giovedì 22 dicembre 2016

25 Dicembre 2016 – Natale del Signore Gesù Cristo

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,1-14).

Tutti noi, almeno per un istante, ogni anno, sentiamo dentro di noi la nostalgia del Natale, quasi un richiamo lontano. Come mai? Perché il Natale è la festa della gioia. Lo dice il vangelo: “Ecco vi annuncio una grande gioia che sarà di tutto il popolo” (Lc 2,10). Un Bambino, la nascita di un bebè, ci ricollega naturalmente alla gioia: e quando nasce un bimbo la felicità esplode, si diffonde, è contagiosa. Una nuova nascita è sempre speranza, nuova possibilità, significa ripartire. È un po’ come dire: “Dove io non sono riuscito... tu ce la farai!”.
Il Natale richiama soprattutto la gioia di quando eravamo bambini. Perché la gioia non è un’emozione, è uno stato naturale, è qualcosa che avevamo ancor prima di ogni emozione.
Forse noi ce ne siamo dimenticati, forse non ci crediamo, ma ci fu un tempo in cui eravamo felici, un tempo in cui l’Eden lo vivevamo per davvero. Poi è arrivata la tristezza, il dolore, la paura, ma prima di tutto questo c’era la gioia. Le emozioni si imparano ma la gioia è qualcosa di innato, che tutti abbiamo dentro. Allora dirci Buon Natale è ricordarci che la gioia è già in noi.
In questo giorno così particolare, leggiamo sempre il vangelo di Luca: la storia di Maria e di Giuseppe che non trovano posto nelle locande e che nessuno vuole; gli angeli che cantano nella volta celeste: “Gloria a Dio e pace in terra”; i pastori, la mangiatoia.
Un racconto accattivante, intimo, commovente; ma, sarà capitato anche a voi di chiedervi: è storia vera o una pia ricostruzione fatta dalla devozione dei primi cristiani?
Alcuni studiosi, tra cui molto clero “istruito”, ritengono il 25 dicembre una data farlocca, contestando la veridicità del racconto lucano sia sul periodo invernale della nascita che sulla conseguente presenza dei pastori nelle vicinanze; la verità, secondo loro, è che la festa del Natale il giorno 25 dicembre si sarebbe diffusa solo in data molto tarda, imitando e assorbendo la festa pagana in onore del Dio Sole (il Cristo che nasce paragonato al Sole che sorge nel mondo).
Personalmente non condivido entrambe le argomentazioni. Non voglio qui tediarvi con ragionamenti complessi, ma è bene sapere come, secondo eminenti studiosi, le cose siano invece concordabili in tutto con i racconti di Luca e Matteo, gli unici che trattano l’infanzia di Gesù.
Prima di tutto il periodo invernale e la data del 25 dicembre. Per dimostrare la loro attendibilità dobbiamo attenerci ai fatti: nel 1947, in località Qumran, in alcune grotte prospicienti il Mar Morto, furono rinvenuti, chiusi in giare, manoscritti e papiri – i famosi Rotoli del Mar Morto – riportanti argomenti biblico/teologico/liturgici. Tra questi documenti figura un “Libro dei Giubilei” (Masafa Kufālē), redatto nel II sec. a. C., in cui (come leggiamo anche nella Bibbia 1Cr 24,10) è riportata la successione delle 24 famiglie o classi sacerdotali che dovevano prestare servizio al tempio, da un sabato all’altro.
Ebbene: questo rotolo ci dice che la classe di Abia – quella a cui apparteneva Zaccaria padre di Giovanni il Battista – era ottava nell’ordine di turnazione e svolgeva il servizio in due periodi, corrispondenti ai nostri 24-30 marzo e 24-30 settembre. Ora, i primi padri della Chiesa – Ippolito, Giustino, Ireneo – testimoniano che i cristiani erano soliti, già dal II sec., celebrare il Natale di Cristo il 25 dicembre: si tratta di attestazioni piuttosto autorevoli, di accertata autenticità, se si pensa che, per circa 100 anni, la successione apostolica e gerarchica della Chiesa, e la memoria di essa, fu tenuta dai diretti discepoli di Gesù e, via via, dai loro familiari e conoscenti. Ciò significa che il 25 dicembre era comunemente accettato come vera data del natale di Cristo.
Ora, il “Libro dei Giubilei” suddetto, conferma in maniera netta e indiscutibile questa tradizione della Chiesa paleocristiana. Come? Facciamo due conti: Zaccaria (Lc 1,1-25) entra nel Tempio per il turno a lui spettante il 24 settembre rimanendo sino al 30 del mese. In questo periodo, nel giorno della cerimonia della incensazione, riceve dall’arcangelo Gabriele l’annuncio del concepimento di Elisabetta e del nome del nascituro: Giovanni. Dopo 9 mesi, il 24 giugno, nasce Giovanni il Battista, evento che la Chiesa primitiva celebrava già in questa data. Un elemento che ci consente di giungere ad altre conclusioni. E cioè: Maria di Nazareth (Lc. 1,26-38) apprende dall’arcangelo Gabriele la sua prossima divina maternità e, contemporaneamente, che sua cugina, l’anziana Elisabetta, è già nel sesto mese di gravidanza: possiamo pertanto risalire al 24/25 marzo come data del divino concepimento di Gesù. Maria, appena incinta (25 marzo), corre in visita della congiunta e l’assiste per tre mesi, sino alla nascita di Giovanni (24 giugno). Tre mesi da Elisabetta e altri sei a Nazareth, danno il 25 dicembre quale compimento della divina gestazione e, quindi, giorno della nascita di Gesù.
Due sono le obiezioni che vengono opposte a questo ragionamento: in particolare quelle riferite ai pastori e al periodo di servizio di Zaccaria. Vediamo la prima. Si ritiene non credibile, oltre che impossibile che, nel mese di dicembre, a Betlemme, paese posto ad 800 mt. d’altezza, con un clima notturno estremamente rigido, pastori e greggi stiano all’addiaccio su quegli altipiani: quindi tale circostanza è da configurare, per buon senso, soltanto nei mesi estivi.
La cosa è, invece, spiegabilissima e ragionevole in dicembre. Il Talmud, uno dei più importanti testi del giudaismo rabbinico, redatto tra il II e il VII sec., nel trattato Makkoth 32b, enumera ben 613 precetti (mitzvòt) tra i quali riporta anche antichi precetti e divieti mosaici. Tra questi vi sono quelli che contemplano il tema della “purità” degli animali. In particolare, per quanto concerne le pecore, le classifica in tre categorie di purezza: stabilisce pertanto che le pecore bianche, totalmente pure, al ritorno dai pascoli estivi, possono stazionare all’interno della città o accanto alle mura, sotto tettoie e negli stazzi, cosa invece proibita per le pecore pezzate (seconda categoria), e per quelle interamente maculate (terza categoria), ritenute impure.
