“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,51-58).
La festa liturgica del Corpus Domini risale al 1264 quando il Papa Urbano IV la istituì in ricordo del miracolo successo al sacerdote boemo Pietro di Praga, che dubitava della presenza reale del Corpo e Sangue di Cristo sotto le sembianze del pane e del vino consacrati: per vincere questi suoi dubbi, si recò a Roma per pregare sulla tomba dell’apostolo Pietro e durante il viaggio di ritorno in patria, fece sosta a Bolsena per la celebrazione eucaristica: qui, alla frazione del pane, l’ostia si trasformò miracolosamente in carne, da cui fuoriuscì una grande quantità di sangue, macchiando vistosamente il corporale steso sull’altare. Una preziosa reliquia che possiamo ancora oggi ammirare e venerare nel famoso duomo di Orvieto.
Oggi, dunque, la Liturgia ci ricorda che quando nella celebrazione Eucaristica ci accostiamo all’altare per “assumere” l’ostia consacrata, in realtà noi “mangiamo” il Corpo e il Sangue di Cristo. Ci immedesimiamo in Lui. È la festa dei discepoli, di tutti noi, la festa della condivisione, la festa che ci ricorda l’importanza e i doveri dell’essere Chiesa.
Il vangelo parla più volte di “mangiare la carne” e “bere il sangue”. Ovviamente, quando la gente sentiva queste parole, inorridiva. E possiamo ben comprenderne i motivi: non a caso i primi cristiani, fra le varie accuse, furono tacciati anche di cannibalismo, di antropofagia, di infanticidio. Del resto, il verbo “trògo”, mangiare, usato da Gesù, non lascia dubbi: vuol dire proprio masticare.
Ricordo in proposito che una vecchia suora ripeteva severamente a noi ragazzini, durante la preparazione alla Prima Comunione: “Non masticate la particola, perché fate male a Gesù!”. Parole che mi hanno colpito così profondamente, che ancora oggi talvolta mi condizionano.
Ma all’epoca vigeva ancora la mentalità che discriminava rigorosamente la “materia” rispetto allo “spirito”. Si diceva: “Tutto ciò che è materia, che è corpo, che è umano, che muore, è negativo, indegno, spregevole, è peccato. Soltanto ciò che è spirito è elevato, sublime. Per far emergere lo spirito dobbiamo mortificare il più possibile la materia”.
Pertanto la “materia”, il corpo, era considerato solo un vile rivestimento, un contenitore, la prigione dello “spirito”: chi desiderava rispondere ad una vocazione religiosa, chi ambiva seguire Cristo, doveva reprimere il suo lato materiale, fustigare il proprio corpo, doveva purificarlo, in nome di Dio, da ogni godimento mondano. La via della santità passava attraverso la totale privazione di ogni piacere naturale: per il cibo e le bevande, per le gioie sessuali e l'affetto, per il divertimento e le sane risate. Qualunque debolezza in questo senso, era “peccato”, tutto era opera del demonio. Lo slogan era: “Il corpo è di Satana: bisogna combatterlo”.
Poi finalmente si è capito che oltre allo spirito, abbiamo avuto in dono da Dio anche un corpo; inscindibili l’uno dall’altro: non esiste nessun corpo umano senza spirito, come nessun spirito, nessun’anima, senza il proprio corpo; ogni uomo è costituito da questi due elementi inseparabili: quando stiamo male nel corpo, infatti, anche lo spirito soffre, sta male; al contrario quando lo spirito sta bene anche il nostro corpo sta bene. Noi non ce ne rendiamo conto ma molte delle nostre malattie corporali dipendono da malattie dell'anima: in tal caso possiamo prendere tutti i farmaci che vogliamo, tutti gli antidepressivi in circolazione, ma non ne usciremo mai, perché non è il corpo che è ammalato, ma il nostro spirito: il corpo funge semplicemente da termometro, è il display, la “radiografia” del nostro spirito.
Chi non ama il proprio corpo non ama neppure Dio perché il corpo è l’abitazione dello Spirito di Dio. Il corpo è di Dio. S. Paolo lo definisce “tempio dello Spirito Santo”. Ecco perché dobbiamo riconciliarci con il nostro corpo, dobbiamo conoscere e rispettare i suoi ritmi, i suoi limiti, le sue possibilità; dobbiamo amarlo, dobbiamo volergli bene.
Senza ovviamente oltrepassare i limiti del buon senso e della morale naturale: perché oggi, dal disprezzo pressoché totale di una volta, siamo passati oggi alla più sfrenata esaltazione del corpo umano; la società del consumismo è arrivata ad idolatrare il corpo, e non solo quello femminile. Oggi il corpo viene ostentato, viene pubblicizzato in tutta la sua felina armoniosità; è diventato merce di scambio, oggetto di latria, di culto. Qualunque sua imperfezione determina la discriminazione della persona; l’amore che gli viene tributato è comunque ben lontano dal rispetto che ci ha insegnato Gesù, dall’amore con cui Lui ama il nostro corpo.
Quando andiamo a fare la Comunione, il ministro ci mostra la particola e dice: “Corpo di Cristo”; e noi rispondiamo “Amen!”, cioè “è vero, è così, sto veramente per mangiare il Corpo di Gesù”.
