giovedì 16 luglio 2020

19 Luglio 2020 – XVI Domenica del Tempo Ordinario


“Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò” (Mt 13,24-43).

Anche oggi, come domenica scorsa, Matteo ci presenta una serie di “similitudini”, una serie di brevi parabole sul Regno di Dio: la zizzania, il granello si senape, il lievito.
Tutte hanno un filo conduttore, il “crescere”: lasciar crescere ciò che è piccolo, non impedire alle cose e alle persone di crescere, aspettare la maturazione.
La prima parabola è quella celebre della zizzania. Gesù è costretto a spiegarla bene, non perché i discepoli non siano in grado di capirla, ma perché non vogliono capirla così com’è, non sono cioè d’accordo con quanto Gesù vuole qui insegnare con le sue parole. 
Si tratta, infatti, di una parabola scomoda, per certi aspetti irritante, perché prospetta un dispetto diabolico, una realtà difficilmente accettabile, una situazione che contrasta con la loro idea di “discepolato”.
Cerchiamo di capirne il motivo: c’è un uomo che, con fatica e sudore, ha seminato nel suo campo del buon seme. Ma il nemico, sempre pronto a colpire, durante la notte, vi semina sopra la “zizzania”, una graminacea molto simile al frumento, e quindi impossibile da distinguere finché non arriva anch’essa a maturazione.
Il riferimento alla coesistenza del bene e del male nel mondo è evidente. È naturale quindi che la prospettiva di vedere ostacolata, o addirittura vanificata, la loro missione evangelica dagli interventi velenosi del maligno, non venga presa molto bene dagli apostoli: perché accettare passivamente tale evenienza? Perché aspettare che il male metta radici e si sviluppi? Non sarebbe preferibile metterlo subito fuori causa? Certo: ma - prosegue la parabola - a voler togliere il male (la zizzania) sul nascere, si corre il grosso rischio di estirpare anche il bene, il grano, poiché le radici di entrambi sono già sul nascere strettamente intrecciate.
Il messaggio è chiaro: “Dobbiamo tenere l’uno e l’altro”; dobbiamo cioè convivere con questa realtà; anche perché “Non sta a te decidere cosa è bene e cosa è male”, cosa va estirpato e cosa no; in altre parole non spetta a noi stabilire in partenza chi è buono e chi no.
 Nel libro della Genesi, nel raccontare la creazione del mondo, la Bibbia non dice che “prima” non c'era nulla, ma che c'era il “caos”, l'informe, l'indefinito. Cioè: c'era un qualcosa ma non era chiaro cosa. L'opera di Dio creatore è stata pertanto quella di “distinguere” (termine più appropriato del nostro “separare”): la luce dal buio; le acque dalla terra; le acque del mare dalle acque del cielo e via dicendo. Ebbene: questo è esattamente ciò che siamo chiamati a fare anche noi nella nostra vita: distinguere, discernere, dividere, per ridiventare quelle creature che Dio ha voluto a sua immagine. 
Accettiamo allora il nostro vuoto, perché è un pieno in confusione: è in essa che dobbiamo “agire”, portare luce, discernere, capire cosa dev'essere tenuto e cosa no.
In pratica Gesù ci ricorda che non ci siamo solo noi al mondo e che non tutto dipende da noi. Nel nostro campo personale non seminiamo solo noi. Hanno seminato i nostri genitori, la nostra infanzia, le persone che abbiamo incontrato, le esperienze della vita, le idee che circolavano nel nostro ambiente, le paure, i complessi, le ansie e le scelte di altri. Noi non siamo solo quello che vogliamo noi, ma siamo anche soggetti a condizionamenti, influssi e intrusioni. È da illusi pensare che siamo gli unici artefici della nostra vita. La tv e i media ci condizionano; l'ambiente, la moda, le persone vicine ci condizionano. Noi condizioniamo con il nostro vivere il mondo esterno, ma il mondo esterno a sua volta ci condiziona. A volte ci ritroviamo che la nostra vita è come quel campo. C'è il seme buono, ma c'è anche tanta zizzania. E a volte non dipende da noi. Altri hanno seminato cose che non volevamo.  
Dobbiamo pertanto accettare il fatto che la nostra vita non è solo nostra, ma che noi viviamo in un mondo. Dobbiamo accettare il fatto che anche altri abbiano seminato la loro semente: quella che avevano, quella che potevano o volevano seminare! E certe semine sono purtroppo mortifere. Ma è così. Qualcuno ha seminato zizzania: è una realtà. Ma qualunque cosa sia stata seminata, questo è e rimane il nostro campo: amiamolo, accettiamolo, accogliamolo, consapevoli che questo campo così come produce zizzania, negatività, insoddisfazione, può produrre anche vita, positività, luce. Accettiamo pure ciò che altri vi hanno seminato, ma iniziamo a seminare noi cose diverse e buone per noi. Non esiste infatti in assoluto il bene senza il male, la zizzania senza il grano, il positivo senza il negativo.
È molto infantile dividere il mondo in buoni e cattivi, in santi e delinquenti. È un principio troppo semplicistico. È un non voler accettare la complessità della vita e delle relazioni.
Noi tutti sogniamo l'uomo perfetto, un amore perfetto, un lavoro perfetto, una relazione perfetta, una vita perfetta. Questa illusione però rischia di distruggerci la vita, ci fa rincorrere un'utopia, una illusione che ci impedisce di goderla così com’è, tanto imperfetta, ma anche tanto bella.
In questo senso Gesù intende mettere in guardia tutti gli uomini dalla tentazione, molto diffusa anche oggi nelle maggiori religioni, di considerarsi gli autentici rappresentanti della volontà di Dio, i soli interpreti della sua Parola; di essere cioè a pieno titolo gli unici giusti e quindi gli unici eletti.