Ciò spiega come i pastori (Lc.2,8-12) che accorsero all’invito degli angeli fossero all’interno della località, al riparo in capanne insieme col gregge riunito negli stazzi protetti da tettoie di frasche e paglia. A smontare l’obiezione che non si trattasse di una notte invernale sta anche l’indicazione di Luca che ci dice come i pastori stessero facendo dei turni a guardia delle greggi. Poiché nel solstizio estivo le notti, alla latitudine di Betlemme, sono molto corte e calde, non si vede la necessità che i guardiani si dessero il cambio, cosa invece credibile se si pensa alla lunghezza e al freddo delle notti nel solstizio invernale, per quanto stessero al riparo.
Tutto ciò conferma inoltre che il servizio di Zaccaria non poteva essere espletato nel periodo 24-30 marzo, che avrebbe datato il Natale al 25 giugno, bensì, come abbiamo detto, il 24-30 settembre, con il Natale al 25 dicembre. Appare logico che qualora non fosse stato così, la Chiesa non avrebbe avuto la minima difficoltà, nel solco della sua tradizione, a celebrare il Natale non il 25 dicembre ma il 25 giugno. Noi sappiamo però che la Tradizione ha basi storiche molto solide, basi che spesso superano la comprensione della ragione stessa per via dell’aspetto trascendente dei suoi contenuti.
L’altra questione avallata dai soliti critici è quella della fusione della festa del Natale cristiano con la famosa festa del “Sol invictus”, il Sole vittorioso, festeggiata dai pagani nel solstizio d’inverno, il 25 dicembre appunto.
Le cose non stanno così, per i seguenti motivi: prima di tutto perché la Chiesa non ha mai compiuto operazioni sincretistiche con ricorrenze pagane, semmai ha fatto sempre opera di netta distinzione con le stesse; secondo: perché i fatti ci dicono che non fu la Chiesa, ma Roma, con i suoi imperatori, che tentò di occupare il 25 dicembre, apice del solstizio invernale, per cancellare ed oscurare la festività cristiana di molto antecedente. È sufficiente analizzare la storia: il culto del Dio Sole è stato introdotto a Roma dall’imperatore Eliogabalo (dal 218 al 222 d.C.), di ritorno con le sue legioni dall’oriente. Fu ufficializzato però solo più tardi, dall’imperatore Aureliano (dal 270 al 275), che consacrò solennemente un tempio dedicato al culto del “Sole che nasce” il 25 dicembre del 274, l’anno che precede la sua morte. Fu così che la festa pagana prese il titolo, poi passato alla storia, di “Sol invictus” dal giorno della “nascita”, o della risalita, del Sole; sappiamo però che le cerimonie cultuali presero piede a Roma soltanto sul finire del III secolo, tant’è che durante il regno dell’imperatore Licinio (dal 308 al 324), la festa alla divinità solare, a Roma come altrove, veniva celebrata ancora il 19 e non il 25 dicembre: era insomma una festa con data variabile nell’arco dell’anno, spesso comunque compresa nel periodo tra il 19 e il 22 dicembre. Pertanto, non fu il Natale di Gesù, la cui data era già fissata al 25 dicembre - come attesta, lo dicemmo sopra, Ippolito (170 -235) e come dimostra la “Depositio Martyrum” (l’antico calendario dei martiri), composta intorno al 336 - ad occupare il giorno 25 dicembre, incorporando la festività mitraica, ma furono gli imperatori che, come Giuliano, nell’intento di restaurare o proteggere il culto del Sole, la nuova divinità romana, provarono a soffocare la religione cristiana con la sua più importante manifestazione.
Tutto questo, e mi perdonerete, per dire che tutte le fonti concordano nell’indicare la nascita di Gesù il 25 di dicembre: oggi!
E allora: Buon Natale a tutti voi. Buon Natale a voi, ai vostri cuori e a tutte le persone della vostra famiglia. Per il mondo intero oggi è Natale: auguri, baci, abbracci, saluti, pranzi, panettoni, regali, sorrisi. Bene! Se il Natale ci aiuta a far festa, bene.
Ma attenzione: non perdiamo di vista il centro di questa festa. Che non ci succeda di scambiare il Natale di Gesù con tutto questo. Tutto questo è contorno: ma il regalo vero, il Natale, è un’altra cosa.
Cosa ci dice allora il Natale? Cosa ci dice questo vangelo per noi oggi?
Una cosa semplicissima ma che se la vivessimo sul serio, la nostra vita cambierebbe: qualunque cosa abbiamo fatto (o non fatto), e sottolineo qualunque, Dio è venuto e nato per amarci. Sì, Dio ci ama!”.
“Mamma, chi è Dio?”, chiede un bimbo alla mamma. Come si fa a spiegare ad un bambino chi è Dio? La mamma, in difficoltà, lo prende fra le braccia, lo stringe forte al suo cuore, e gli chiede: “Ora cosa senti?”. “Sento che mi ami, mamma”. “Bene: questo è Dio, figlio mio!”.
Per Dio noi siamo tutti figli unici, amati, cercati, desiderati, voluti. Se c’è una cosa di cui mai, mai, mai, dobbiamo dubitare è dell’amore di Dio. Perché Dio è venuto per questo.
Noi siamo come i bambini: abbiamo bisogno di aiuto, perché non possiamo farcela da soli; abbiamo bisogno di coccole, di amore, di tenerezza, di carezze; abbiamo bisogno di piangere quando siamo tristi. Come i bambini, abbiamo bisogno di crescere, di non pensare di essere già grandi o arrivati, abbiamo bisogno di lasciarci andare, di ridere a crepapelle, di gioire e di star bene; abbiamo bisogno di dire a chi amiamo quanto lo amiamo, e di dirglielo con tutta l’intensità che sentiamo nel nostro cuore. Come i bambini, abbiamo bisogno di sognare, di vederci in grande, di puntare a cose importanti; abbiamo bisogno di presenza, di attenzioni, di essere rassicurati, protetti, abbracciati, consolati.
Dio stesso si è fatto bambino, debole, bisognoso, per farci accettare di essere anche noi deboli, vulnerabili, bisognosi di Lui.
Allora il nostro Natale quest’anno sia così: fermiamoci un istante fuori dal chiasso festaiolo di questo mondo, chiudiamo gli occhi per sentire la sua presenza, per ascoltare la sua voce: perché Lui c’è. Qualunque cosa succeda fuori di noi, qualunque tempesta o uragano ci investa, qualunque cattiveria ci ferisca, qualunque evento contrario si abbatta su di coi, noi sappiamo che Lui dentro di noi c’è sempre. Lui è di casa: e per noi questo vuol dire sicurezza, vuol dire un buon Natale oggi, domani, dopodomani, sempre. Perché ogni giorno, insieme a Lui, sarà per noi un magnifico Natale. Amen.



