“Perciò
chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al
Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini,
anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”.
(Mt 10,26-33).
Siamo
nel capitolo 10 di Matteo che contiene il famoso discorso “missionario” di
Gesù: una serie di “istruzioni” che dovevano accompagnare gli “inviati”, gli
annunciatori del vangelo, nella loro missione apostolica.
Nei
primi anni e nei primi secoli non è stato sicuramente facile essere cristiani!
L’esserlo comportava una scelta esigente, una scelta coraggiosa per le
inevitabili gravi conseguenze. Non era una scelta fra le tante, ma una scelta
che determinava la vita.
Oggi per
molte persone essere cristiani o non esserlo non fa alcuna differenza. Andare
in chiesa o non andarci è un po’ la stessa cosa. Che Gesù sia esistito o meno, non
determina le scelte della loro vita: scegliere o non scegliere Cristo è, per
esse, assolutamente ininfluente, come scegliere in quale supermercato fare la
spesa, in quale negozio acquistare un vestito o quale spiaggia scegliere per le
vacanze.
Non così,
per quanti invece decidono di seguire Cristo.
Il testo
ci propone infatti quattro contrapposizioni (nascosto-svelato,
segreto-manifesto, tenebre-luce, orecchio-tetti) che ci prospettano, in qualche
modo, lo stile di vita dei primi cristiani: la loro era una esistenza di fede profonda,
praticata nel nascondimento, nel segreto, nelle catacombe; manifestare il
proprio credo in pubblico era pericoloso, molto pericoloso. E ci voleva molto
coraggio!
Per noi
ora non è più così. Testimoniare la nostra fede non comporta più alcun
pericolo, soprattutto quello di morire martirizzati: semmai l’unico rischio che
potremmo incontrare è quello di venire isolati, di rimanere soli, messi alla
berlina, non essere capiti, accettati.
Un
niente: ma è una eventualità che mortificherebbe inevitabilmente il nostro
“ego”, mettendoci nella impossibilità di ottenere riconoscimenti, consensi, attestazioni
di stima da parte degli altri; una situazione che porterebbe ad assumere un
comportamento a dir poco paradossale: essere cioè cristiani a singhiozzo, compatibilmente
con le circostanze della vita: credere quando ci fa comodo, quando ci conviene,
quando cioè abbiamo un ritorno di riconoscimenti e ammirazione. Salvo poi, quando
non ci conviene più, nasconderci, cambiare faccia, cambiare fede e religione
con grande naturalezza e disinvoltura!
Ebbene,
il vangelo di oggi non ci raccomanda tanto di professare pubblicamente la
nostra fede, quanto di essere sempre coerenti con noi stessi, con la nostra
fede, con la nostra coscienza; in una parola di essere persone autentiche, che
sanno fare luce dentro di loro, proprio là dove convivono paura e coraggio,
amore di Dio e calcolo egoistico, amicizia con Gesù e orgoglio personale,
invidie, risentimenti.
Vogliamo
far sapere al mondo chi siamo veramente? Facciamolo praticamente con la nostra vita:
perché in questo modo non solo cresciamo come uomini e come cristiani, ma
testimoniamo coerentemente la nostra fede.
“Non
abbiate paura”,
ci rassicura Gesù: ma la paura è la nostra fedele compagna di viaggio; noi
abbiamo paura di tutto e di tutti, anche delle cose più insignificanti: di un
piccolo dolore, di possibili offese da parte di qualcuno, di cosa gli altri
possano pensare di noi.
Siamo
troppo condizionati dal “rispetto umano”, dal giudizio della gente! Al punto da
evitare talvolta di compiere per vergogna delle buone azioni: come per esempio
di farci il segno della croce, di recitare a voce alta una preghiera, di
esprimere sinceramente in pubblico un nostro parere “cristiano” sulle questioni
del momento. Dobbiamo purtroppo ammettere che la nostra fede è troppo debole, la
nostra coerenza troppo fragile, la nostra carità decisamente effimera.