Egli però, in tutta la sua vita terrena, si è sempre espresso contro la “presunzione” dei migliori, degli arroganti, di quanti cioè si ritenevano impeccabili, giusti, osservanti, e che consideravano tutti gli altri dei peccatori, gente persa da condannare, gente sbagliata da convertire. Esempi di questo tipo sovrabbondano nel Vangelo: Farisei, Scribi, Maestri della Legge, erano davvero maestri nel disprezzare il prossimo.
Evidentemente egli doveva aver notato che la stessa tentazione si stava insinuando anche tra i suoi discepoli, tra coloro cioè che, seguendolo da vicino e ritenendosi i suoi confidenti, pensavano erroneamente di essere superiori agli altri.
Un errore, una ideologia, che nei secoli ha avuto una grande diffusione anche nella sua Chiesa, con risultati a volte drammatici: quanti fanatici, infatti, quanti “difensori” della fede e di Dio, hanno condannato innocenti, hanno ucciso, fatto guerre per estirpare gli “eretici”, per debellare il male dal mondo? La fanatica volontà di fare il bene ad ogni costo eliminando dal mondo ogni parvenza di male, ha fomentato guerre sante, rivoluzioni, inquisizioni, epurazioni, stermini razziali, arrivando a legittimare anche le più ripugnanti crudeltà.
Una religione che si ritenga strumentalmente superiore alle altre è una religione aggressiva e pericolosa; perché ogni superiorità imposta crea necessariamente inferiorità, crea pregiudizi, condanne e divisioni: di qua i buoni e di là i cattivi, da un lato gente salvata per diritto divino e dall’altro gente condannata senza appello. Ma il Dio di Cristo, ripeto, non è questo. Gesù non ci ha predicato un Dio come questo. Anzi Lui è il Padre di tutti, e ha mandato suo Figlio per tutti, per salvare tutti, ma proprio tutti.
Applicata alla nostra vita concreta, dunque, questa parabola ci dice che il campo su cui avviene la semina, è la nostra anima, siamo noi; e che in questo campo, nella nostra vita, crescono insieme grano e zizzania.
Non possiamo quindi vivere pensando, o sperando, di essere talmente bravi da produrre esclusivamente grano di prima qualità. Dobbiamo purtroppo fare i conti anche con la nostra zizzania, che a volte è delle peggiori. È un dato di fatto e dobbiamo accettarlo; dobbiamo cioè accettarci e amarci anche per i nostri lati oscuri, di non-luce, di non-bontà, di non-positività. È su questa dicotomia connaturale e inscindibile, che dobbiamo predisporre la nostra mietitura finale.
“Sei grano e zizzania”, ci dice Gesù. “Fai attenzione, perché se vuoi raccogliere solo grano scelto, estirpando la zizzania presente nel tuo campo, non ti rimarrà in mano nulla di nulla. Accettati umilmente così come sei: con le tue potenzialità, con i doni che ti ho dato, con le tue risorse; ma anche con i tuoi limiti, i tuoi errori, le tue vulnerabilità”.
Questo è importante: non cerchiamo di strafare ad ogni costo; non cerchiamo la perfezione “in assoluto”, al di sopra delle nostre possibilità. Cerchiamo invece di capire bene a quale grado di perfezione il Signore ci ha chiamati.
Perché un conto è voler essere perfetti, seguendo umilmente la nostra vocazione; un altro è mirare ad una perfezione assoluta, eroica, da “perfezionista”, che non ci appartiene: perché in questo caso otterremmo soltanto la soddisfazione del nostro “ego”, attraverso una continua e affannosa ricerca del riconoscimento e dell’ammirazione altrui.
Un perfezionista di questo genere è, oltretutto, un intransigente: per lui il mondo si divide unicamente in buoni e cattivi: non esistono altre possibilità. La sua vita è di conseguenza continuamente sotto stress, in totale ansia; spinto dalle sue vertiginose ed esclusive aspirazioni al bene, egli sarà sempre insoddisfatto di qualunque progresso, poiché la sua è una ricerca volta esclusivamente alla temporanea bontà del finito, e non a quella eterna dell’infinito, di Dio.
Egli vive fuori di sé, proiettato tutto all’esterno: è uno che non ha dubbi, uno che non ascolta mai i suggerimenti della sua coscienza, che non dà alcuna importanza a quanto gli suggerisce il cuore e, soprattutto, a quanto gli ordina di fare il Dio che abita in lui.
La nostra perfezione cristiana consiste dunque nell’attuare, nel dare vita, in semplicità e umiltà, a quel progetto che Dio ha tracciato per ciascuno di noi fin dalla nascita. Un programma semplice, adeguato alle nostre possibilità, che tiene conto dei nostri difetti, delle nostre miserie, delle nostre debolezze.
Del resto Gesù ha ottenuto le cose migliori proprio da persone nient’affatto perfette: da peccatori, pubblicani, prostitute, ecc. Egli non teme i nostri errori; Egli “teme” piuttosto la nostra insofferenza, la nostra megalomania, il nostro voler indossare abiti non nostri, decisamente fuori misura, stravolgendo in questo modo il vero senso della nostra vita.
L’uomo totalmente “perfetto” in questo mondo non esiste, perché tutti, chi meno chi più, siamo esposti alle prove della vita: in alcune ne usciamo vittoriosi, in altre dimostriamo tutta la nostra debolezza. Ebbene, in questo sta la nostra perfezione: trasformare vittorie e sconfitte in atti d’amore a Dio e ai fratelli.
Dopo la morte, un uomo si presentò davanti al Signore. Con molta fierezza gli mostrò le mani: “Guarda Signore come sono pulite e pure le mie mani!”. Il Signore gli sorrise, e con un velo di tristezza gli disse: “È vero, figlio mio; ma le tue mani sono anche vuote”.
Non perdiamo tempo allora, non intestardiamoci a voler scalare a tutti i costi le alte vette di una immaginaria “perfezione”. Stiamo con i piedi per terra, accettiamo umilmente dal Signore i nostri limiti, le nostre debolezze. Concentriamoci sul nostro più agibile “campetto”, coltiviamolo, seminiamo e facciamo crescere il nostro “grano” migliore, anche se frammisto all’inevitabile zizzania. È esattamente questo che il vangelo di oggi vuol dirci di molto importante. Amen.