giovedì 15 dicembre 2016

18 Dicembre 2016 – IV Domenica di Avvento

«Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto» (Mt 1,18-24).

Il vangelo di oggi introduce una nuova figura, quella di Giuseppe, lo sposo di Maria. Contrariamente a Luca che ci racconta il Natale dal punto di vista della Madre Maria (annunciazione, visita ad Elisabetta, Magnificat, nascita e arrivo dei pastori, ecc.), Matteo lo racconta dal punto di vista del padre.
“Così fu generato Gesù Cristo…”.
Ebbene, anche questa volta, per capire meglio il significato più profondo del testo, dobbiamo leggerlo nel suo insieme, ricollegandolo a ciò che lo precede.
In questo caso dobbiamo andare proprio all’inizio del vangelo di Matteo: “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda, ecc” (Mt 1,1) e via di seguito, con una sfilza di nomi, qualcuno noto, moltissimi sconosciuti, dei quali ogni volta si dice che “generò” un altro, fino a Gesù. Una pagina narcotizzante, pesante e monotona, la cui proclamazione liturgica è fatalmente destinata ad una micidiale storpiatura dei nomi da parte di ministri in evidente difficoltà biblico-linguistica.
Succede perché noi non ricordiamo o non conosciamo affatto chi c’è dietro questi nomi: se infatti andiamo a vedere meglio, notiamo delle cose per noi incredibili, come per esempio l’aver inserito nella genealogia quattro donne, una scelta strana, inusuale, poiché le donne non apparivano mai nelle genealogie; e cosa ancor più strana è che Matteo, invece di scegliere quattro eroine nazionali, le sante di Israele, come per esempio Ester, Giuditta, Debora, Susanna, ricorda qui quattro donne moralmente discutibili, quattro donne che hanno in comune una situazione irregolare sul modo in cui sono diventate madri e un’astuzia potente su come sono uscite da situazioni difficili: così Tamar (Gn 38) una straniera, rimasta vedova, che pur di non rimanere senza figli si unisce con Giuda, il suocero, il quale sconsolato per la morte della moglie cercava conforto con le prostitute. Racab (Gs 2), la tenutaria del bordello di Gerico, che accoglie in casa sua le spie israelite inviate da Giosuè. Rut (Rut 3-4) la moabita, che rimasta vedova individuò nell’anziano ma ricco Booz la soluzione dei suoi guai. E mentre Booz dormiva, Rut si infilò nel suo letto e da quell’unione nacque Obed, nonno del re Davide. Infine Betsabea (2 Sam 11): Matteo neppure la nomina, tanto la disprezza; dice “la donna di Uria”, la quale finché il marito era in guerra, sedusse con la sua bellezza il re Davide, da cui ebbe Salomone, che lei riuscì a mettere sul trono al posto del legittimo erede Adonia.
Donne antenate di Gesù, quindi, che non furono per niente modelle di santità. Furono donne scaltre, furbe, che utilizzarono le armi della seduzione e della sessualità per arrivare là dove volevano arrivare.
È chiaro che la preoccupazione di Matteo non è quella di redigere un documento storico: quello che gli preme è l’aspetto “teologico”. Egli vuol dare qui un messaggio ben preciso, che tradotto suona così: “Non vi scandalizzate per la situazione di Maria, rimasta incinta all’insaputa del marito Giuseppe. Come potete vedere, anche le sue antenate hanno vissuto situazioni irregolari ma, nonostante ciò, si sono messe al servizio di Dio, assicurando la continuità del Suo disegno salvifico e della storia del Suo popolo. 
Esse, con la loro maternità ottenuta con mezzi irregolari, hanno dimostrato come il piano di Dio possa seguire anche delle vie imprevedibili, inattese, spesso incomprensibili”. Si sono messe a disposizione, con la loro femminilità, al progetto divino della vita, diventando testimoni dell’azione imperscrutabile dello Spirito; la loro maternità, ingiustificabile secondo la legge umana, è diventata prefigurazione profetica di un’altra maternità, altrettanto ingiustificabile secondo la legge umana: quella di Maria, una giovane donna galilea, promessa sposa di quel Giuseppe che con la sua discendenza lega Gesù al ramo davidico.
Ma la catena di ben 39 “generazioni” è stata improvvisamente interrotta una volta giunta al nome di Giuseppe: il testo cioè non prosegue dicendo, come ci saremmo aspettati, che “Giuseppe generò Gesù”; dice invece “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù che è chiamato Cristo” (Mt 1,16).
Tutta la generazione maschile di Gesù, quella che dava non solo la vita, ma anche la tradizione culturale e religiosa del popolo di Israele, si interrompe dunque con Giuseppe.
Come mai? Perché quello che Matteo vuol dire, è che con la nascita di Gesù si compie una nuova creazione. La creazione descritta nel primo libro della Genesi, con tutto quello che segue, appartiene alla storia passata: Gesù rompe con il passato, tant’è che non viene generato da Giuseppe, la genealogia passata si ferma con lui, egli rompe con la tradizione precedente, ne instaura una nuova, fonda una nuova economia. In questo senso è un sovversivo, un rivoluzionario, uno che ha messo dei paletti, uno che quando si riferirà ai suoi antenati, non li chiamerà mai “i nostri padri” ma sempre “i vostri padri” (Gv 6,49; Mt 23,32). Il creatore della nuova Genesi non poteva essere generato da un uomo: è Dio stesso che entra in Maria per abilitarla a questo nuovo corso.
Ma torniamo al vangelo odierno. “Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”.
Come abbiamo dunque visto, il testo che precede immediatamente queste parole, ci conduce passo passo fino ad incontrare questo sconosciuto Giuseppe, che Matteo qualifica come “lo sposo di Maria”.
È praticamente tutto quello che sappiamo di lui. Egli non pronuncia neppure una parola, degna di essere ricordata nei vangeli: è un uomo che vive nel silenzio, nella penombra, nell’oscurità, in punta di piedi. Improvvisamente, si trova a dover affrontare un problema estremamente delicato: Maria,la sua fidanzata, prima che essi iniziassero a vivere insieme, rimane incinta.
È questo il punto focale attorno cui ruota il racconto di Matteo: la gravidanza di Maria e la reazione incerta, dubbiosa, indecisa di Giuseppe.
Mettiamoci nei suoi panni: Egli trova incinta la sua fidanzata e ovviamente non capisce più nulla: è un uomo che precipita in una crisi profonda di fronte ad un evento che non comprende e ad una donna che non dice una parola. Si trova nel buio, nella notte, nel dubbio atroce.
Matteo sottolinea a questo punto che Giuseppe era “giusto”; per lui, preoccupato di sottolineare l’aspetto teologico delle cose, dare del “giusto” a Giuseppe significava riconoscere in quest’uomo la sintesi degli atteggiamenti dei giusti vetero testamentari: come per esempio Noè “che cammina con Dio” (Gn 6,9), o come Abramo che “credette in Jahweh, che glielo accreditò come giustizia” (Gn 15,4-6). I “giusti”, per la Bibbia, sono quindi tutti quelli che sono fedeli alla legge, quelli che osservano scrupolosamente ogni sua prescrizione.
Ora, in casi del genere, la Legge è chiara: “Ripudiala; anzi, poiché ti ha tradito, è giusto, è tuo dovere, che tu la denunci alle autorità perché la condannino a morte per lapidazione”.
Ma Giuseppe ama Maria. È la sua donna, vorrebbe sposarla e le vuole bene. Si vede ingannato, è vero, perché lei lo ha tradito ed è rimasta incinta. Giustamente può condannarla. Se fosse stato “giusto” come intendiamo noi, Maria sarebbe stata lapidata, perché questo prescriveva la legge. Ma Giuseppe è “giusto” su un altro piano, la sua giustizia è un’altra. Egli non obbedisce alla legge antica; obbedisce al cuore, alla nuova legge dell’amore. Non è “giusto” secondo la legge, ma secondo l’amore. È “giusto” perché si rende aperto, operativo, disponibile ad accettare il progetto di Dio che attraverso la nascita terrena di suo Figlio, introduce nel mondo la nuova legge del cuore, dell’amore.
Egli pur sentendosi già inserito in questa nuova mentalità, in questa nuova visione delle cose, si trova comunque in conflitto con se stesso: rimanere fedele alla Legge o essere fedele all’amore? 
Giuseppe, pur ferito nel suo orgoglio di maschio, non se la sente di vendicarsi legalmente.
È per questo che decide di ripudiarla di nascosto. Il ripudio era molto semplice a quell’epoca: si poteva ripudiare la moglie anche per una pietanza bruciata o perché aveva parlato con qualcun altro. Bastava scrivere su di un foglio di carta: “Tu non sei più mia moglie” e la donna veniva cacciata via.
Ma Giuseppe non vuole denunciarla, non vuole far uccidere la propria sposa; però neanche la può tenere con sé, e così decide di ripudiarla in segreto.
“Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore”.
Nel mondo ebraico (dobbiamo ricordare che Matteo scrive per una comunità di Giudei) si evita il contatto tra Dio e gli uomini, si evita un contatto diretto con Dio. Allora Dio interviene in sogno. Il sogno, è pertanto il modo che Dio ha per comunicare con gli uomini. “Un angelo del Signore”: attenzione, non dice “un angelo inviato dal Signore”. Quando Dio interviene presso gli uomini viene raffigurato come “un angelo del Signore”; quindi “angelo del Signore” vuol dire Dio stesso. 
“Gli apparve in sogno”: Matteo in due capitoli racconta ben cinque sogni determinanti. Il sogno è un messaggio di Dio. Se accettiamo ciò che Dio tenta di dirci, allora non possiamo più far finta di nulla; la sua Parola non è mai uno sfizio della mente ma una spinta ad agire, a diventare consapevoli. È un cammino, una strada: ci possiamo credere o no, dipende da noi. La Parola di Dio però ci coinvolge sempre: altrimenti è solo una parola, solo una chiacchierata da salotto che non serve a niente.
La Bibbia è dunque ricchissima di sogni, perché Dio parla all’uomo sempre nel sogno, nel silenzio interiore: Giuseppe sposa Maria grazie a un sogno. I Magi non tornano da Erode grazie ad un sogno. Grazie ad un altro sogno Gesù non viene ucciso, perché Giuseppe crede al sogno e scappa in Egitto. Ancora un sogno dice a Giuseppe di tornare in patria e un altro ancora gli dice di non andare in Giudea, ma di portare Gesù in Galilea a Nazareth. Pilato, invece, non ascolta il sogno di sua moglie che gli dice che Gesù è innocente. E compie un crimine.
Ecco allora che anche noi, come Giuseppe, dobbiamo seguire i nostri sogni: anche se sono difficili, anche se richiedono cose che non avremmo mai pensato, soprattutto quando ci portano là dove non avremmo mai immaginato. In questi casi sicuramente la nostra prima risposta sarà negativa: ma l’angelo, la voce di Dio, ci dirà: “Non aver paura, non temere; io sono con te, ci sono io, buttati!”.
Dio, pone sempre l’uomo di fronte ad un dilemma: seguire la sua Voce che lo chiama, o seguire la paura che lo blocca e frena: “Lascia stare, è difficile, non è per te...”.
Giuseppe ebbe paura, ma si fidò dell’incredibile. Maria ebbe paura ma si fidò dell’impossibile. Abramo ebbe paura, ma si fidò ciecamente.
Tutti questi ebbero paura, tutti questi però seguirono i loro sogni, incredibili ma veri.
E ne valse sempre la pena. “Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù”. Amen.



