“La
gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (Mt 16, 13-20).
Il
vangelo di oggi si apre con una precisa domanda di Gesù ai suoi discepoli. A
noi può sembrare strano che Gesù voglia conoscere l’opinione della gente sul
suo conto. Ma non dobbiamo dimenticare che la società del suo tempo si fondava
principalmente sui valori di onore e disonore: più di chi fosse in realtà, uno
doveva preoccuparsi soprattutto di che cosa la gente pensasse di lui; il valore
delle persone era infatti stimato in base a quello che diceva la gente: meno
sull’essere, più sull’apparire. L'onore del clan, della famiglia, della tribù
era l’unica cosa importante: veniva prima ancora del valore reale delle
persone.
Un
metro di giudizio, del resto, che non è molto lontano da quello imposto dalla
mentalità di questa nostra società contemporanea super evoluta. Anche oggi, la
paura di non essere considerati è profondamente radicata in noi: “Nessuno mi
considera, nessuno mi apprezza, nessuno mi vuole”. È l’indicatore della nostra
insicurezza: per questo siamo alla ricerca affannosa di stima, di amore, di amicizie,
di riconoscimenti. Più questa paura ci domina e più la nostra vita diventa una
corsa alla ricerca dell’apparire, una vita fittizia e irreale. Non conta più
ciò che siamo, ciò che viviamo o ciò che sentiamo, ciò che Dio sussurra al
nostro cuore, il nostro progetto di vita, la nostra vocazione, ma conta
soltanto non sfigurare, essere accettati, apprezzati, ammirati.
Ma
perché Gesù sembra adeguarsi a tale mentalità? Perché agli occhi dei suoi
discepoli vuole essere un uomo come tutti gli altri, il più possibile aderente
alla loro forma mentis; vuole essere in tutto come uno di loro.
Era
quindi naturale che il Maestro si preoccupasse di conoscere cosa pensassero di
lui, della sua missione, della sua predicazione, le folle che lo seguivano, che
crescevano numericamente giorno dopo giorno: Egli ha voluto mettersi in gioco
anche su questo. Ovviamente senza rimanerne turbato o succube delle loro
risposte.
I
discepoli, quindi, sollecitati in maniera così diretta, gli riportano le
opinioni più diffuse: “Ti ritengono Giovanni Battista, Elia, Geremia, un
profeta”. Tutto vero. Però sono anche un po' reticenti e bugiardi, perché di
Gesù si dicevano tante altre cose; si diceva, per esempio, che era un poco di
buono, uno che stava volentieri con le donne, uno che assumeva atteggiamenti
scandalosi e ambigui, che stava apertamente in compagnia di gente scomunicata
come i pubblicani, uno che amava mangiare e bere, insomma un
"eretico". Tutto questo non glielo dicono, anche se erano voci
altrettanto diffuse, che loro ovviamente ben conoscevano.
Gesù,
del resto, fu molto amato ma anche molto odiato, perché non fu una persona
insignificante, anonimo, senza carismi, uno che ti lasciava indifferente;
tutt’altro: una volta che l'avevi incontrato, dovevi necessariamente scegliere:
o ti piaceva o ti infastidiva; o lo consideravi amico oppure nemico. Non
c’erano alternative.
Gesù,
prima di esprimere quella richiesta, aveva già guarito centinaia di persone,
aveva risuscitato morti, aveva moltiplicato il pane per migliaia di persone,
aveva sedato tempeste. Eppure tutto questo non era servito a fargli avere dalla
gente un riconoscimento corale, sincero, onesto. Che
altro avrebbe dovuto fare ancora, perché tutti gli credessero? La fede non
nasce da ciò che guardiamo, semplicemente, ma da “come” lo guardiamo. Guardare
superficialmente, senza interesse, senza coinvolgimento mentale, non porta
automaticamente alla fede: bisogna guardare con passione, con serietà, con
onestà, bisogna farlo con altri “occhi”, non con quelli corporali, ma con
quelli dello spirito; perché non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere.
Ecco
perché le dicerie della gente su Gesù sono così diverse: perché sono il
risultato di una visione parziale, superficiale: ciò che dicono di lui è vero,
ma non rispecchia la realtà: sono supposizioni, opinioni, ragionamenti,
ipotesi, congetture, giudizi o pregiudizi. Sono
titoli, anche lusinghieri, elevati, ma non colgono nel segno, non dicono
interamente chi è Gesù.
Giovanni
Battista, per esempio, era un grande asceta, uno che mirava alla perfezione più
totale: l'ascesi, il perfezionarsi, il combattere i difetti, i vizi, erano per
lui scelte obbligate, fondamentali: col pericolo però che se l'ascesi si
trasforma in negazione della vita, se l'ascesi diventa rinuncia alla vita,
allora si pone automaticamente contro la Vita. Anche
oggi, infatti, molte persone “perfette”, alla ricerca della vera ascesi, sono umanamente
cariche di aggressività: giudicano gli altri molto severamente, non usano nei
confronti del prossimo né pietà né misericordia. La loro vita si riduce ad un “no”
alla vita.