È l’istante del nostro incontro materiale con Dio. Il Divino si riumanizza in noi, e dovremmo allora sentire il nostro cuore esplodere in umile preghiera: “Ecco, Signore: questo è il mio di corpo, te l’offro come tua abitazione: entra tranquillo, farò di tutto per rendere confortevole la tua presenza!”; e Gesù di rimando: “Amen; lo so, va bene, tranquillo, mi piaci così come sei: insieme faremo grandi cose!”.
Se sapessimo ascoltare, sentiremmo sicuramente queste o simili espressioni: perché incontrarsi attraverso l’Eucaristia è senz’altro motivo di conforto, una gioia reciproca, quella di Dio e quella nostra!
Lui, il Dio onnipotente, non si vergogna di venire dentro il nostro corpo, anzi entra nella nostra umanità per amarla, valorizzarla, ristrutturarla, difenderla; viene perché è felice di stare a tu per tu con noi; viene per identificarsi con noi, Corpo nel corpo. E lo fa anche per necessità, perché egli ha bisogno di noi, del nostro corpo; dopo la sua ascesa in cielo, infatti, il nostro corpo gli è indispensabile: per muoversi, per operare, per continuare a parlare, per catechizzare questo mondo ostile; durante questa nostra vita siamo noi il suo alter ego: siamo noi la sua voce, il suo viso, le sue braccia, le sue gambe, il suo cuore.
Un compito molto impegnativo, per il quale è necessario “santificare” questo nostro corpo, averne cura, non esporlo mai al pericolo del male, non asservirlo irresponsabilmente al peccato.
Ci siamo mai chiesto perché Gesù, invece del suo "corpo", non ci invita a mangiare e a nutrirci della sua santità, della sua giustizia? Perché, invece del suo sangue, non ci dice di bere la sua innocenza, la sua mitezza? perché non ci dice di prendere dalla potenza divina tutto il suo vigore? Invece si limita a dire: “Prendete e mangiate la mia carne!”. Non vi sembra incredibile? Gesù, il Dio onnipotente, ci lascia in eredità la debolezza, la fragilità del suo corpo umano!
Avrebbe potuto scegliere mille altri modi per rimanere con noi: avrebbe potuto lasciarci un segno straordinario della sua potenza, della sua gloria, un segno evidente e definitivo per rassicurare la nostra fede sempre traballante. Avrebbe potuto... E invece no! Gesù ha scelto di rimanere in mezzo a noi con il suo corpo, la sua storia, la sua vita appassionata d'amore, il suo Volto, sublime trasparenza di quello del Padre.
Mangiare la carne e bere il sangue del Signore significa pertanto nutrirsi del cuore incandescente dell'Amore, significa assimilare la linfa di quella Vita più forte della morte, significa scoprire che Dio è più intimo con noi, di quanto lo siamo noi stessi.
Ciascuno di noi è chiamato quindi ad abbandonare il suo agire da “uomo vecchio” per diventare altri “Cristo”. Dobbiamo abbandonare l’io, per diventare Lui. Dobbiamo abbandonare la nostra identità per diventare Corpo di Cristo, per assumere la sua identità, l’identità del “Dio in noi”.
Non si tratta ovviamente di un processo facile, come può essere il “mangiare”, il prendere un cibo qualunque: non per nulla Giovanni qui introduce la necessità di masticare: non una semplice “ingestione”, ma una ruminatio, un’assimilazione lenta, studiata, progressiva.
In altre parole si tratta di una profonda “conversione”, un diventare “l’Altro”.
Nei vangeli, tutti quelli che hanno “incontrato” Cristo, non sono più stati gli stessi di prima.
La loro è stata un’esperienza radicale, sconvolgente, risolutiva. E la nostra “esperienza”? Che cambiamento è avvenuto in noi? Dove, come, quanto, Dio ci ha “sconvolto” la vita? Che fuoco ha acceso dentro di noi?”.
Se non si è verificata in noi alcuna “conversione”, vuol dire che la nostra fede non è ancora vera, autentica. Se continuiamo ad essere “noi stessi”, se continuiamo a rimanere ancorati alle nostre idee, ai nostri atteggiamenti, vuol dire che ancora non siamo riusciti ad immedesimarci con “Lui”. Allora il nostro “incontro” con Gesù Eucaristia, dovrà purificarsi, dovrà essere un incontro di vera “comunione”: in questo modo Egli, offrendosi a noi, compenserà il nostro nulla, trasformandoci da “esseri carnali”, in “esseri spirituali”: con la sua azione di grazia, cioè, noi arriveremo gradualmente a vivere della sua stessa Vita.
Preghiamo allora, oggi in particolare, Gesù Eucaristia, perché si attui questa nostra conversione, perché ogni discepolo su questa terra si apra al suo stupore e al suo amore di Dio, perché ogni prete, ogni cristiano, che agisce nel Suo nome, diventi sempre più trasparenza di Dio.
Preghiamo perché nessuno svilisca, “cosifichi”, invalidi, l'Eucarestia domenicale: ma al contrario essa si trasformi, all'interno della nostra settimana, in una forza dirompente, divinizzante, un salubre pungolo per sollecitare la nostra mediocrità, e diventare discepoli sempre più convinti e consapevoli dell'immensità di Dio. Non spegniamo mai lo Spirito Divino che è in noi: lasciamo invece che la Sua grazia ci raggiunga e ci trasformi radicalmente. Amen!
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