Eppure
le parole del Signore dovrebbero essere per noi, in ogni momento, la luce che
ci illumina, la forza che ci determina, che ci rende tetragoni ad ogni
pericolo: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno
il potere di uccidere l'anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far
perire l'anima e il corpo”. Gesù è sempre chiaro, paradigmatico, esemplare,
non lascia mai spazio a dubbi.
Ci
colpisce in particolare la triplice raccomandazione di Gesù di “non aver
paura”: e ci spiega chiaramente di chi e di che cosa dobbiamo aver paura: non
delle ossessioni personali, non delle nostre idiosincrasie, e soprattutto non di
“quelli che uccidono il corpo”: sappiamo bene, per esperienza, quanto
gli uomini possano ferirci: possono infatti umiliarci, farci paura, farci
pressioni, disonorarci. Possono infliggerci qualunque ferita corporale, ma non
possono toglierci l’anima; a meno che noi stessi non glielo permettiamo. C’è
qualcosa in noi che è solo nostro, di nessun altro: nessuno infatti può ferire,
uccidere la nostra anima, senza che noi lo permettiamo.
Per
quanto possiamo essere oggetto di pressioni, di paure, di costrizioni, ci
rimane sempre uno spazio di libertà, uno spazio in cui siamo solo noi a comandare,
dove siamo solo noi a decidere la nostra vita. Nessuno può toglierci l’anima,
questo nostro “soffio” divino: noi soli lo possiamo “soffocare”, nessuno può
sottrarcelo. Questa è la nostra più grande ricchezza.
Noi non
“siamo” il nostro lavoro, la nostra professione, la nostra laurea; non “siamo”
la nostra posizione sociale, il nostro ruolo, la nostra fama: “siamo” unicamente
la nostra anima!
Allora
non svendiamo noi stessi. Perché quando abbiamo perso noi stessi, la nostra
coscienza, quando non sappiamo più chi o cosa siamo, non ci rimane più niente. Troppe
persone sprovvedute, anche cristiani, accettano purtroppo di svendere la
propria anima per nulla: per i soldi, per la ricchezza, per il piacere, per il
benessere, per la gloria, per il potere! Chiamano “vita” ciò che è morte; e
chiamano morte ciò che invece è “Vita”.
Per
sottolineare queste sue raccomandazioni, Gesù introduce quindi due immagini
poetiche: quella dei passeri e del numero dei capelli sul capo.
In
pratica dice: “Nulla accade nel mondo senza che Dio lo sappia. Egli è più
grande di tutto e di tutti, è il più forte”; “non cade un passero senza che
Lui lo sappia”: che non vuol dire: “non vi capiterà mai di cadere”, ma: “se
vi accade di cadere, Dio ne è a conoscenza”; in sostanza Gesù ci assicura che
anche nella sofferenza, Dio c’è, non siamo mai soli, mai abbandonati a noi
stessi; la sua presenza è sempre una presenza di salvezza, anche se non la
percepiamo immediatamente, anche se, a livello psicologico, non le diamo grande
importanza.
È
comunque una grande consolazione sapere che tutto quanto ci riguarda, anche le
cose più “insignificanti”, come la perdita dei capelli, è sempre presente al
cuore di Dio.
Come
possiamo pensare che il Dio che ci ha creati, che ci ha voluti, ci possa poi abbandonare
a noi stessi? Che Colui che ci ha donato la vita, possa togliercela?
Tranquilli, non è possibile: la liturgia stessa ci dice perentoriamente che “vita
mutatur non tollitur”, la vita un giorno ci verrà cambiata, ma non tolta!
Quindi non preoccupiamoci, viviamo serenamente la vita che Dio ci ha donato,
nella certezza che Egli, anche se non lo capiamo, lavora per noi, agisce
continuamente per noi, vuole sempre il nostro bene vero!
