“Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: Signore, salvami! E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” (Mt 14, 22-33).
Il testo del vangelo di oggi segue immediatamente quello della moltiplicazione dei pani di domenica scorsa. Saziata la folla Gesù, con fare deciso, costringe i discepoli a salire su una barca, per fuggire proprio da quella folla che, dopo il portentoso miracolo di cui aveva beneficiato, lo considerava sempre di più un “uomo-mito”.
Gesù sapeva perfettamente quanto fosse pericoloso il consenso generale e il successo, conseguiti oltretutto in un contesto di così grande emozione. Certo, essere importante, essere famosi, ci fa piacere, ci fa sentire qualcuno, ci fa sentire amati, voluti, desiderati.
Ma ─ insegna Gesù ─ bisogna fare attenzione, perché il
successo può dare veramente alla testa: si rischia di stravolgere la propria
vita, di non vivere più come siamo, o come dovremmo essere, per finire di
vivere unicamente condizionati dall’idea fissa di mantenere e accrescere il
successo ottenuto, la fama, la gloria.
Per
questo, senza frapporre indugi, Gesù ordina ai discepoli di abbandonare la
scena: e lui stesso si ritira in un luogo appartato, per pregare in solitudine.
Un
particolare che ci suggerisce immediatamente il primo insegnamento:
“ritagliatevi del tempo per voi e vivetelo in solitudine; non abbiate paura di
restare da soli, di fronte a voi stessi”.
Nella
vita assistiamo a due forme di solitudine: una, che è frutto di isolamento, di
incapacità di relazionarsi, di dirsi e di aprirsi; una solitudine che è frutto
di un carattere difficile, egocentrico, narcisista, di quanti vedono unicamente
se stessi al centro dell'universo: una solitudine che si chiama “chiusura”.
Ma c'è
anche una solitudine buona, anzi necessaria. È quando l'uomo si mette di fronte
a sé stesso, davanti a quello che lui è realmente, a quello che è il mondo, al
vero senso della vita, alle sue paure, al suo desiderio di infinito; e questa
solitudine è “preghiera”.
L'uomo
matura soltanto in questa solitudine: guardandosi in faccia, negli occhi,
scrutandosi nel cuore, sinceramente, senza nascondersi nulla: può essere una decisione
dura, dolorosa, ma è il momento della verità, del silenzio, del deserto, dello
smarrimento; è quando finalmente uno smette di raccontarsi bugie illudendo sé
stesso.
Noi in
genere amiamo purtroppo la confusione: quella illusoria della televisione o il
frastuono assordante di una discoteca, delle piazze o degli stadi; amiamo il
caos, le strade affollate, il rumore, la moltitudine di gente.
Di
contro, Gesù sceglie la solitudine della montagna, i luoghi solitari, separati,
isolati. Una solitudine che Egli ci propone, poiché ci offre solidità, ci
permette di non girare a vuoto spiritualmente, ci fa sentire bene con noi
stessi. Noi infatti abbiamo paura di fermarci e di guardarci in faccia. Siamo
ancora dei bambini, siamo infantili e immaturi; non riusciamo a vivere senza avere
qualcuno al nostro fianco, abbiamo un bisogno costante di presenze, di appoggi,
di conferme, di lodi e di riconoscimenti. Stiamo insieme ad altri non per
amore, ma perché egoisticamente non riusciamo a stare da soli.
La vita
è la nostra fragile barca, tutti devono salirci, tutti devono prenderne il
timone e governarla tra le acque agitate dei nostri problemi, delle nostre
paure, di tutti quegli eventi che non siamo in grado di dominare e di
controllare.
Anche
noi, come i discepoli, di fronte a situazioni ingovernabili, ci sentiamo
smarriti come e più di loro: ci sentiamo nella bufera, e per quanto ci
impegniamo di remare, di “governare” la barca, ci rendiamo conto che non basta.
Sentiamo ad un certo punto di non farcela; sentiamo di non essere più in grado
di gestire, di controllare gli eventi.
Noi vorremmo
tenere sempre ogni cosa sotto controllo, gestire tutto, avere la vita nelle
nostre mani; ma non è così. A volte purtroppo ci troviamo ad annaspare nel
vuoto, le onde ci sovrastano, tutto ci sfugge, e ci sembra di affogare, di
annegare, di colare a picco. Come Pietro, abbiamo paura di non farcela, ma spinti
dalla necessità, proviamo anche di uscire dalla nostra barca, di aver fiducia
in Dio, di avventurarci; facciamo pure qualche passo, ma poi ci assale il
dubbio, la paura, il terrore della fine… e affondiamo!
Con
Pietro gridiamo a Gesù: “Signore, se sei tu, comandami di venire da te…”.