giovedì 9 luglio 2020

12 Luglio 2020 – XV Domenica del Tempo Ordinario


“Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: Ecco, il seminatore uscì a seminare...” 
(Mt 13,1-23).

Siamo nel capitolo 13 di Matteo, il capitolo cosiddetto “delle parabole”. Gesù cioè parlava alla folla riferendosi a situazioni comuni, tratte dalla vita reale, dalla vita di ogni giorno, perché in questo modo gli riusciva più facile trasmettere i suoi insegnamenti, spesso profondi, anche alla gente più umile e culturalmente sprovveduta: la parabola infatti se da un lato può essere considerata infantile, un po’ sciocca, da chi si ritiene “superiore”, da chi la liquida a priori non volendo abbassarsi e lasciarsi coinvolgere, dall’altro è invece profondissima e salutare per chi vi entra dentro con il cuore. Se non la capiamo, significa che il nostro cuore è chiuso, è ottuso; non la capiamo perché siamo frastornati da mille preoccupazioni inutili, dal chiasso persistente del mondo.
Per ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo dell’anima, dobbiamo inoltre comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la nostra mente come un frullatore ci agita di continuo: dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a regolare con esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
La parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge la sua semente, e questa cade su quattro tipi di terreno.
Il primo è la strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire.
Il secondo è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente una protezione per quella parte di seme che cade tra le fessure; in realtà sono i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria; rappresentano le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta una difficoltà perché tutto finisca.
Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere ma, ancora debole, viene soffocato da tutta una serie di elementi esteriori.
Infine c’è il quarto terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto in tutta la sua potenzialità.
Possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di esse il testo ci offre sempre un insegnamento chiaro e profondo.
Se per esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a finire sotto esame: “come reagisco quando mi rendo conto che, nonostante tutte le mie fatiche per la semina, non ho ottenuto alcun risultato?”.
È una situazione piuttosto frequente: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato, ma non abbiamo raccolto assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero che gran parte di quanto seminato è andato perduto, è altrettanto vero che c’è sempre la possibilità che una parte, ancorché infinitesimale, nasca, cresca, e col tempo maturi. Quindi di fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè avere la certezza che il nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un risultato consolante.
Possiamo poi metterci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno sono caduto? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà destinata a rinsecchire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi, sarà molto difficile avere una vita sempre fertile e positiva. Ancora: “che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In cosa devo crescere, cosa devo sviluppare in me? Qual è quella caratteristica, quella peculiarità che è solo mia? In cosa mi distinguo da tutti gli altri? In una parola: qual è il mio carisma?”.
È fondamentale conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo standardizzato, identico a tutti in tutto, un uomo che non si distingue dagli altri, è soltanto una fotocopia, un doppione, un uno qualunque sommerso dalla massa, privo di ogni originalità.
Un seme è potenzialità pura: in esso c’è già praticamente tutto, ma non sarà mai nulla se non viene piantato, irrigato, se non germoglia e si sviluppa.
Allora: “Cosa deve accadere perché io nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far crescere?” Il vangelo dice chiaramente che non ovunque il seme può svilupparsi: ha bisogno di un humus particolare. Inoltre: “Cosa vuol dire per me germogliare?” Per poterlo fare un seme deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa comporta ciò nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una risposta, che solo entrando in noi stessi possiamo dare!
C’è infine una terza possibilità: quella cioè di metterci dalla parte del terreno. Allora le domande da porci sono: “Che terreno sono io concretamente? Che tipo di terreno penso di essere?” Perché il vangelo parla chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (che sono il seme), ciascuno di noi (il terreno) reagisce in maniera diversa.
Ciò vale anche per chi si appresta a leggere queste mie considerazioni: è impossibile infatti che esse producano in tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente pagina: rappresentano “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il vangelo di oggi.
Altri si sentiranno sul momento un po’ ricaricati, rigenerati, alleggeriti un po’ dai loro problemi; ma subito dopo torneranno ad essere come prima: indifferenti, annoiati, alle prese sempre con gli stessi problemi: è l’accusa che viene rivolta più spesso a certe persone che vanno a messa ogni domenica: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale!”. Questi impersonano il terreno “sassoso”.
Altri ancora si sentiranno toccati nel loro cuore da Gesù e vorrebbero tanto poter adattare il senso di queste parole alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, il rispetto umano, sono troppo forti e invadenti: “Ma credi ancora alle panzane che leggi? È sempre la stessa musica, è uno che parla, parla, e non si accorge che la vita reale è un’altra cosa; è un povero illuso!”: in questo modo il mini germoglio appena nato, verrà soffocato. Siamo nel terreno “con le spine”.
Eccezionalmente, però, può succedere che qualcuno, toccato nel cuore e nella mente dallo Spirito di Dio, esca da questa pagina più “motivato”, si senta meglio di come era entrato. Come mai? Perché ha scoperto, meditando queste parole apparentemente banali, un messaggio illuminante che il Divino Maestro riservava proprio a lui. Siamo nel “terreno buono”.
Lo stesso testo del vangelo, lo stesso “commento”, hanno dunque ottenuto risultati diversi: perché sono le persone ad essere diverse, sono i vari terreni su cui cade il seme della Parola. Il testo proposto è identico per tutti, è vero, ma non altrettanto lo è la fede, non le aperture o le chiusure mentali, non i pregiudizi, non le reazioni personali.
Allora non è tanto il seme l’elemento determinante, ma siamo noi, il terreno che lo riceve. Il seme che Dio sparge, uguale per tutti, trova una diversa efficacia in funzione del diverso terreno che lo accoglie: la strada arida, la pietraia, il roveto, quello fertile.
E se noi rappresentassimo un po’ tutti e quattro i terreni in questione? La parabola ci aiuterebbe comunque ad accettare, oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti).
Gesù infatti ci accoglie e ci ama comunque anche se non riusciamo a realizzare positivamente ogni nostro proposito, anche se talvolta siamo decisamente dei terreni aridi: purché riusciamo almeno a dimostrargli di riconoscere umilmente la nostra situazione, e la volontà di riprovare con costanza a trasformarci in terreni fertili: non dobbiamo pretendere da noi stessi risultati eroici immediati, di raggiungere cioè in un solo giorno il massimo della perfezione: la scala della santità è lunga, irta di difficoltà, tutta in salita: fare un piccolo passo quotidiano in avanti, creare almeno una piccola zona di terreno fertile nella nostra anima, è quanto ci deve bastare per infonderci coraggio, per farci guardare al traguardo finale con fiducia e serenità: perché nel seguire Gesù l’importante è non deprimerci, non rinunciare a combattere, non desistere mai dal salire in alto, qualunque cosa accada, di qualunque genere siano i nostri fallimenti quotidiani, i nostri insuccessi, le nostre aridità. Amen.