giovedì 8 dicembre 2016

11 Dicembre 2016 – III Domenica di Avvento

«Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,2-11).

Il vangelo di oggi ci ripropone la figura del Battista.
Non più un Battista nel pieno del suo vigore, impegnato a tempo pieno nel predicare, nel battezzare, nel portare i suoi ascoltatori alla “metanoia”, ad una conversione decisa e convinta della loro vita; quello di oggi è un Battista solo, isolato da tutti, sbattuto in carcere da Erode Antipa, tetrarca della Galilea, infastidito dai suoi continui richiami e critiche per il genere di vita peccaminosa che egli conduceva con Erodiade. Un Battista piegato ma non domo, che segue comunque con attenzione, attraverso il racconto dei suoi fedelissimi, l’attività e la predicazione di Gesù: un Gesù che, presentatosi anch’Egli sulle rive del Giordano per essere battezzato, lui ha riconosciuto come il Cristo, l’Unto, il Messia di Israele, il Salvatore tanto atteso: “Io ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?” (Mt 3,13-14).
Dalle notizie che i suoi gli riportano, però, quel Gesù Messia gli appare completamente diverso da come lui lo aveva annunciato, da come lui se lo aspettava: un Messia giustiziere, esigente, spietato con chi non era in regola, uno che avrebbe punito senza possibilità di appello tutti i peccatori; un Messia che egli aveva descritto servendosi di immagini terribili, come abbiamo sentito domenica scorsa: “La scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3,10). Oppure: “Brucerà la pula [gli scarti, coloro che sono senza frutto] con un fuoco inestinguibile” (Mt 3,12). È questo il Messia secondo il Battista: è così che Gesù, secondo lui, si sarebbe dovuto comportare.
Ora invece il Gesù che i suoi gli descrivono, è completamente diverso, diametralmente all’opposto di come lui lo pensava: Gesù è l’espressione di un Dio Amore, un amore universale, che egli offre a tutti indistintamente: un amore che, come il sole, splende su tutti, buoni e cattivi, o come la pioggia che scende su meritevoli e non meritevoli. Il Dio di Gesù è Amore, è un Dio che non giudica, che non condanna, ma al contrario ama e accoglie tutti.
E qui il Battista, completamente spiazzato, entra in crisi. È tormentato da dubbi profondi: non sa più cosa pensare, cosa credere. Nella solitudine del carcere egli vive la sua grande crisi religiosa.
A questo punto, volendo delle conferme, manda i suoi da Gesù, perché chiarisca la sua posizione: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”.
Ma Gesù non risponde in maniera diretta, come lui avrebbe voluto: invita invece gli uomini del Battista a riferirgli semplicemente ciò che accade: “i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”.
In altre parole è Giovanni che deve darsi una risposta: “Tu Giovanni, cosa ne pensi? Cosa ne deduci da tutto ciò?”. Gesù non gli dice “Sì, sono io colui che deve venire” oppure “No, non sono io”. Gesù gli risponde con un collage di citazioni messianiche del profeta Isaia, che lo rimanda a quello che lui effettivamente sta facendo per le strade della Palestina. “Quello che faccio, che provoco, tutto quello che succede intorno a me, ti deve bastare: sei tu che devi tirare ora una conclusione: perché solo da quello che uno fa’, da quello che uno provoca, è possibile capire chi egli sia veramente”.
Ogni altra considerazione è inutile: il nuovo annuncio di Gesù si spiega da solo.
Il passaggio decisivo dall’antica economia della salvezza a quella nuova, rivoluzionaria, di Gesù, è già in atto. A Giovanni sembrerà la fine, una svolta veramente drammatica: ma il crollo delle sue certezze è necessario, per consentire che qualcosa di veramente nuovo e di più vero, possa nascere in lui.
E mentre gli inviati di Giovanni si allontanano, Gesù ne approfitta per parlare del Battista, chiedendo alla folla che lo seguiva: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento” (Mt 11,7). È chiaramente una domanda provocatoria.
L’immagine della canna sbattuta al vento, offre un facile riferimento: a differenza degli alberi che oppongono resistenza alle raffiche del vento, fino ad essere talvolta completamente sradicati, le canne si piegano, seguono passivamente qualunque direzione venga loro imposta, si piegano docilmente ad ogni nuovo corso: la canna scossa, è l’immagine dell’opportunista, della persona che riesce a stare sempre a galla, pronta ad adattarsi ad ogni corrente di pensiero, pur di partecipare al potere.
In pratica Gesù chiede: “Cosa pensate di Giovanni Battista? È forse una canna, un opportunista, un uomo che si china supinamente a chi alza la voce? Assolutamente no: egli è inflessibile, incorruttibile, uno che non è sceso a compromessi neppure con l’amico Erode; anzi decidendo di denunciare pubblicamente la sua condotta immorale, ha ottenuto in cambio il duro carcere”.
“Che cosa dunque siete andati a vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che hanno morbidi vesti stanno nei palazzi dei re” (Mt 11,8).
Altra immagine improponibile per Giovanni. Coloro che vestono “morbide vesti”, abiti sontuosi, di lusso, sono i cortigiani, ossequiosi ma falsi, che pur di tenersi i loro privilegi, sono disposti ad ogni voltafaccia, in grado di cambiare continuamente idea e casacca pur di conservare il loro prestigio, il loro potere. Forse che Giovanni il Battista è come costoro? No!
“Egli è colui del quale è scritto: “Ecco io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te”“ (Mt 11,9). E aggiunge: “non è solo un profeta, ma più di un profeta. È il messaggero, colui che ha spianato la strada al Messia. È il suo apripista, il precursore; il più grande tra i nati da donna.