Ma è
proprio quel “se sei Tu” che rivela il nostro dubbio, che lascia
trasparire le nostre ansie, le nostre paure, le nostre deficienze: ce la faremo
a resistere per l’intera vita? Riusciremo a diventare ciò che “dobbiamo”
diventare? Saremo felici? Perderemo la fede? Ci salveremo? Pietro e noi
affondiamo perché dubitiamo. Affondiamo perché cerchiamo la sicurezza, la
certezza; vorremmo garantirci un ritorno sicuro prima ancora di iniziare il
viaggio, vorremmo non aver paura, non incontrare pericoli. Ma non è possibile.
A
questo punto abbiamo due alternative: cedere al dubbio o aprirci alla fiducia.
Se
guardiamo solo a noi, sicuramente affondiamo. Se decidiamo di cambiare strada,
non dobbiamo chiederci se abbiamo la forza di farlo, se ne abbiamo la capacità,
se si addice alla nostra personalità: dobbiamo semplicemente iniziare a camminare;
dobbiamo buttare tutto alle nostre spalle e proseguire, andare avanti tenendo sempre
lo sguardo fisso su di Lui, su Dio. Dobbiamo fidarci di Dio, di Lui che è la Vita,
e sicuramente con Lui cammineremo sulle acque, passeremo attraverso il fuoco,
affronteremo l’impossibile.
Dobbiamo raccogliere le nostre forze,
abbandonare le sicurezze, le certezze, e avviarci coraggiosamente dove il
Signore ci chiama. Sono momenti in cui non siamo più sulla barca, i nostri
piedi poggiano sulle acque, siamo soli. Non possiamo più contare sui nostri
aiuti consueti, sugli abituali riferimenti, solidi e collaudati, come la
famiglia, i genitori, i parenti, gli amici, ai quali ricorrere per un
confronto. Dobbiamo arrangiarci, dobbiamo farcela da soli, dobbiamo ad ogni
costo stare a galla e camminare, altrimenti affondiamo.
Se col tempo poi accusiamo la
pesantezza di questa situazione, la precarietà del nostro andare avanti, se non
crediamo più in noi stessi, se tutto ci appare impossibile, se i dubbi ci
assalgono, se sfiduciati ci blocchiamo e, presi dalla nostalgia, pensiamo di
abbandonare tutto e tornare indietro, ebbene: in quel preciso momento iniziamo
ad affondare!
Che fare allora? Esattamente come fece
Pietro: gridare, chiamare a gran voce Gesù, rivolgerci a Lui, fissare lo
sguardo in Lui, tendergli le mani e, fidandoci ciecamente, abbandonarci
completamente alla sua volontà: e subito constateremo che Egli non intende
abbandonarci tra i marosi della vita, ma è pronto a salvarci, a darci forza e
protezione stringendoci sollecito tra le sue braccia: sarà un incontro con Dio,
intimo e personalissimo, nel quale potremo sperimentare realmente la potenza
del suo amore di Padre.
La vita è movimento continuo, è un
costante “navigare” che richiede una meta ben precisa, un approdo sicuro da
raggiungere: una rotta da seguire tra infinite variabili, tra sempre nuovi
imprevisti, superabili solo con l’aiuto di Dio, che è la nostra “bussola”
indispensabile, la nostra guida sicura.
Certo, noi preferiamo la bonaccia;
amiamo il nostro immobilismo, il tergiversare in porto, il perdere tempo nel
mare piatto della nostra religiosità di superficie, ostentando un perbenismo
che è semplicemente inerzia, indifferenza, abitudine, carenza di fede e di
amore.
Avere fede e amore, significa infatti
levare le ancore, salpare immediatamente, ad ogni costo; significa osare,
navigare a tutta forza, affrontare possibili naufragi; e se da lontano
riusciamo finalmente a intravedere Dio, “chiamiamolo” a gran voce, preghiamolo
di ascoltarci, di invitarci a raggiungerlo. Questo significa avere fede e amore:
gettarci prontamente tra i marosi, correre fiduciosi sopra di essi, sapendo che
Lui è lì, pronto a sorreggerci, pronto a salvarci.
Il vangelo di oggi ci lascia dunque questo importante insegnamento: se guardiamo solo alle nostre forze, non possiamo che vacillare e finire sommersi dalle onde; se invece guardiamo a Dio, se confidiamo in Lui, allora tutto è fattibile, tutto diventa facile e superabile. Noi da soli non possiamo nulla, ma con Lui possiamo tutto. È sufficiente allungare verso di Lui la nostra mano, e Lui prontamente la stringerà forte con le sue. E avverrà il miracolo: aggrappati a Lui, potremo camminare speditamente sulle acque di qualunque mare in tempesta. Amen.
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