giovedì 2 luglio 2020

5 Luglio 2020 – XIV Domenica del Tempo Ordinario


“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli… Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro… imparate da me, che sono mite e umile di cuore…” 
(Mt 11,25-30).

In queste parole di Gesù possiamo cogliere una sua esplosione di gioia, in un momento di particolare commozione, di illuminazione, di consapevolezza, di stupore.
Un po’ come succede a noi quando, brancolando nel buio, nel dubbio, all’improvviso tutto si illumina, tutto diventa chiaro, comprensibile. Fino ad un attimo prima non riuscivamo a capire nulla, poi all’improvviso tutto appare semplice, ovvio, alla nostra portata.
Dal contesto del brano evangelico di oggi, possiamo dedurre che Gesù è triste, che si trova in un momento di profonda delusione per la diffidenza, l’incredulità, l’ottusità di chi gli sta vicino: è il lato sensibile di Gesù, che, come tutti noi, non riesce a capacitarsi, a spiegarsi, nonostante tutto, il perdurare di certi comportamenti umani.
Egli, ogni giorno, continua sempre e comunque a fare il bene: ovunque vada, ovunque si trovi, accoglie tutti, guarisce i malati, insegna ad amare, a non giudicare; tratta con dignità soprattutto quanti la dignità non l’hanno mai conosciuta; aiuta chiunque a ritrovare la nobiltà del proprio essere, deturpato dalle ferite della vita; a ritrovare il senso di una strada forse perduta o mai trovata; a riscoprire la gioia, l’emozione del vivere.
Ebbene: per tutta risposta, questa gente lo rifiuta, gli gira le spalle, lo accusa, lo attacca, gli si scaglia contro come se fosse il peggiore dei nemici.
Una situazione purtroppo molto comune; una situazione che sarà capitata anche a noi, tanto dal chiederci: “Ma cosa ho fatto mai di male per meritare questo trattamento?”. E ciò proprio quando siamo certi di aver fatto solo del bene.
Ecco, è proprio su questo punto che dobbiamo lavorare, che dobbiamo fare il nostro salto di qualità: dobbiamo cioè passare dal fare qualcosa aspettandoci il riconoscimento degli altri, al farlo del tutto gratuitamente, come risposta alla specifica chiamata di Dio, che richiede sempre, per il suo campo d’azione, riservatezza e umile nascondimento del proprio io.
Dobbiamo essere determinati a fare tutto per la sola gloria di Dio; e dobbiamo farlo con decisione e costanza.
Succede invece che se la gente ci critica per quel che facciamo, se ci mette da parte, se ci fa sentire inadeguati, ci offendiamo, rinunciamo immediatamente a tutto, perdiamo ogni entusiasmo per continuare a combattere. Siamo insomma dei deboli, dei pusillanimi, degli egocentrici: per questo preferiamo dedicarci soltanto a quelle attività sociali, caritative, buoniste, che ci ripagano a livello umano: e grazie proprio a questi riconoscimenti umani, siamo convinti di condurre una vita meritoria, una vita altruista, retta e santa, senza accorgerci che col nostro comportamento, gratifichiamo soltanto il nostro amor proprio.
In questo brano di Matteo, ciò che ci colpisce, e che ci deve servire di esempio, è la reazione di Gesù, il quale, in una situazione di profonda delusione, di scoraggiamento, di insuccesso, molto simile a tante nostre, invece di recriminare, di inveire, innalza un inno gioioso alla vita, dimostrando tutto il suo stupore e la sua ammirazione per quello che il Padre permette che accada nella sua vita. Egli non si lascia prendere dalla trappola del pessimismo: vede il male, vede la cattiveria, l’ignoranza della gente, ma prima di tutto vede e apprezza il bene, riesce a stupirsi per la bellezza del creato, per la perfezione delle cose, e per la luce di bontà, a volte purtroppo molto fioca, che riesce comunque ad illuminare il profondo dell’animo umano.
E noi come siamo messi? Ai nostri giorni c’è ancora il male nel mondo? Certo, e più ci guardiamo intorno, più ne troviamo. C’è ancora il bene nel mondo? Sicuro: più osserviamo l’uomo in profondità, più ne troviamo. C’è ancora l’ignoranza crassa, la volgarità, la stoltezza nel mondo? Oh sì in grande quantità, e più alziamo lo sguardo, più ne troviamo. C’è ancora l’entusiasmo, la gioia, l’ottimismo? Oh sì, tantissimo, e più lo cerchiamo, più ne troviamo.
Ora, trovare o non trovare queste cose dipende da noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, da come guardiamo; perché alla fine noi vedremo e troveremo soltanto ciò che effettivamente “vogliamo” vedere e trovare. Nient’altro: se ci interessa il bene, il bene; se il male, il male.
Ogni cosa può essere considerata in positivo o in negativo, dipende solo da noi.
Faccio un esempio: quando ci guardiamo allo specchio, se abbiamo un bel sorriso con i denti allineati e perfetti, una pelle luminosa e tonica, se i nostri occhi sono luminosi per la soddisfazione, sono cose che magari non notiamo, non ci colpiscono; al contrario notiamo immediatamente e con disappunto i segni negativi dell’età, le rughe, i capelli bianchi: significa cioè che siamo più inclini a trascurare le cose positive, mentre quelle che possono sembrare negative le troviamo subito, e tutte.
Lo stesso succede quando guardiamo i nostri figli: cosa ci colpisce nel pensare a loro? Se vediamo che non si sono laureati, non si sono affermati professionalmente come noi volevamo, ci sentiamo profondamente delusi, rammaricati. Se ci diciamo invece che sono cresciuti con sani principi, che affrontano apertamente e con grande forza interiore le contrarietà della vita, che fanno con entusiasmo e in piena libertà le loro scelte, allora il nostro cuore gioisce, siamo orgogliosi di quei nostri figli. Succede sempre così: noi vediamo sempre negli altri i difetti, o le virtù, che vogliamo vedere.
Questo vale anche per la nostra vita: una crisi, una malattia, possiamo considerarla un dramma, una tragedia, ma anche una grande occasione di riscatto morale. Perché, nella vita, non ci capitano cose soltanto negative o positive; valutarle dipende dalla nostra sensibilità, da come le vediamo: per essere sereni, propositivi, non è determinante ciò che ci succede all’esterno, ma ciò che noi di esso percepiamo nel nostro interno.
Umanamente parlando, infatti, ciò che Gesù sopportava per colpa della gente, non era certo né bello né gratificante: eppure Lui era sempre pronto a sorridere, a provare e a trasmettere tenerezza, ad abbracciare, a cantare, a benedire.
Questo è il segreto: lasciarci stupire anche noi da quello che ci circonda, rimanendo in stretta sintonia col Padre! La vita è troppo bella, interessante, ricca di soddisfazioni, di entusiasmi, di gioia, che merita di essere vissuta in pieno, con grande riconoscenza a Dio che ce l’ha concessa in dono.
Se poi tutto ci crollasse letteralmente addosso, se ci sentissimo soffocati dagli eventi, se non ce la facessimo proprio più, se vedessimo tutto nero, sempre e comunque ci rimane una soluzione: ricorrere a Lui con fiducia. È Lui stesso che ce lo chiede: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Amen.