Sono dunque queste le espressioni usate da Gesù per tessere l’elogio del Battista. Ma subito dopo fa un nuovo paragone: “Giovanni è sicuramente grandissimo, voi tutti lo sapete: ma il più piccolo di quanti seguono il mio vangelo, la mia nuova comunità, è ben più grande di lui”. Perché? Perché come Mosè ha guidato il popolo verso la liberazione, senza poter entrare nella terra promessa, così il Battista non può entrare nel Regno di Dio della Nuova Alleanza. Non basta cioè essere i più grandi nati da donna, ma per entrare a far parte del Regno nuovo, nella nuova società che Gesù ha fondato, è necessario rinascere mediante un radicale cambiamento personale di mentalità e di vita. Il Battista non ha potuto o voluto inserirsi in questa direzione: è morto prima.
Perché nasca in noi qualcosa di nuovo, dobbiamo prima liberarci di ciò che è vecchio, di ciò che ancora esiste, e limita le nostre aspirazioni di cambiamento. Il Battista è certamente un grandissimo personaggio, un profeta che Gesù stesso elogia: ma non è riuscito anche lui a chiudere con la vecchia immagine di Dio, e accogliere il Dio nuovo di Gesù. Non è riuscito a far spazio al nuovo: è rimasto ancorato al passato, per lui sicuro e certo, piuttosto che aprirsi all’incertezza del nuovo, aprirsi totalmente a Gesù. Predicava alle folle un cambiamento radicale, una preparazione risolutiva in vista del Messia, ma quando venne anche per lui il momento di cambiare la sua visione di Dio, non ce l’ha fatta, non ne ha avuto tempo.
In pratica Gesù vuole sottolinearci la pericolosità di un simile comportamento che molto spesso anche noi adottiamo: io sono tranquillo, certo della mia fede, dei miei sentimenti: sono gli altri che devono cambiare!
È la cosiddetta “sindrome dei buoni”. I buoni sono convinti di stare sempre dalla parte giusta: sono gli altri, i cattivi, che devono convertirsi. I buoni indicano agli altri come devono comportarsi: per cui si esprimono sempre “contro” qualcuno o qualcosa: per loro c’è sempre un “male” da combattere, da eliminare, da estirpare. Solo che non si rendono conto che di fronte allo “scandalo” del Vangelo, di fronte alla novità introdotta da Gesù, non sono soltanto i “cattivi” che devono convertirsi a Cristo, ma anche i buoni, quelli che sono convinti di essere “giusti”, quelli che magari sono “perfetti” solo nel loro comportamento esteriore, a termini di legge.
Gesù sa perfettamente che noi siamo buoni, ma anche cattivi. Per questo abbiamo tutti bisogno di amore e di conversione. Di amore, per non sentirci solo cattivi; di conversione, per non sentirci solo buoni e perfetti. Nessuno è tanto buono da non aver bisogno di convertirsi, e nessuno è tanto cattivo da sentirsi indegno di essere amato.
Quando allora nella nostra vita c’è qualcosa che non va, quando tra noi e i fratelli c’è qualcosa che ci divide, smettiamola di ragionare volendo stabilire chi è il buono e chi il cattivo, chi ha ragione e chi ha torto, chi ha agito giustamente e chi ha sbagliato: perché nella vita dove c’è uno che ha ragione, dall’altra parte c’è sempre automaticamente uno che ha torto.
Dobbiamo invece ragionare diversamente: “Senti, noi due abbiamo un problema in comune. Cosa posso fare io per aiutarti, cosa puoi fare tu per aiutarmi? Come possiamo aiutarci insieme?”.
Sì, perché solo con l’amore tutto diventa superabile! L’amore del Dio di Gesù, che è presente in me, in te, in ciascuno di noi.
Quello di Gesù è il Dio della vita, della libertà, della guarigione, del cambiamento. È il Dio che vive in tutti gli uomini, perché tutti sono Sua immagine. È il Dio che inabita ogni creatura: per cui ogni essere umano è mio fratello, ogni creatura è mia sorella. È Lui che ci chiede di “convertirci”, di realizzarci, di trasformare la nostra irruenza interiore in amore cosmico, universale, di diventare noi stessi “tempio” viventi di Dio e “chiesa” dell’Altissimo. Il Dio di Gesù è il Dio della Luce, della consapevolezza: se entriamo in noi, ci scontriamo con i nostri mostri, i nostri fantasmi, le nostre paure, i nostri condizionamenti, ma incontriamo anche il Dio dell’amore che ci abita, ci ama e ci chiede di amare. È un Dio impegnativo perché ci chiede di lasciarci coinvolgere, di lasciarci plasmare.
Allora non basta dire: “Io credo” e sentirsi a posto. “Sì, d’accordo noi crediamo. Ma in che cosa crediamo? Com’è il nostro credere? È rimasto ancora allo stadio puerile, infantile, immaturo?”. Sì, perché se non siamo mai entrati in crisi, se non abbiamo mai avuto difficoltà nel nostro credere, allora la nostra è una fede che è rimasta bambina, piena di paure, di ansie.
Per trovare Dio, dobbiamo “lasciare Dio”. Quando noi vediamo che i nostri ragazzi nel crescere abbandonano l’immagine di Dio, non è una cosa terribile: è solo una tappa necessaria per la loro crescita spirituale. In realtà non abbandonano Dio, ma solo l’immagine bambina che hanno di Dio. Ciò di cui dobbiamo invece preoccuparci, ciò che purtroppo oggi è molto problematico, è che “dopo” non trovano nulla, non trovano nessun Dio con cui potersi identificare, perché noi adulti non abbiamo fatto nulla per metterli in condizione, un giorno, di incontrarlo veramente. Per questo oggi tanta gioventù non crede, non si converte, non cambia vita. Purtroppo segue solo l’esempio di noi adulti!
Siamo poveri di Dio, è vero; siamo impreparati, insufficienti, distratti, per nulla attenti: ma il “lieto annuncio” di Gesù ci assicura che possiamo ancora vivere esperienze che vanno oltre ogni nostra migliore aspettativa: e non dobbiamo aspettare il paradiso, ma possiamo viverle già quaggiù, su questa terra. Annunciamolo ai nostri figli, ai giovani. Perché possiamo vivere, vibrare, espanderci, amare, sentirci grati, essere felici, e tutto con una tale intensità da farci piangere, fremere, da farci mancare l’aria.
Allora, perché voler continuare a strisciare per terra, a vivere come dei vermi, se abbiamo le ali per volare?
Chi si fida di Dio, si libra in alto. Con Dio tutti lo possiamo! Amen.