Ma Gesù
non era sicuramente questo. Egli al contrario invitava e invita tutti a dire
"sì" alla vita, in maniera totale, amando soprattutto Lui, che è la Vita
per eccellenza.
Elia,
poi, fu il più grande profeta dell'Antico Testamento: talmente rigoroso che in
un giorno solo uccise quattrocentocinquanta sacerdoti di Baal. Ora, essere
combattivi e lottare, ieri come oggi, è molto importante, ma non è tutto: se si
fa della vita una lotta continua, si diventa degli intransigenti, perennemente
arrabbiati. Chi fa
dell'aggressività l’arma con cui attaccare tutto e tutti, non si accorge che la
vera guerra, quella che credono di combattere fuori, è invece dentro di loro. Ma Gesù, paladino della pace e dell’amore, non era neppure questo.
Infine
Geremia: nella sua vita impersonò la figura dell’uomo retto che soffre
ingiustamente; anche oggi è considerato il simbolo del giusto oppresso e
perseguitato. Ma Gesù, giusto giudice, trionfatore sul male, non era neppure
questo. Egli ha sofferto, tantissimo, è vero, ma non ha fatto solo questo. Ha
portato nel mondo anche la vera felicità, la gioia, l’entusiasmo.
Per
molti la vita è solo dolore, solo sofferenza, solo una “valle di lacrime”: ciò perché
in realtà si interessano solo della “loro” vita, non della Vita, non di Dio. Certo
anche noi, nella nostra vita, incontriamo angosce e sofferenze, dalle quali
purtroppo non possiamo esimerci; ma dobbiamo imparare a starci dentro, a
viverle, a superarle. La vita non è tutta qui. Gesù è venuto in questo mondo
non per soffrire, o perché soffriva, ma per insegnarci appunto a superare la
sofferenza, il dolore, la paura; è venuto a portarci la “buona novella”, il
“vangelo”, il lieto annuncio, il messaggio di felicità e di speranza.
Questo
è quanto dicono in giro, questi i personaggi che la gente vede in Lui: ma Gesù,
con le sue domande non si ferma qui. Quello che dicono di lui i lontani, non
gli interessa; Egli vuol sapere cosa “loro”, i suoi discepoli, pensano di Lui.
E quindi corregge il tiro: Ma “voi, chi dite che io sia?”. E Pietro si
lancia in una risposta che gli sgorga dal cuore: “Tu sei il Cristo, il Figlio
del Dio vivente!”. Pietro
non è un teologo, non è un filosofo erudito che sentenzia. Pietro è istinto,
intuizione, passione. L’idea di Gesù, figlio di Dio, non gli proviene
dall’istruzione, non l’ha acquisita gradualmente con anni di studio: per lui la
realtà divina del suo Maestro è l’intuizione di un istante, un fulmine, una
saetta che gli ha infiammato il cuore. Non è arrivato a comprenderlo tramite
sillogismi, calcoli mentali, ragionamenti: ma sotto l’impulso dello Spirito che
ha fatto sussultare il suo cuore generoso e innamorato. E Gesù
lo conferma chiaramente: “Beato te Simone, perché né la carne, né il
sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”.
Oltre
ai discepoli però quella domanda Gesù la rivolge anche a tutti noi,
direttamente, singolarmente.
E
dunque: “Chi è Gesù per noi? Cosa pensiamo di Dio? Che rapporto abbiamo con
Lui? Se la
nostra risposta è che sì, Dio lo conosciamo, significa anche che lo sentiamo
veramente come “nostro Padre”? che ascoltiamo la sua voce pacata che ci parla?
Che abbiamo avuto modo di “sentirlo vicino” anche nelle prove tragiche della
vita? No? E allora, come possiamo dire di “conoscere” uno che non abbiamo mai
incontrato? Perché incontrarlo significa cambiare necessariamente qualcosa
nella nostra vita, nel nostro carattere, nella nostra persona! Se siamo sempre
gli stessi, allora con la nostra vita dimostriamo chiaramente di non averlo mai
incontrato, né di averlo mai conosciuto. Anzi,
peggio, forse non abbiamo mai voluto incontrarlo, conoscerlo, prenderlo in
considerazione; per noi insomma, Lui non conta nulla, è un “qualcosa” di
irrilevante.