giovedì 25 giugno 2020

28 Giugno 2020 – XIII Domenica del Tempo Ordinario


“Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”. 
(Mt 10,37-42).

Il testo del Vangelo di oggi chiude il “discorso missionario” del capitolo 10 di Matteo.
Un testo duro, difficile da condividere, per certi versi assurdo! “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me”. Siamo agli antipodi della nostra logica, del nostro buon senso. Sono parole, per noi “umani”, decisamente incomprensibili.
Ma cosa intendeva dire Gesù? Cosa voleva che i suoi discepoli portassero scolpita nella loro memoria? Non dobbiamo dimenticare che Egli parlava a persone semplici, persone non certo istruite; era gente pratica, realista, poveri lavoratori impegnati ad assicurare giorno dopo giorno la sopravvivenza alle loro famiglie.
Quindi a gente “concreta”, parole concrete: “Voi che avete accettato di seguirmi, dovete capire che Io valgo più di qualunque altra cosa voi possediate, anche la più preziosa; Io sono più importante dei vostri affetti, della vostra famiglia, della vostra stessa vita: sono insomma il vostro valore assoluto! Genitori, moglie, figli, vengono tutti dopo di me. Niente e nessuno può interporsi tra me e voi, nessuno può ostacolarvi nel servizio che voi mi prestate. La vostra scelta di discepoli, essenziale e obbligata, è una sola: Io, il vostro Dio”.
Dobbiamo riconoscere che, tradotta anche in termini semplici, la prospettiva per chiunque decida di seguire Gesù, non è certo semplice. Diciamo anzi che quel cammino è percorribile soltanto da poche persone, dagli eroi della fede, dai santi: da quanti cioè hanno messo in bilancio anche la morte violenta, il martirio, pur di vivere nella piena obbedienza al volere di Dio.
Si tratta di un percorso insolito, molto difficoltoso, molto selettivo, soprattutto per noi che ci professiamo “cristiani” nel mondo d’oggi: ma queste sono le parole che Gesù ha rivolto a tutti, e quindi anche a noi, per rianimare la nostra vita spirituale, troppo spesso asfittica e denutrita.
Nella vita, prima o poi, tutti devono affrontare un bivio decisivo: da un lato c’è la volontà di Dio, il sevizio di Dio, che però prevede quella croce che il Signore ci invita a prendere per seguirlo; dall’altro, una soluzione alternativa, più appetibile, più umana, più logica, più adattabile alla nostra mediocrità.
Ebbene: è esattamente in questi casi che la schiettezza del vangelo ci disorienta, ci spaventa.
Il Gesù che ci proponiamo di seguire non è un Dio che si accontenta di poco, che accetta compromessi, mezze misure: Egli è categorico: vuole tutto, chiede tutto. Ma ci dà anche tutto: con la stessa generosità con cui una volta ci ha dato sé stesso sulla croce, così continua in ogni istante a darsi ai suoi fedeli, a coloro che lo seguono, che lo amano: e lo fa in termini di conforto, di pace, di gioia, di amore.
Ecco: il punto nodale del nostro programma di vita è proprio questo: ricambiare questo suo amore con un amore che si trasformi in passione per Lui, che diventi un fuoco travolgente, un fuoco interiore che ci spinga a fare per Lui anche le scelte più difficili.
Questa è la logica dell’amore che Dio ci chiede. Non possiamo rispondere: “sì, Signore, io ti amo, ma fino ad un certo punto; più in là non posso andare, non ce la faccio”. Questo non è più amore. La vera misura, l’unica che dobbiamo raggiungere, è amare Dio “sopra ogni cosa”, perché solo così potremo ottenere da subito la vera felicità.
Ecco perché Gesù dice: “Chi perde la sua vita la ritrova e chi guadagna la sua vita la perde”. In pratica Egli vuol stabilire un principio fondamentale: se facciamo la volontà di Dio, ossia se lo amiamo al di sopra di tutto, non ci perderemo mai. Al contrario ci perderemo sicuramente se agiamo contro la Sua volontà, se lo amiamo svogliatamente o per niente.
Vivere pertanto il vangelo come vuole Gesù, in tutto il suo radicalismo, non è come andare a passeggio, non è uno stile di vita da prendere alla leggera, non è un passatempo piacevole: richiede invece un impegno totale, un autocontrollo permanente; non sono ammesse scorciatoie; c’è un’unica strada, quella tracciata da Gesù, quella che passa attraverso il Golgota.
Per questo l’autenticità cristiana è vista da molti come semplice utopia; un progetto inavvicinabile, inattuabile.
Del resto, anche noi che ci diciamo cristiani, arriviamo a viverne solo le briciole, ci fermiamo purtroppo al più semplice “apparire”, alle pratiche esteriori, alle pie esibizioni, alle visibili commozioni, ai pubblici “mea culpa”; ci accontentiamo cioè di salvare la faccia, di essere considerati dagli altri “persone per bene”, osservanti, timorate e innamorate di Dio.
Ma per seguire veramente Gesù, per essere veri cristiani, non basta l’entusiasmo di un momento, non bastano le buone intenzioni, i grandi propositi.
Il vangelo di oggi è estremamente chiaro in questo. La “conversione” che Gesù vuole da noi deve essere profonda, totale, continua: dobbiamo cioè mettere Dio sempre e comunque al primo posto: tutto il resto viene dopo.
“Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta…”: tremendo! Quante volte anche noi riusciamo a mortificare la nostra fede! Quanti di noi, per esempio, vanno alla messa domenicale, non per celebrare il Sacrificio Eucaristico, non per rendere gloria a Dio, ma per ascoltare il “profeta” di turno, il facondo oratore che sfoggia gigionescamente la sua arte omiletica (“vado a quella messa perché c’è Caio che predica così bene!”): e non pensiamo che in questo modo barattiamo scioccamente una misera “ricompensa” elocutoria, con quella vitale e insostituibile della reale presenza di Dio in noi, portatore di Grazia e benedizioni vitali!
Ecco perché è necessario scendere nel profondo del nostro cuore, porci di fronte alla nostra coscienza e chiederci umilmente: “Quanto conta Dio nella mia vita? Amo veramente Gesù e il suo Vangelo? Voglio appartenere sul serio a Dio? Gli ho mai chiesto di farmi diventare santo?”.
Proprio così: perché il radicalismo evangelico ci porta tutti obbligatoriamente ad essere santi, cioè a “vivere di Dio”, ad essere innamorati persi di Dio. Uno stile di vita che tutti dobbiamo fare nostro, non solo i preti, i frati, le suore!
Ogni cristiano che vuol seguire la chiamata di Cristo, infatti, proprio perché “umano”, è debole, pieno di difetti, di tentazioni, di cadute. Seguire fedelmente Gesù è difficile per tutti, ci vuole tanta buona volontà, tanta umiltà, tanta perseveranza. I momenti bui, i mari in burrasca, le strade in salita, i precipizi, sono i nostri “pesi” quotidiani, con cui tutti dobbiamo fare i conti, nessuno escluso. Neppure i santi: i quali non sono persone “speciali”, impeccabili, ineccepibili; sono persone normalissime, che però vogliono a tutti i costi amare Dio: per Lui riescono a superare qualunque ostacolo, sono pronti a rialzarsi sempre, dopo ogni caduta, pronti a ricominciare ogni giorno il difficile percorso in salita che è l’imitazione di Cristo: l’unico percorso che, passando attraverso la croce, ci porta alla gioia della Risurrezione finale.
I santi sono insomma coloro che si affidano a Dio, che rinnovano continuamente i loro propositi di fedeltà, che vivono nell’amore a Dio e al prossimo. Sono l’esempio da seguire.
Perché solo imitandoli, anche noi “indecisi”, ritroveremo” l’entusiasmo, la voglia di realizzare in pieno la vita: una conquista che non avviene, come siamo soliti pensare, con la carriera, con le ricchezze, coi divertimenti; ma soltanto “perdendo” questa nostra vita, impiegandola cioè per la causa di Cristo, per il bene concreto dei fratelli.
Un percorso quindi che non prevede false affermazioni personali, forme di egoismo, sopraffazioni per il proprio tornaconto; un percorso però che ci assicura una tale quantità di amore e di gioia, da rendere stupenda, meravigliosa, straordinaria la nostra vita e quella degli altri.
“Cristo non toglie nulla, Cristo dà tutto!”, ama dire papa Benedetto, richiamando l’insegnamento di Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. È dunque questo, condensato in pillole, il messaggio “nuovo”, il messaggio “bello” del Vangelo. È la grande novità di Gesù. Amen.