giovedì 1 dicembre 2016

4 Dicembre 2016 – II Domenica di Avvento

«In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Mt 3,1-12).

Durante questo cammino d’avvento, i vangeli della domenica fanno riferimento a due personaggi: Giovanni Battista (nella seconda e terza domenica) e Maria (nella quarta domenica). Per raggiungere il Natale, dobbiamo pertanto confrontarci con queste due figure: dobbiamo cioè metterci davanti e specchiarci in esse. Giovanni Battista è un modello di uomo libero, autentico, non condizionato, autonomo. Maria è la donna che fa spazio, che accoglie, che si fida di sé e di Dio.
Ma fermiamoci per ora sulla figura di Giovanni Battista: uno che non aveva paura dell’opinione della gente, che lottava per ciò in cui credeva, che aveva il coraggio di esporsi e di pagare di persona per le sue scelte. Fu sicuramente un riferimento anche per Gesù.
Cerchiamo allora anche noi, nel nostro tempo, di attingere, di imparare qualcosa da lui: magari di avere anche noi un po’ del suo coraggio nel rischiare per un mondo più giusto, per la verità, per gli altri, per ottenere qualcosa di grande, qualcosa per cui valga la pena di esistere.

Nella nostra vita, volendo, abbiamo tantissimi i punti di riferimento, modelli esemplari da seguire, da imitare; in una parola dei veri e propri “miti”. Persone che, guardandole, conoscendole, ascoltandole, seguendole, ci prendono il cuore. Persone che meritano la nostra stima per la forza d’animo, la tenerezza, l’amore, il coraggio di osare, l’autenticità della vita, la radicalità delle scelte, l’esporsi al pericolo per non venir meno ai loro ideali: persone franche, vere, che non si sono mai svendute al sistema, all’opinione pubblica, al “così fan tutti”. Tuttavia, nel dilagante materialismo della nostra società, dobbiamo amaramente constatare come troppa gente preferisca mitizzare, idealizzare, innalzare a loro “idoli”, dei personaggi decisamente discutibili, personaggi “costruiti”, lanciati dalla pubblicità, da insulse trasmissioni televisive, prive di ogni dignità, decisamente “spazzatura”; sono gli “eroi” di oggi, pronti a svendere la faccia, la personalità, la dignità, pur di ottenere un fugace riflesso di notorietà, ridicolmente destinata a dissolversi già sul nascere.
Ecco allora che la Liturgia corre in nostro aiuto per offrirci concretamente la possibilità di “convertirci”, di “tornare indietro”, di mettere un punto fermo a questa nostra corsa alienante: in pratica ci dice: “Non svendere la tua dignità per gli scarti, scegli il meglio, vai all’origine, guarda al Battista”.
In effetti, scegliere un Battista come esempio da “vivere”, piuttosto che un’attricetta scosciata o un tarantolato da quattro soldi, significa porsi decisamente su un altro piano, significa distaccarci dalla mentalità corrente, avere un’altra tipologia di maturità, altri sentimenti!
Gesù stesso fu suo discepolo, lo seguì, si fece battezzare da lui: un Dio che imita una creatura; una creatura divenuta “maestro” dell’unico Maestro.
Nel vangelo di oggi, Matteo ci presenta dunque un Giovanni Battista che “predica” nel deserto: nel deserto? Chi è quel predicatore che va a cercare la “sua” folla nel deserto? Ovviamente nessuno. E allora, perché Giovanni se ne sta proprio nel deserto?
Semplice: perché il deserto è il luogo dove tutti dobbiamo “ritirarci” per riprenderci la nostra libertà, la nostra autenticità, la nostra dignità. Nel deserto siamo soli: noi con noi. Nel deserto impariamo a stare con noi stessi, a non dipendere dal giudizio della gente, a non farci contaminare dalle mode, dalle idee, dai luoghi comuni. Nel deserto incontriamo solo noi e Dio: è il luogo ideale in cui metterci davanti a Lui e a noi stessi, e guardarci seriamente: “Questo sono io. Mi accetto o mi rifiuto? Mi detesto o mi accolgo? Che faccio?”. È nel deserto che abbiamo l’appuntamento con le nostre scelte di vita inderogabili.
È nel deserto che ci rendiamo conto di non poter più delegare le nostre scelte di vita ad altri. È nel deserto che dobbiamo decidere se rischiare, se osare personalmente, se avere il coraggio di camminare da soli, oppure se, per paura, continuare a buttarci tutto alle spalle, rinunciando a gestire autonomamente la nostra esistenza.
È nel deserto che dobbiamo decidere se fidarci di noi stessi, se possiamo contare sulle nostre forze, se decidiamo di amarci o no. Nel deserto siamo soli di fronte alla vita, a noi stessi, ad un mondo che spesso ci è ostile e nemico.
È proprio nel deserto, nella solitudine, che ci sentiamo perduti: di fronte al nostro nulla veniamo assaliti dall’angoscia, ci viene da piangere: e allora piangiamo pure tutta la disperazione, la paura, il terrore, lo smarrimento che la vita comporta: perché in questo modo noi maturiamo; è in questo modo che diventiamo forti, che sentiamo nuovamente la gioia, la soddisfazione di vivere senza condizionamenti, che non dipendiamo più dagli altri. Allora ci sentiamo liberi: e una volta liberi, nessuno può fermarci.
Questo è il deserto. Per questo Giovanni Battista e Gesù, devono andare nel deserto: è una questione di “libertà”.
Giovanni Battista, a differenza di Gesù, vive stabilmente del deserto. È un uomo selvatico, uno che non guarda in faccia nessuno, uno tutto d’un pezzo: non veste riccamente come i “cittadini” di Gerusalemme, la gente bene, i “vip”, i predicatori del tempio, le personalità religiose: ha un vestito grossolano, fatto di pelli di cammello, apertamente in contrasto con le prescrizioni di purezza giudaiche. Ma a Giovanni non interessano le leggi religiose sull’aspetto esteriore. A lui interessa la vita interiore, la coscienza, la Verità. Non mangia i cibi della società ma cavallette e miele selvatico, il nutrimento degli esclusi, degli emarginati. Non ha bisogno di maschere esterne, né di lifting, né di mostrarsi giovane, né di mostrarsi “macho” o muscoloso, né di esibire la sua potenza o i suoi soldi: perché è un uomo libero, coerente con sé stesso, trasparente, che trova in sé e in Dio la sua unica ragione di vita.
