giovedì 9 luglio 2020

12 Luglio 2020 – XV Domenica del Tempo Ordinario


“Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: Ecco, il seminatore uscì a seminare...” 
(Mt 13,1-23).

Siamo nel capitolo 13 di Matteo, il capitolo cosiddetto “delle parabole”. Gesù cioè parlava alla folla riferendosi a situazioni comuni, tratte dalla vita reale, dalla vita di ogni giorno, perché in questo modo gli riusciva più facile trasmettere i suoi insegnamenti, spesso profondi, anche alla gente più umile e culturalmente sprovveduta: la parabola infatti se da un lato può essere considerata infantile, un po’ sciocca, da chi si ritiene “superiore”, da chi la liquida a priori non volendo abbassarsi e lasciarsi coinvolgere, dall’altro è invece profondissima e salutare per chi vi entra dentro con il cuore. Se non la capiamo, significa che il nostro cuore è chiuso, è ottuso; non la capiamo perché siamo frastornati da mille preoccupazioni inutili, dal chiasso persistente del mondo.
Per ascoltare il vangelo, per meditare sulle sue parabole, per capirlo nel profondo dell’anima, dobbiamo inoltre comportarci esattamente come faceva Gesù: fermarci, sederci, cercare di isolarci dal frastuono che ci circonda, ma soprattutto isolarci da quella enorme quantità di pensieri, di preoccupazioni, di distrazioni, in cui la nostra mente come un frullatore ci agita di continuo: dobbiamo staccare la spina con decisione, e concentrarci sulle parole che abbiamo davanti, fissarci solo su di esse e ascoltare cosa ci dicono. E se noi ci mettiamo il cuore, se siamo decisi a regolare con esse la nostra vita... ci diranno molto più di quanto immaginiamo.
La parabola di oggi è particolarmente semplice: c’è un seminatore che sparge la sua semente, e questa cade su quattro tipi di terreno.
Il primo è la strada: la strada è l’impenetrabilità assoluta; è un terreno arido, battuto dai venti e calpestato da tutti, in cui niente può nascere e attecchire.
Il secondo è quello pieno di pietre, una pietraia: i sassi possono sembrare inizialmente una protezione per quella parte di seme che cade tra le fessure; in realtà sono i nostri facili entusiasmi, la nostra superficialità, la nostra faciloneria; rappresentano le persone volubili: all’inizio la cosa, la novità, le prende, ma basta una difficoltà perché tutto finisca.
Poi c’è il terzo terreno, quello ricoperto da rovi fitti e spinosi: in questo caso le spine indicano le condizioni di una vita soffocante, quando cioè non avendo ancora una personalità sufficientemente forte, la nostra crescita, il nostro sviluppo viene sottoposto a grosse pressioni psicologiche. Il seme prova a crescere ma, ancora debole, viene soffocato da tutta una serie di elementi esteriori.
Infine c’è il quarto terreno, questa volta quello buono: ed è qui, solo qui, che il seme porterà frutto in tutta la sua potenzialità.
Possiamo leggere questa parabola da diverse prospettive: e da ciascuna di esse il testo ci offre sempre un insegnamento chiaro e profondo.
Se per esempio immaginiamo di essere il seminatore, sarà il nostro comportamento a finire sotto esame: “come reagisco quando mi rendo conto che, nonostante tutte le mie fatiche per la semina, non ho ottenuto alcun risultato?”.
È una situazione piuttosto frequente: abbiamo seminato, abbiamo dato, abbiamo amato, ma non abbiamo raccolto assolutamente nulla; tempo e fatica sprecati. Capita. E ce ne rammarichiamo, magari anche imprecando. Ma chi fa le cose per amore, offrendo gratuitamente tempo ed energia, non deve abbandonarsi al pessimismo. Se è vero che gran parte di quanto seminato è andato perduto, è altrettanto vero che c’è sempre la possibilità che una parte, ancorché infinitesimale, nasca, cresca, e col tempo maturi. Quindi di fronte ad un naturale pessimismo, dobbiamo sempre contrapporre l’ottimismo che proviene dall’aver fatto le cose con amore. Dobbiamo cioè avere la certezza che il nostro seminare nella carità, pur in alternanze contrarie, darà sempre un risultato consolante.
Possiamo poi metterci dalla parte del seme: in tal caso dobbiamo chiederci: “Dove sono caduto? In che terreno sono caduto? L’ambiente in cui vivo o lavoro, che tipo di terreno è? È un terreno su cui la mia vita potrà germogliare e crescere rigogliosamente, oppure sarà destinata a rinsecchire?” Perché se viviamo nella strada o nei sassi, o tra i rovi, sarà molto difficile avere una vita sempre fertile e positiva. Ancora: “che tipo di seme sono? Qual è la mia unicità? In cosa devo crescere, cosa devo sviluppare in me? Qual è quella caratteristica, quella peculiarità che è solo mia? In cosa mi distinguo da tutti gli altri? In una parola: qual è il mio carisma?”.