venerdì 19 giugno 2020

21 Giugno 2020 – XII Domenica del Tempo Ordinario


“Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”.
(Mt 10,26-33).

Siamo nel capitolo 10 di Matteo che contiene il famoso discorso “missionario” di Gesù: una serie di “istruzioni” che dovevano accompagnare gli “inviati”, gli annunciatori del vangelo, nella loro missione apostolica.
Nei primi anni e nei primi secoli non è stato sicuramente facile essere cristiani! L’esserlo comportava una scelta esigente, una scelta coraggiosa per le inevitabili gravi conseguenze. Non era una scelta fra le tante, ma una scelta che determinava la vita.
Oggi per molte persone essere cristiani o non esserlo non fa alcuna differenza. Andare in chiesa o non andarci è un po’ la stessa cosa. Che Gesù sia esistito o meno, non determina le scelte della loro vita: scegliere o non scegliere Cristo è, per esse, assolutamente ininfluente, come scegliere in quale supermercato fare la spesa, in quale negozio acquistare un vestito o quale spiaggia scegliere per le vacanze.
Non così, per quanti invece decidono di seguire Cristo.
Il testo ci propone infatti quattro contrapposizioni (nascosto-svelato, segreto-manifesto, tenebre-luce, orecchio-tetti) che ci prospettano, in qualche modo, lo stile di vita dei primi cristiani: la loro era una esistenza di fede profonda, praticata nel nascondimento, nel segreto, nelle catacombe; manifestare il proprio credo in pubblico era pericoloso, molto pericoloso. E ci voleva molto coraggio!
Per noi ora non è più così. Testimoniare la nostra fede non comporta più alcun pericolo, soprattutto quello di morire martirizzati: semmai l’unico rischio che potremmo incontrare è quello di venire isolati, di rimanere soli, messi alla berlina, non essere capiti, accettati.
Un niente: ma è una eventualità che mortificherebbe inevitabilmente il nostro “ego”, mettendoci nella impossibilità di ottenere riconoscimenti, consensi, attestazioni di stima da parte degli altri; una situazione che porterebbe ad assumere un comportamento a dir poco paradossale: essere cioè cristiani a singhiozzo, compatibilmente con le circostanze della vita: credere quando ci fa comodo, quando ci conviene, quando cioè abbiamo un ritorno di riconoscimenti e ammirazione. Salvo poi, quando non ci conviene più, nasconderci, cambiare faccia, cambiare fede e religione con grande naturalezza e disinvoltura!
Ebbene, il vangelo di oggi non ci raccomanda tanto di professare pubblicamente la nostra fede, quanto di essere sempre coerenti con noi stessi, con la nostra fede, con la nostra coscienza; in una parola di essere persone autentiche, che sanno fare luce dentro di loro, proprio là dove convivono paura e coraggio, amore di Dio e calcolo egoistico, amicizia con Gesù e orgoglio personale, invidie, risentimenti.
Vogliamo far sapere al mondo chi siamo veramente? Facciamolo praticamente con la nostra vita: perché in questo modo non solo cresciamo come uomini e come cristiani, ma testimoniamo coerentemente la nostra fede.
“Non abbiate paura”, ci rassicura Gesù: ma la paura è la nostra fedele compagna di viaggio; noi abbiamo paura di tutto e di tutti, anche delle cose più insignificanti: di un piccolo dolore, di possibili offese da parte di qualcuno, di cosa gli altri possano pensare di noi.
Siamo troppo condizionati dal “rispetto umano”, dal giudizio della gente! Al punto da evitare talvolta di compiere per vergogna delle buone azioni: come per esempio di farci il segno della croce, di recitare a voce alta una preghiera, di esprimere sinceramente in pubblico un nostro parere “cristiano” sulle questioni del momento. Dobbiamo purtroppo ammettere che la nostra fede è troppo debole, la nostra coerenza troppo fragile, la nostra carità decisamente effimera.
Eppure le parole del Signore dovrebbero essere per noi, in ogni momento, la luce che ci illumina, la forza che ci determina, che ci rende tetragoni ad ogni pericolo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l'anima e il corpo”. Gesù è sempre chiaro, paradigmatico, esemplare, non lascia mai spazio a dubbi.
Ci colpisce in particolare la triplice raccomandazione di Gesù di “non aver paura”: e ci spiega chiaramente di chi e di che cosa dobbiamo aver paura: non delle ossessioni personali, non delle nostre idiosincrasie, e soprattutto non di “quelli che uccidono il corpo”: sappiamo bene, per esperienza, quanto gli uomini possano ferirci: possono infatti umiliarci, farci paura, farci pressioni, disonorarci. Possono infliggerci qualunque ferita corporale, ma non possono toglierci l’anima; a meno che noi stessi non glielo permettiamo. C’è qualcosa in noi che è solo nostro, di nessun altro: nessuno infatti può ferire, uccidere la nostra anima, senza che noi lo permettiamo.
Per quanto possiamo essere oggetto di pressioni, di paure, di costrizioni, ci rimane sempre uno spazio di libertà, uno spazio in cui siamo solo noi a comandare, dove siamo solo noi a decidere la nostra vita. Nessuno può toglierci l’anima, questo nostro “soffio” divino: noi soli lo possiamo “soffocare”, nessuno può sottrarcelo. Questa è la nostra più grande ricchezza.
Noi non “siamo” il nostro lavoro, la nostra professione, la nostra laurea; non “siamo” la nostra posizione sociale, il nostro ruolo, la nostra fama: “siamo” unicamente la nostra anima!
Allora non svendiamo noi stessi. Perché quando abbiamo perso noi stessi, la nostra coscienza, quando non sappiamo più chi o cosa siamo, non ci rimane più niente. Troppe persone sprovvedute, anche cristiani, accettano purtroppo di svendere la propria anima per nulla: per i soldi, per la ricchezza, per il piacere, per il benessere, per la gloria, per il potere! Chiamano “vita” ciò che è morte; e chiamano morte ciò che invece è “Vita”.
Per sottolineare queste sue raccomandazioni, Gesù introduce quindi due immagini poetiche: quella dei passeri e del numero dei capelli sul capo.
In pratica dice: “Nulla accade nel mondo senza che Dio lo sappia. Egli è più grande di tutto e di tutti, è il più forte”; “non cade un passero senza che Lui lo sappia”: che non vuol dire: “non vi capiterà mai di cadere”, ma: “se vi accade di cadere, Dio ne è a conoscenza”; in sostanza Gesù ci assicura che anche nella sofferenza, Dio c’è, non siamo mai soli, mai abbandonati a noi stessi; la sua presenza è sempre una presenza di salvezza, anche se non la percepiamo immediatamente, anche se, a livello psicologico, non le diamo grande importanza.
È comunque una grande consolazione sapere che tutto quanto ci riguarda, anche le cose più “insignificanti”, come la perdita dei capelli, è sempre presente al cuore di Dio.
Come possiamo pensare che il Dio che ci ha creati, che ci ha voluti, ci possa poi abbandonare a noi stessi? Che Colui che ci ha donato la vita, possa togliercela? Tranquilli, non è possibile: la liturgia stessa ci dice perentoriamente che “vita mutatur non tollitur”, la vita un giorno ci verrà cambiata, ma non tolta! Quindi non preoccupiamoci, viviamo serenamente la vita che Dio ci ha donato, nella certezza che Egli, anche se non lo capiamo, lavora per noi, agisce continuamente per noi, vuole sempre il nostro bene vero!
C’è, è vero, un avvertimento molto importante che conclude il vangelo di oggi: “Chi mi rinnegherà... anch’io lo rinnegherò!”. Parole severe che sembrano contenere addirittura una minaccia, una promessa di vendetta da parte di Dio, un ritorno all’antica legge del taglione: “Tu mi tratti così? Mi rinneghi con la tua vita? Io ti ripago con la stessa moneta: ti rinnego!”.
Una sentenza punitiva, tuttavia, che non è assolutamente imputabile a Dio, ma direttamente a noi; rientra cioè nel principio di “causa-effetto”: noi sappiamo infatti già fin d’ora che un giorno le possibilità che ci aspettano saranno due soltanto: o l’essere accolti come “benedetti” oppure rinnegati come “maledetti”; e ciò grazie esclusivamente alle nostre attuali scelte di vita: perché, in breve, chi ama sarà amato, chi disprezza sarà disprezzato.
Oggigiorno però, nel nostro cristianesimo annacquato, quell’incontro finale con Dio che si chiama “giudizio”, in base al quale conosceremo la nostra destinazione eterna, è stato completamente rimosso da ogni priorità e preoccupazione: nel tripudio dell’esaltazione assolutoria della divina Misericordia, ci siamo completamente dimenticati dei nostri doveri di cristiani, di discepoli “chiamati” a testimoniare il vangelo con le opere e il buon esempio: ci siamo cioè progressivamente adattati al principio del “fai come ti pare, tanto Dio è buono!”, con cui puntualmente addomestichiamo qualunque precetto o comandamento divino; del resto, perché preoccuparcene, se poi Dio, che è “misericordia assoluta”, alla fine ci salverà e ci premierà comunque? Opinione oggi molto diffusa e affermata anche nella Chiesa: una lettura del vangelo partigiana, distorta, incompleta, avvalorata peraltro da una catechesi che dovrebbe invece esprimersi in maniera più fedele, più veritiera e completa. Perché che Dio sia “Misericordia infinita”, è vero: ma è vero anche che è “Giustizia infinita”: altrimenti Dio farebbe un torto a sé stesso, alla sua “essenza” divina: cosa improponibile, inaccettabile, inammissibile.
In definitiva Gesù, con queste parole così perentorie, vuol dirci: “Fate attenzione: comportatevi per quello che siete (miei testimoni). La fedeltà al vostro ruolo sarà per voi l’unica garanzia per godere della mia amicizia eterna”. Che poi è semplicemente il presupposto anche di qualunque sano comportamento umano: “Io so e sento che fare del bene è la vera felicità di cui il cuore umano può godere” scriveva Jean-Jacques Rousseau.
Mai allora disinteressarci della nostra anima, mai infangare il volto del Gesù che vive i noi. A dirlo è facile, ma non è così: essere “cristiani” sul serio, essere discepoli di Gesù, comporta infatti sacrifici costanti. Brutto segno se a noi non costa nulla: perché vuol dire che non abbiamo centrato il senso del vivere cristianamente: forse ci siamo abituati a chiamare morte ciò che è vita. Oppure chiamiamo vita ciò che, magari, è morte certa.
Ciò che ci qualifica come veri cristiani, ciò che ci assicura di vivere nel giusto, di essere nel cuore di Dio, è proprio la fatica di essere testimoni fedeli, sono le continue difficoltà che dobbiamo superare quotidianamente per non deviare dal “nostro” cammino.
Allora qualunque cosa ci stia capitando, smettiamo di controllare le giornate, le persone, l'età che passa, cosa dice la gente di noi. Smettiamo di controllare, perché tanto c'è già Lui che controlla ogni cosa: ci pensa Lui. C'è Lui, non devo temere nulla, e anche se tutto sembra morte diciamoci: "Vado verso la vita!". Amen.



venerdì 12 giugno 2020

14 Giugno 2020 – Ss. Corpo e Sangue di Cristo


“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,51-58).