A questo punto un paragone di attualità: talvolta mi capita di osservare uomini e donne di spettacolo, gente del cinema e della televisione, esteticamente “perfetti”, “rifatti” chissà quante volte, ma con uno sguardo vuoto, spento, senza vita. Guardo l’espressione dei loro occhi, del loro volto: sembrano statue impassibili, atone, senza alcuna espressione interiore. La loro è una bellezza formale, artefatta, asettica, sapientemente modellata, ma che sa di morte. E mi chiedo: “Cosa sentiranno dentro di loro? Avranno mai sperimentato il loro “deserto”? C’è qualcuno o qualcosa di vivo dentro la loro anima?”.
E mi viene in mente il ritratto di un “Battista” del nostro tempo: Santa Teresa di Calcutta, con il suo volto pieno di rughe, segno di una vita vissuta nella lotta, segno di chi si è appassionato, di chi ha vinto, e tante volte anche perso; di chi si è messo in gioco, di chi ha pianto, amato, rischiato, osato; di chi si è fidato solo di Dio. Occhi luminosi, pieni di passione, di luce divina; occhi profondi che penetrano, che scavavano nell’anima. Un volto sereno, pieno di pace: la pace di chi ha vinto, di chi ha armonizzato le forze disgregatrici della vita; di chi ha trovato la fiducia oltre ogni guerra; di chi ha trovato un giardino fiorito oltre ogni morte; di chi ha trovato un amore per cui spendersi fino alla fine: un volto che trasuda la presenza di Dio, che rivela un colloquio costante con Lui.
Bene: tra le due immagini è appunto il “deserto” che evidenzia l’abissale differenza: il nulla del deserto che riempie l’anima, e dà amore e vita, il tutto del mondo che la svuota, lasciando oscurità e morte!
Giovanni Battista è consapevole della sua missione. Lui è voce di uno che grida nel deserto. Sa che non sarà ascoltato, sa che lo derideranno, sa che rischia grosso, ma lui ha un dovere da compiere nei confronti della Verità. È uno che, senza mezzi termini, ci dice: “Amico mio, se non cambi vita, finisci male!”. Chiaro, diretto, essenziale!
A noi le persone come il Battista non piacciono; eppure ne abbiamo tanto bisogno: abbiamo un grande bisogno di persone che ci sveglino dal nostro torpore, che ci diano uno scossone, che ci facciano sussultare, che ci stampino in faccia quattro sberle, prima che sia troppo tardi. Abbiamo bisogno di “profeti”, di quelli autentici come Giovanni: di “profeti” che leggono dentro di noi, che ci scrutano l’anima, che ci dicono, in nome di Dio: “Se continui così morirai dentro. Se non perdoni, se non ami, finirai per vivere sempre nell’odio. Se non smetti di illuderti, di raccontarti “balle”, non ne uscirai più. Se non piangi, non riuscirai più ad emozionarti. Se non ti prendi cura della tua anima, ti condannerai all’infelicità. Se ti nascondi dietro alle maschere, ti perderai. Se non tiri fuori ed esprimi i tuoi sentimenti profondi, ti condannerai all’inferno del cuore”.
Il “profeta” è uno che ama in maniera “dura”. A volte la sua verità ci ferisce perché svela ciò che non vorremmo né vedere né sentire. Ci fa rabbia, stiamo male quando troviamo uno che ci rinfaccia certe cose; uno che è in grado di smascherarci, di guardarci dentro, di vedere le nostre ipocrisie, le nostre miserie, i nostri nascondigli, le nostre falsità. Ma è questo l’amore “duro”, è questo l’amore “vero”, l’amore che ci chiama a vivere nella verità.
Amore non è solo proteggere o difendere o custodire o non volere che l’altro soffra: trattare gli altri da bambini, significa abbandonarli al loro stadio infantile. Vanno invece aiutati a crescere, a diventare adulti, a camminare con le loro gambe. Solo l’amore li rende autonomi. Se noi amiamo una persona superficialmente, ci limitiamo a farle delle coccole; ma se l’amiamo per davvero, le insegniamo a volare, anche se ha paura, anche se non vuole, anche se si mette contro di noi. Se l’amiamo veramente, dobbiamo saperle dire, oltre ai “sì”, anche dei “no” decisi.
Matteo scrive che molti corrono nel deserto, dal Battista, per farsi battezzare; ma tanti altri no: come i farisei e i sadducei. Per loro il “deserto”, il battesimo, non è motivo di conversione; e Giovanni, quando li vede, li smaschera apertamente: “Razza di vipere! Forse riuscite ad ingannare la gente, nascondendovi dietro alla vostra “religiosità”: ma non ingannate me e neppure Dio. Siete dei falsi!”.
Eh sì: farisei e sadducei; uguali a tante persone che vivono nell’ambiguità, nell’esteriorità; è impossibile capire cosa pensano realmente, cosa macchinano, quali siano le loro vere intenzioni. Hanno sempre a disposizione una doppia faccia: possono ridere, essere cortesi con noi, e subito dopo pugnalarci alle spalle. Non sappiamo mai se possiamo fidarci o no. Gente che non si espone mai in prima persona, che agisce solo da dietro le quinte. La loro arroganza, come quella dei farisei e dei sadducei, è di volersi giustificare sempre, a priori: “Abbiamo Abramo per padre. Osserviamo le leggi, siamo a posto!”.
Quante persone conosciamo che sono sempre pronte a giustificare con forza qualunque loro iniziativa, anche la più sballata; non capiscono che, come diceva il vecchio adagio latino, “excusatio non petita, accusatio manifesta!”. Cioè: una giustificazione non richiesta, equivale apertamente ad un’ammissione di colpa”. Sì, perché giustificarsi vuol dire sapere di essere colpevoli, e fare di tutto per dimostrare il contrario; in pratica, è tentare di far diventare giusta una cosa che non lo è. Ebbene, questa è falsità; è lo stravolgimento della realtà.
Di fronte poi ad una colpa accertata e inoppugnabile, tanti si giustificano minimizzando la loro responsabilità: “Non è poi così grave! Lo fanno tutti: perché non dovrei farlo anch’io? Nessuno è perfetto!”. Ma così facendo, addormentano sempre più la loro coscienza; si auto convincono che, in fondo in fondo, nulla è poi così tanto grave. Con le loro giustificazioni, con le loro attenuanti, con i loro “distinguo”, mentono a loro stessi sapendo di mentire, e finiscono per anestetizzare totalmente la loro lucidità, la loro integrità morale, la loro capacità di emettere giudizi imparziali. Non sapranno più riconoscere cosa è bene e cosa è male, non sapranno distinguere cosa è luce e cosa è buio, cosa è forza e cosa è debolezza, cosa fa loro bene e cosa fa loro male, cos’è amore e cos’è violenza o possesso. Diventano larve umane: senza ideali, senza gioia, senza la luce dell’Amore.

