarla, ci spalancherebbe nuovi orizzonti.
“Che
vuoi da noi Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?”. Domande folli, irrazionali, da
dissennati, di chi non vuole arrendersi all’evidenza: eppure quante volte assomigliamo
anche noi all’indemoniato della sinagoga! È proprio così: ce ne stiamo nascosti,
indifferenti, ma quando Gesù ci smaschera, quando ci mette di fronte alle
nostre responsabilità, ai nostri sotterfugi, reagiamo anche noi urlando: Che
vuoi tu da noi?”; ma Gesù, con uno sguardo, manda in frantumi la nostra
arroganza, le nostre solide impalcature, i nostri progetti, i nostri alibi: come
un uragano, spazza via ogni nostra illusione, e tutto ciò che noi credevamo
vero, reale, remunerativo, si dimostra falso, inesistente, fallimentare!
“Taci!
Esci da lui!”
sono le parole risolutorie e salvifiche di Gesù: sono le Parole con cui Egli ci
salva, ci libera dai nostri demoni; sono le uniche Parole che possono estirpare
dal nostro cuore, dalla nostra mente, tutti quegli “spiriti immondi” che ci
posseggono, e guarirci.
Guarire
per mano di Gesù, venire risanati, perdonati sacramentalmente, è un evento di
misericordia, di amore, straordinario, meraviglioso: ci fa sentire nuovamente liberi,
leggeri, ci restituisce la nostra identità, la nostra dignità, la nostra serenità,
la nostra vita.
Ma
guarire a volte “fa anche male”, è addirittura “straziante”, doloroso; perché significa
strappare violentemente dal nostro cuore lo spirito impuro; dobbiamo
cioè distaccarci radicalmente da tutto ciò che credevamo certezza, libertà, fantasia
creativa, vita (spirito) e che, al contrario, si è rivelato nient’altro che
insicurezza, schiavitù, distruzione, morte (impuro).
È un’esperienza
dura, un’esperienza dolorosa che richiede coraggio: perché significa aprire,
spalancare, quelle porte sbarrate, che ci rifiutiamo sempre di aprire, sapendo
che nascondono realtà che ci fanno vergognare, scelte spiritualmente velenose
ed esecrabili.
Inutile
tentare la fuga, inutile opporci a tale percorso purificatore: per risorgere a
nuova vita, dobbiamo necessariamente scendere nel nostro intimo e con la fiamma
del dolore, del rimorso, cauterizzare le ferite inferte dal maligno.
Percorrere
la vita sulle orme di Cristo, non è un gioco; richiede tutto il nostro impegno:
perché è molto meglio prevenire la cancrena, che dover poi ricorrere a dolorose
amputazioni.
In questo
non basta essere prudenti, aver timore, ma è necessario misurarci, combattere
con coraggio, fronteggiare quel nemico, che è sempre pronto a colpire, a lacerare,
a straziare la nostra anima. Non permettiamogli scioccamente di anestetizzarci:
è il suo mestiere, e lo sa fare molto bene.
Pietro, nella sua prima lettera, è da questo che ci mette in guardia; scrive infatti: il nemico, “tamquam leo rugiens, circuit quaerens quem devoret”; come un leone ruggente va cercando qualcuno da divorare; “cui resistite fortes in fide”, resistetegli, saldi nella fede; infatti, prosegue Pietro, “dopo che avremo sofferto, Dio ci ristabilirà, ci confermerà, ci rafforzerà… (1Pt 5,8).
Adottiamo questa raccomandazione come nostro programma di vita: perché,
dopo la sofferenza, avremo da Dio, serenità, conforto, amore infinito. Amen.
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