La festa liturgica del Corpus Domini risale al 1264 quando il Papa Urbano IV la istituì in ricordo del miracolo successo al sacerdote boemo Pietro di Praga, che dubitava della presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del vino consacrati: per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro e durante il viaggio di ritorno in patria, fece sosta a Bolsena per la celebrazione eucaristica: qui, alla frazione del pane, l’ostia si trasformò miracolosamente in carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue, macchiando vistosamente il corporale steso sull’altare. Una preziosa reliquia che possiamo ancora oggi ammirare e venerare nel famoso duomo di Orvieto.
Oggi, dunque, la Liturgia ci ricorda che quando nella celebrazione Eucaristica ci accostiamo all’altare per “assumere” l’ostia consacrata, in realtà noi “mangiamo” il Corpo e il Sangue di Cristo. Ci immedesimiamo in Lui. È la festa dei discepoli, di tutti noi, la festa della condivisione, la festa che ci ricorda l’importanza e i doveri dell’essere Chiesa. 
Il vangelo parla più volte di “mangiare la carne” e “bere il sangue”. Ovviamente, quando la gente sentiva queste parole, inorridiva. E possiamo ben comprenderne i motivi: non a caso i primi cristiani, fra le varie accuse, furono tacciati anche di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio. Del resto, il verbo “trògo”, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare.
Ricordo in proposito che una vecchia suora ripeteva severamente a noi ragazzini, durante la preparazione alla Prima Comunione: “Non masticate la particola, perché fate male a Gesù!”. Parole che mi hanno colpito così profondamente, che ancora oggi talvolta mi condizionano.
Ma all’epoca vigeva ancora la mentalità che discriminava rigorosamente la “materia” rispetto allo “spirito”. Si diceva: “Tutto ciò che è materia, che è corpo, che è umano, che muore, è negativo, indegno, spregevole, è peccato. Soltanto ciò che è spirito è elevato, sublime. Per far emergere lo spirito dobbiamo mortificare il più possibile la materia”.
Pertanto la “materia”, il corpo, era considerato solo un vile rivestimento, un contenitore, la prigione dello “spirito”: chi desiderava rispondere ad una vocazione religiosa, chi ambiva seguire Cristo, doveva reprimere il suo lato materiale, fustigare il proprio corpo, doveva purificarlo, in nome di Dio, da ogni godimento mondano. La via della santità passava attraverso la totale privazione di ogni piacere naturale: per il cibo e le bevande, per le gioie sessuali e l'affetto, per il divertimento e le sane risate. Qualunque debolezza in questo senso, era “peccato”, tutto era opera del demonio. Lo slogan era: “Il corpo è di Satana: bisogna combatterlo”.
Poi finalmente si è capito che oltre allo spirito, abbiamo avuto in dono da Dio anche un corpo; inscindibili l’uno dall’altro: non esiste nessun corpo umano senza spirito, come nessun spirito, nessun’anima, senza il proprio corpo; ogni uomo è costituito da questi due elementi inseparabili: quando stiamo male nel corpo, infatti, anche lo spirito soffre, sta male; al contrario quando lo spirito sta bene anche il nostro corpo sta bene. Noi non ce ne rendiamo conto ma molte delle nostre malattie corporali dipendono da malattie dell'anima: in tal caso possiamo prendere tutti i farmaci che vogliamo, tutti gli antidepressivi in circolazione, ma non ne usciremo mai, perché non è il corpo che è ammalato, ma il nostro spirito: il corpo funge semplicemente da termometro, è il display, la “radiografia” del nostro spirito.
Chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio perché il corpo è l’abitazione dello Spirito di Dio. Il corpo è di Dio. S. Paolo lo definisce “tempio dello Spirito Santo”. Ecco perché dobbiamo riconciliarci con il nostro corpo, dobbiamo conoscere e rispettare i suoi ritmi, i suoi limiti, le sue possibilità; dobbiamo amarlo, dobbiamo volergli bene.
Senza ovviamente oltrepassare i limiti del buon senso e della morale naturale: perché oggi, dal disprezzo pressoché totale di una volta, siamo passati oggi alla più sfrenata esaltazione del corpo umano; la società del consumismo è arrivata ad idolatrare il corpo, e non solo quello femminile. Oggi il corpo viene ostentato, viene pubblicizzato in tutta la sua felina armoniosità; è diventato merce di scambio, oggetto di latria, di culto. Qualunque sua imperfezione determina la discriminazione della persona; l’amore che gli viene tributato è comunque ben lontano dal rispetto che ci ha insegnato Gesù, dall’amore con cui Lui ama il nostro corpo.
Quando andiamo a fare la Comunione, il ministro ci mostra la particola e dice: “Corpo di Cristo”; e noi rispondiamo “Amen!”, cioè “è vero, è così, sto veramente per mangiare il Corpo di Gesù”.
È l’istante del nostro incontro materiale con Dio. Il Divino si riumanizza in noi, e dovremmo allora sentire il nostro cuore esplodere in umile preghiera: “Ecco, Signore: questo è il mio di corpo, te l’offro come tua abitazione: entra tranquillo, farò di tutto per rendere confortevole la tua presenza!”; e Gesù di rimando: “Amen; lo so, va bene, tranquillo, mi piaci così come sei: insieme faremo grandi cose!”.
Se sapessimo ascoltare, sentiremmo sicuramente queste o simili espressioni: perché incontrarsi attraverso l’Eucaristia è senz’altro motivo di conforto, una gioia reciproca, quella di Dio e quella nostra!
Lui, il Dio onnipotente, non si vergogna di venire dentro il nostro corpo, anzi entra nella nostra umanità per amarla, valorizzarla, ristrutturarla, difenderla; viene perché è felice di stare a tu per tu con noi; viene per identificarsi con noi, Corpo nel corpo. E lo fa anche per necessità, perché egli ha bisogno di noi, del nostro corpo; dopo la sua ascesa in cielo, infatti, il nostro corpo gli è indispensabile: per muoversi, per operare, per continuare a parlare, per catechizzare questo mondo ostile; durante questa nostra vita siamo noi il suo alter ego: siamo noi la sua voce, il suo viso, le sue braccia, le sue gambe, il suo cuore.
Un compito molto impegnativo, per il quale è necessario “santificare” questo nostro corpo, averne cura, non esporlo mai al pericolo del male, non asservirlo irresponsabilmente al peccato.
Ci siamo mai chiesto perché Gesù, invece del suo "corpo", non ci invita a mangiare e a nutrirci della sua santità, della sua giustizia? Perché, invece del suo sangue, non ci dice di bere la sua innocenza, la sua mitezza? perché non ci dice di prendere dalla potenza divina tutto il suo vigore? Invece si limita a dire: “Prendete e mangiate la mia carne!”. Non vi sembra incredibile? Gesù, il Dio onnipotente, ci lascia in eredità la debolezza, la fragilità del suo corpo umano!
Avrebbe potuto scegliere mille altri modi per rimanere con noi: avrebbe potuto lasciarci un segno straordinario della sua potenza, della sua gloria, un segno evidente e definitivo per rassicurare la nostra fede sempre traballante. Avrebbe potuto... E invece no! Gesù ha scelto di rimanere in mezzo a noi con il suo corpo, la sua storia, la sua vita appassionata d'amore, il suo Volto, sublime trasparenza di quello del Padre.
Mangiare la carne e bere il sangue del Signore significa pertanto nutrirsi del cuore incandescente dell'Amore, significa assimilare la linfa di quella Vita più forte della morte, significa scoprire che Dio è più intimo con noi, di quanto lo siamo noi stessi.  
Ciascuno di noi è chiamato quindi ad abbandonare il suo agire da “uomo vecchio” per diventare altri “Cristo”. Dobbiamo abbandonare l’io, per diventare Lui. Dobbiamo abbandonare la nostra identità per diventare Corpo di Cristo, per assumere la sua identità, l’identità del “Dio in noi”.
Non si tratta ovviamente di un processo facile, come può essere il “mangiare”, il prendere un cibo qualunque: non per nulla Giovanni qui introduce la necessità di masticare: non una semplice “ingestione”, ma una ruminatio, un’assimilazione lenta, studiata, progressiva.
In altre parole si tratta di una profonda “conversione”, un diventare “l’Altro”.
Nei vangeli, tutti quelli che hanno “incontrato” Cristo, non sono più stati gli stessi di prima.
La loro è stata un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E la nostra “esperienza”? Che cambiamento è avvenuto in noi? Dove, come, quanto, Dio ci ha “sconvolto” la vita? Che fuoco ha acceso dentro di noi?”.
Se non si è verificata in noi alcuna “conversione”, vuol dire che la nostra fede non è ancora vera, autentica. Se continuiamo ad essere “noi stessi”, se continuiamo a rimanere ancorati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, vuol dire che ancora non siamo riusciti ad immedesimarci con “Lui”. Allora il nostro “incontro” con Gesù Eucaristia, dovrà purificarsi, dovrà essere un incontro di vera “comunione”: in questo modo Egli, offrendosi a noi, compenserà il nostro nulla, trasformandoci da “esseri carnali”, in “esseri spirituali”: con la sua azione di grazia, cioè, noi arriveremo gradualmente a vivere della sua stessa Vita.
Preghiamo allora, oggi in particolare, Gesù Eucaristia, perché si attui questa nostra conversione, perché ogni discepolo su questa terra si apra al suo stupore e al suo amore di Dio, perché ogni prete, ogni cristiano, che agisce nel Suo nome, diventi sempre più trasparenza di Dio.
Preghiamo perché nessuno svilisca, “cosifichi”, invalidi, l'Eucarestia domenicale: ma al contrario essa si trasformi, all'interno della nostra settimana, in una forza dirompente, divinizzante, un salubre pungolo per sollecitare la nostra mediocrità, e diventare discepoli sempre più convinti e consapevoli dell'immensità di Dio. Non spegniamo mai lo Spirito Divino che è in noi: lasciamo invece che la Sua grazia ci raggiunga e ci trasformi radicalmente. Amen!


venerdì 5 giugno 2020

7 Giugno 2020 – Santissima Trinità


“Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-18 ).

Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità: un Dio che è Padre, Figlio e Spirito. Un mistero, quello trinitario, che è costantemente al centro della vita cristiana; noi lo ricordiamo infatti ogni volta che facciamo il segno della croce: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Un gesto purtroppo che ormai ripetiamo meccanicamente, senza pensare a quello che facciamo o diciamo, soprattutto a come lo facciamo. Dobbiamo infatti riconoscere che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur essendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi non interessa più nessuno; anzi, voler spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a disquisire sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene considerato un inutile esercizio teologico, lontano dai problemi esistenziali ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, infatti, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea di Dio (uno o trino che sia) viene sempre più estromessa dalla vita personale e reale degli stessi cristiani.
La festa di oggi ci pone pertanto davanti ad un problema: perché il Dio della teologia, dell’intuizione speculativa, non corrisponde più con il Dio della nostra vita pratica? Problemi di comprensione? Di impenetrabilità dei concetti? Eppure la Trinità divina almeno a livello di “intuizione” non ha bisogno di uno “sforzo speculativo”, di equilibrismi intellettuali, per essere afferrata dalla nostra mente: è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; è in pratica fare esperienza di Dio, quella stessa esperienza vissuta e capita direttamente dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio: e nella realtà si comportava esattamente così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un infinito mondo d'amore, di comunione, una vita così grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare incommensurabile: e collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla, l’idea di famiglia, composta da un padre-madre, da un figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unico” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è il nostro creatore, la nostra origine, che noi chiamiamo “Padre”; un Dio uomo come noi, che si chiama Figlio, che si fa compagno del nostro cammino, che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati,; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come “entusiasmo” (dal greco “enthousiasmós” che deriva da “én-theos” = “il dio dentro”), come creatività, forza, passione, energia: il Dio, in una parola, che ci ha fatto “chiesa”, e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare la famiglia umana, prima cellula sociale eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte, si fondono in unità (Padre-madre) nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco (Spirito), generando un’altra persona (Figlio), un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro.
La reale funzionalità di questo “amore” come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare evidente. Come pure evidente è la percezione del nostro ruolo “trinitario”: quando eravamo bambini infatti abbiamo sperimentato un “unum” indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, eravamo completamente fusi con lei fin dal grembo della vita; ci sembrava che fuori di noi due non ci fosse nulla, ci sembrava di essere il tutto. Poi col tempo ci siamo accorti che non c'eravamo solo noi, ma che c'erano anche tante altre persone; ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri; eravamo unici, ma eravamo anche in tanti, e abbiamo scoperto che qualcosa ci univa: un qualcosa ci legava, un qualcosa che si intesseva con le nostre vite: un qualcosa che, maturando, abbiamo riconosciuto come sentimento, amicizia, rispetto, amore.
Venire al mondo, nascere, è la cosa più bella, è il senso della vita, ma è anche la cosa che ci fa paura perché in quello stesso momento diventiamo “altri”: ognuno, da solo che era, dovrà confrontarsi con gli altri, dovrà cioè “altrificarsi”.
Così per molte persone sentirsi “altre”, sentirsi diverse (di-versus vuol dire che ognuno ha il suo verso, il suo carattere, la sua strada, la sua corsia, la sua “chiamata”) diventa un problema, perché le obbliga ad esporsi, a mettersi in gioco, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode.
Di contro, vi sono persone che vivono la loro “alterità” come una competizione, un continuo confronto: “Io sono meglio di te; sono più bello di te; tu sei più buono di me; sei più preparato”. “Competere” significa allora voler puntualizzare la nostra diversità, voler stabilire la nostra superiorità, dimostrare che non temiamo confronti. Vuol dire affrontarsi e farsi guerra; sentire l'altro come un nemico, un pericolo. 
Il mondo familiare, il mondo del lavoro e a volte anche le nostre comunità cristiane sono piene di persone che di nascosto, subdolamente, si combattono tra loro. Sentono l'altro come un nemico e tentano di zittirlo, di eliminarlo, di ucciderlo, non fisicamente, ma con le parole, con le insinuazioni, con i giudizi taglienti. Giudicare, in greco “krino”, vuol dire letteralmente “dividere”, “separare”; chi giudica con acrimonia, non ama, e non si ama; non accetta gli altri perché in realtà non accetta neppure sé stesso. Sminuisce gli altri per farsi più grande; e quindi sparla, trancia giudizi velenosi, crea maldicenza intorno a sé. Chi emette giudizi a vanvera è un illuso, un mitomane, perché pensa di essere solo lui perfetto, inattaccabile, superiore a tutti.
Certo, c’è ancora molta strada da fare, nei rapporti interpersonali, per vivere l'esperienza trinitaria, in cui io sono io e tu sei tu, ma l’amore ci unisce entrambi.
Se sviluppiamo e viviamo la nostra “alterità” in funzione dell’amore, saremo sicuramente felici, ci sentiremo realizzati, saremo soddisfatti, di noi stessi per come siamo, e degli altri per come sono. Allora gli altri possono scegliere anche soluzioni diverse dalle nostre, senza che per questo proviamo invidia o rancore per le loro scelte; noi proseguiremo per la nostra strada e saremo felici: gli altri andranno per la loro di strada, e noi saremo felici per loro, perché capiamo che quella è la strada giusta per loro. Le cose a questo mondo si possono fare in tante maniere: solo che noi molto spesso definiamo “sbagliato” ciò che è soltanto differente: ci sono tanti modi di pregare, tanti modi di vivere la famiglia, tanti modi di pensare; ci sono innumerevoli possibilità, che riflettono tutte insieme l'immensa grandezza di Dio, la sua varietà di progetti, la sua creatività, la sua generosità. Pretendere che tutti agiscano allo stesso modo, standardizzare qualunque iniziativa, significa essere malati di autovalutazione, non amare le iniziative e la libera espressione degli altri: amiamo cioè l’altro, solo perché rappresenta specularmente la nostra stessa immagine: attraverso lui, ammiriamo e amiamo in ogni caso noi stessi.
Il nostro relazionarci con l’altro in questo modo è però falsato sul nascere, perché non c'è crescita, non c'è novità, non c’è vita, non c’è amore: non ci sarebbe soprattutto il libero intervento creativo di Dio, che ci ha voluti creature diverse, creature uniche, inconfondibili.
L'amore vero, autentico, l’amore creativo, l’amore offerta, l’amore oblazione, si realizza infatti unicamente attraverso l'unione di due creature “distinte”, diverse. “Ti amo perché tu sei tu, non sei me. Ti amo te perché sei altro da me”. È questa l'unione vera; è questo l'amore vero; è questo il legame che deve unirci; è questo lo Spirito che incontriamo al di là di ciò che facciamo o di ciò che pensiamo; insomma è questa la vera unione spirituale, l'incontro in profondità delle anime. Amare non consiste nel pensare le stesse cose, nell’avere le stesse idee, nel compiere le stesse azioni, nel sognare gli stessi ideali. Amare è incontrarsi nello Spirito, nel profondo dell'anima, e costruire, nella reciproca “alterità”, l’identità di una unione che si ispira a Dio, rendendolo concretamente visibile. Perché Dio è amore, e la Trinità è l’essenza concreta di questo amore.
Inondati dal dono dello Spirito della recente Pentecoste, lasciamoci allora convertire al Dio Trinità che celebriamo oggi, a quel Dio che Gesù ci ha rivelato, che è amore, festa, incontro, relazione, amicizia, comunione, famiglia.
Ricordiamoci che questo Dio ci ha creati “a sua immagine e somiglianza”: ha impresso cioè dentro di noi un DNA trinitario, grazie al quale siamo stati pensati fin dall’inizio per vivere anche noi una vita d'amore, di comunione, di fraternità, di condivisione.
Festeggiare la Trinità significa allora riscoprire questo nostro DNA; significa verificare se lo viviamo fedelmente nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali, in tutte quelle nostre priorità su cui stiamo costruendo la nostra vita. Amen.