È fondamentale conoscere le proprie reali possibilità, perché un uomo standardizzato, identico a tutti in tutto, un uomo che non si distingue dagli altri, è soltanto una fotocopia, un doppione, un uno qualunque sommerso dalla massa, privo di ogni originalità.
Un seme è potenzialità pura: in esso c’è già praticamente tutto, ma non sarà mai nulla se non viene piantato, irrigato, se non germoglia e si sviluppa.
Allora: “Cosa deve accadere perché io nasca? Cosa devo fare? Qual è il terreno che mi può far crescere?” Il vangelo dice chiaramente che non ovunque il seme può svilupparsi: ha bisogno di un humus particolare. Inoltre: “Cosa vuol dire per me germogliare?” Per poterlo fare un seme deve radicarsi, deve cioè mettere radici: “cosa comporta ciò nella mia vita?” Tutte domande che aspettano una risposta, che solo entrando in noi stessi possiamo dare!
C’è infine una terza possibilità: quella cioè di metterci dalla parte del terreno. Allora le domande da porci sono: “Che terreno sono io concretamente? Che tipo di terreno penso di essere?” Perché il vangelo parla chiaro: di fronte ai suoi insegnamenti (che sono il seme), ciascuno di noi (il terreno) reagisce in maniera diversa.
Ciò vale anche per chi si appresta a leggere queste mie considerazioni: è impossibile infatti che esse producano in tutti lo stesso identico effetto.
Alcuni sbirceranno qua e là qualche parola, senza molta convinzione, e cambieranno immediatamente pagina: rappresentano “la strada”, terreno arido: non ricorderanno nulla, neppure il vangelo di oggi.
Altri si sentiranno sul momento un po’ ricaricati, rigenerati, alleggeriti un po’ dai loro problemi; ma subito dopo torneranno ad essere come prima: indifferenti, annoiati, alle prese sempre con gli stessi problemi: è l’accusa che viene rivolta più spesso a certe persone che vanno a messa ogni domenica: “Vai in chiesa da una vita, e sei sempre uguale!”. Questi impersonano il terreno “sassoso”.
Altri ancora si sentiranno toccati nel loro cuore da Gesù e vorrebbero tanto poter adattare il senso di queste parole alla loro vita; ma la pressione, il giudizio degli altri, il rispetto umano, sono troppo forti e invadenti: “Ma credi ancora alle panzane che leggi? È sempre la stessa musica, è uno che parla, parla, e non si accorge che la vita reale è un’altra cosa; è un povero illuso!”: in questo modo il mini germoglio appena nato, verrà soffocato. Siamo nel terreno “con le spine”.
Eccezionalmente, però, può succedere che qualcuno, toccato nel cuore e nella mente dallo Spirito di Dio, esca da questa pagina più “motivato”, si senta meglio di come era entrato. Come mai? Perché ha scoperto, meditando queste parole apparentemente banali, un messaggio illuminante che il Divino Maestro riservava proprio a lui. Siamo nel “terreno buono”.
Lo stesso testo del vangelo, lo stesso “commento”, hanno dunque ottenuto risultati diversi: perché sono le persone ad essere diverse, sono i vari terreni su cui cade il seme della Parola. Il testo proposto è identico per tutti, è vero, ma non altrettanto lo è la fede, non le aperture o le chiusure mentali, non i pregiudizi, non le reazioni personali.
Allora non è tanto il seme l’elemento determinante, ma siamo noi, il terreno che lo riceve. Il seme che Dio sparge, uguale per tutti, trova una diversa efficacia in funzione del diverso terreno che lo accoglie: la strada arida, la pietraia, il roveto, quello fertile.
E se noi rappresentassimo un po’ tutti e quattro i terreni in questione? La parabola ci aiuterebbe comunque ad accettare, oltre che le conquiste (pochine), anche i nostri fallimenti (molti).
Gesù infatti ci accoglie e ci ama comunque anche se non riusciamo a realizzare positivamente ogni nostro proposito, anche se talvolta siamo decisamente dei terreni aridi: purché riusciamo almeno a dimostrargli di riconoscere umilmente la nostra situazione, e la volontà di riprovare con costanza a trasformarci in terreni fertili: non dobbiamo pretendere da noi stessi risultati eroici immediati, di raggiungere cioè in un solo giorno il massimo della perfezione: la scala della santità è lunga, irta di difficoltà, tutta in salita: fare un piccolo passo quotidiano in avanti, creare almeno una piccola zona di terreno fertile nella nostra anima, è quanto ci deve bastare per infonderci coraggio, per farci guardare al traguardo finale con fiducia e serenità: perché nel seguire Gesù l’importante è non deprimerci, non rinunciare a combattere, non desistere mai dal salire in alto, qualunque cosa accada, di qualunque genere siano i nostri fallimenti quotidiani, i nostri insuccessi, le nostre aridità. Amen.



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