Incontrarlo,
conoscerlo, significa al contrario lasciarlo entrare nel nostro cuore: è come
aprire le porte ad un uragano, lasciarsi investire da un vento impetuoso,
irresistibile; è come innamorarsi irrazionalmente, perdutamente, di qualcuno,
fare un’esperienza unica che ci sconvolge la vita. Proprio
per questo molti, volutamente lo evitano, non vogliono misurarsi con Lui:
perché in realtà hanno paura di lui! Preferiscono imbalsamarlo, rinchiuderlo in
certi schemi, in certe celebrazioni, in certe formule, pensando di poterlo
gestire: preferiscono incontrare i “pensieri su Dio” o le “preghiere
a Dio”, piuttosto che incontrare Lui in persona, piuttosto che tuffarsi
ad occhi chiusi nell’oceano del suo amore.
Dio ha
il cuore spalancato per tutti, aspetta tutti, è disponibile per tutti: è
un'esperienza, un incontro, che tutti possiamo fare; non è un privilegio riservato ai
sapienti, ai santi, ai suoi ministri. Incontrarlo non è difficile, e
appena succede ce ne accorgiamo subito: sentiamo improvvisamente,
istintivamente, la presenza di qualcuno che dentro di noi ci consola, ci
suggerisce nuove soluzioni e, prendendoci per mano, ci guida per sentieri che
prima ci erano sconosciuti, in una vita completamente nuova, diversa; ci fa
capire che fino ad allora abbiamo solo sopravvissuto, abbiamo perso tempo,
abbiamo vegetato, dormito, camminato a vuoto; e ci assicura che, se ci fidiamo
di Lui, tutto, anche qualunque dolore o tragedia, acquisterà un valore
straordinariamente meritorio.
Ecco dunque
perché dobbiamo “conoscere” Dio: e dobbiamo conoscerlo nel vero significato biblico:
dobbiamo cioè rapportarci a Lui, entrare nella sua intimità, congiungerci al
suo amore, dobbiamo “sperimentarlo”; perché Dio non è un pensiero, un progetto,
ma è una realtà, una “persona” vera di cui appassionarsi, innamorarsi, inebriarsi.
Per cui
se non lo “sentiamo” sempre presente, se non dormiamo la notte per la gioia di parlare
in solitudine con Lui, se non viviamo il pianto consolatore del sentirci amati
da Lui, non diciamo scioccamente di aver conosciuto Dio. Prima “incontriamolo”,
e solo dopo potremo parlare di Lui.
Un
ultimo flash: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. La
Chiesa è di Cristo. La Chiesa è Cristo. Per questo deve essere il luogo
dell'esperienza di Dio, dell'incontro con Lui. Altrimenti perde la sua ragion
d’essere, la sua vitalità. Quando andiamo in chiesa e partecipiamo ad una
liturgia, ad un incontro di preghiera, quello che conta non è ciò che diciamo o
facciamo, ma se “tocchiamo” Dio, se lo incontriamo, se Lui ci tocca. Andare
in chiesa, e non essere “toccati”, è inutile, è tempo perso. Se non c'è Dio,
non c’è vita. L'uomo
di oggi ha un enorme bisogno di esperienze spirituali vere, di incontri
profondamente autentici. Si copre di mille cose, riempie le abitazioni di
oggetti, lavora senza sosta, si rifugia nella confusione, riempie le giornate
di mille interessi: perché ha paura di incontrarsi, di sperimentarsi, di vedere
quello che è nel suo intimo. In una parola ha paura di scoprirsi sbagliato,
fallito, inconcludente; ha paura di sentirsi giudicato dall'Alto oltre che dal
basso (da sé e dagli altri). Ecco perché è indispensabile più che mai
incontrare Dio, pregarlo, cantarlo, viverlo insieme all’intera assemblea: nella
Sua Chiesa.
La
Chiesa di Cristo, fondata su Pietro “roccia”, sia dunque anche per noi il luogo
dove ci sentiamo figli di Dio, dove possiamo piangere, ridere, sentirci a casa
(non giudicati), sentirci compresi e ascoltati, dove possiamo dare voce a
quello che abbiamo dentro.
Amiamo
la nostra Chiesa: difendiamola. Perché è Lei che ha la missione fondamentale di
proteggere quel sacro fuoco, quello Spirito che Dio ha posto dentro ciascuno di
noi; è la casa dell'anima, di tutto ciò che vive nell'anima. È Lei che ci lega
a Cristo, che ci rende liberi da tutti i comportamenti devianti, aggressivi, da
tutti quei demoni (rabbie, risentimenti, ossessività, ecc) che purtroppo si diffondono
troppo spesso da noi.
Se rimaniamo
legati a Cristo, siamo veramente liberi, sciolti da tutto il resto; se preferiamo
rimanere legati al resto, perdiamo purtroppo la nostra forza, la libertà, la
gioia di sentirci figli molto amati. Amen.