C’è, è
vero, un avvertimento molto importante che conclude il vangelo di oggi: “Chi
mi rinnegherà... anch’io lo rinnegherò!”. Parole severe che sembrano
contenere addirittura una minaccia, una promessa di vendetta da parte di Dio,
un ritorno all’antica legge del taglione: “Tu mi tratti così? Mi rinneghi con
la tua vita? Io ti ripago con la stessa moneta: ti rinnego!”.
Una
sentenza punitiva, tuttavia, che non è assolutamente imputabile a Dio, ma
direttamente a noi; rientra cioè nel principio di “causa-effetto”: noi sappiamo
infatti già fin d’ora che un giorno le possibilità che ci aspettano saranno due
soltanto: o l’essere accolti come “benedetti” oppure rinnegati come “maledetti”;
e ciò grazie esclusivamente alle nostre attuali scelte di vita: perché, in
breve, chi ama sarà amato, chi disprezza sarà disprezzato.
Oggigiorno
però, nel nostro cristianesimo annacquato, quell’incontro finale con Dio che si
chiama “giudizio”, in base al quale conosceremo la nostra destinazione eterna,
è stato completamente rimosso da ogni priorità e preoccupazione: nel tripudio
dell’esaltazione assolutoria della divina Misericordia, ci siamo completamente dimenticati
dei nostri doveri di cristiani, di discepoli “chiamati” a testimoniare il
vangelo con le opere e il buon esempio: ci siamo cioè progressivamente adattati
al principio del “fai come ti pare, tanto Dio è buono!”, con cui puntualmente
addomestichiamo qualunque precetto o comandamento divino; del resto, perché preoccuparcene,
se poi Dio, che è “misericordia assoluta”, alla fine ci salverà e ci premierà
comunque? Opinione oggi molto diffusa e affermata anche nella Chiesa: una
lettura del vangelo partigiana, distorta, incompleta, avvalorata peraltro da
una catechesi che dovrebbe invece esprimersi in maniera più fedele, più veritiera
e completa. Perché che Dio sia “Misericordia infinita”, è vero: ma è vero anche
che è “Giustizia infinita”: altrimenti Dio farebbe un torto a sé stesso, alla
sua “essenza” divina: cosa improponibile, inaccettabile, inammissibile.
In
definitiva Gesù, con queste parole così perentorie, vuol dirci: “Fate
attenzione: comportatevi per quello che siete (miei testimoni). La fedeltà al
vostro ruolo sarà per voi l’unica garanzia per godere della mia amicizia
eterna”. Che poi è semplicemente il presupposto anche di qualunque sano
comportamento umano: “Io so e sento che fare del bene è la vera felicità di cui
il cuore umano può godere” scriveva Jean-Jacques Rousseau.
Mai
allora disinteressarci della nostra anima, mai infangare il volto del Gesù che vive
i noi. A dirlo è facile, ma non è così: essere “cristiani” sul serio, essere
discepoli di Gesù, comporta infatti sacrifici costanti. Brutto segno se a noi
non costa nulla: perché vuol dire che non abbiamo centrato il senso del vivere cristianamente:
forse ci siamo abituati a chiamare morte ciò che è vita. Oppure chiamiamo vita
ciò che, magari, è morte certa.
Ciò che
ci qualifica come veri cristiani, ciò che ci assicura di vivere nel giusto, di essere
nel cuore di Dio, è proprio la fatica di essere testimoni fedeli, sono le continue
difficoltà che dobbiamo superare quotidianamente per non deviare dal “nostro”
cammino.
Allora qualunque
cosa ci stia capitando, smettiamo di controllare le giornate, le persone, l'età
che passa, cosa dice la gente di noi. Smettiamo di controllare, perché tanto
c'è già Lui che controlla ogni cosa: ci pensa Lui. C'è Lui, non devo temere nulla,
e anche se tutto sembra morte diciamoci: "Vado verso la vita!". Amen.
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