A che vale allora ostinarsi a vivere in “città”, rifiutando categoricamente l’esperienza del “deserto”? A nulla. Amen.



giovedì 24 novembre 2016

27 Novembre 2016 – I Domenica di Avvento

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,37-44).

Con questa domenica entriamo nel tempo liturgico dell’Avvento: un periodo di quattro settimane che ci conduce al Natale. Ogni settimana, durante la liturgia eucaristica, accenderemo un nuovo cero della tradizionale “corona” d’Avvento; quattro domeniche, quattro ceri. Come a dire: “con questo avvento, preludio della venuta di Dio,il mio cammino di fede verrà progressivamente illuminato dalla Luce di Cristo”. Solo così le quattro candele avranno un senso: se rappresentano il segno dei nostri piccoli passi in avanti sulla difficile via della crescita spirituale. Altrimenti sono solo quattro candele che bruciano e basta.
L’Avvento, in pratica, ci ripropone ogni anno il suo richiamo costante: “Svegliatevi, non permettete che il sonno intorpidisca il vostri passi; andate verso la Luce: soprattutto illuminate quei giorni della vostra vita che ancora ristagnano nel buio, nell’oscurità della lontananza da Dio”.
Per questo vivere l’avvento è difficile: perché aprirsi all’Emmanuele, “al Dio-che-viene”, significa mettere in crisi proprio quelle posizioni che riteniamo fondamentali, e alle quali ci aggrappiamo in tutti i modi.
Ecco perché il periodo dell’avvento, alla maggioranza dei cristiani, non dice più nulla: è un tempo uguale agli altri, per cui non fanno assolutamente nulla. Aspettano il Natale come una qualunque altra festa: una grande abbuffata, e basta. Non si rendono conto che anch’essi sono figli di Dio, che personalmente in loro Dio ha posto carne, dimora, tenda, casa.
Con la loro indifferenza, con il dubbio, con il cinismo, con il pessimismo, con la banalizzazione della loro vita, praticamente impediscono alla “Luce-che-viene” di entrar dentro di loro; fanno di tutto per evitare qualunque loro coinvolgimento.
Ma veniamo al vangelo di oggi: con la festa di Cristo Re di domenica scorsa, abbiamo concluso l’anno liturgico, che prevedeva la lettura di Luca: oggi, e per tutto il nuovo anno, la liturgia ci propone la meditazione del vangelo di Matteo.
Un Matteo che si pone immediatamente alla nostra attenzione con un testo dall’inizio oscuro, con riferimenti piuttosto difficili da collegare. Per capirne il senso, dobbiamo quindi partire dal versetto che lo precede: “Quanto a quel giorno e a quell’ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo e neppure il Figlio, ma solo il Padre” (Mt 24,36).
Gesù sta parlando della fine della nostra vita: ora, se riguardo alla fine di Gerusalemme, Egli aveva precisato: “Non passerà questa generazione prima che tutto questo accada” (Mt 24,34) - e infatti la distruzione di Gerusalemme avviene nel 70 d.C. - riguardo alla fine di ciascuno di noi, al suo incontro personale con Dio, Gesù si rimette al Padre. È quindi inutile pretendere di conoscere quando, come, cosa succederà: nessuno lo può sapere! Punto.
Ci indica soltanto un vago indizio, mediante un termine di paragone: “Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,37).
Ma che avrà mai voluto dire con questo? Cerchiamo di capirlo: prima di tutto Gesù paragona i fenomeni legati alla “sua” venuta salvifica, a quelli dell’intervento salvifico di Dio operato per mezzo di Noè: con Noè, infatti, non ci fu la fine del mondo (visto che il mondo continuò anche dopo Noè) ma un radicale rinnovamento del genere umano, una nuova umanità. Pertanto sia quella avvenuta ai tempi di Noè che quella di Gesù, sono due proposte di salvezza: Noè l’avrebbe concretizzata mediante l’arca, Gesù con l’apertura a tutti del Regno di Dio.
Due “eventi” che si verificano in circostanze analoghe, in presenza di uno stesso stato d’animo: l’indifferenza.
In particolare, al tempo di Noè, tutti vivevano nella superficialità: mangiavano, bevevano, si sposavano, facevano figli, e non si accorgevano di nulla. Tutti vivevano nella falsità, tutti si dicevano bugie, tutti erano interessati a non accorgersi di ciò che accadeva, a non aprire gli occhi: perché aprirli, avrebbe voluto dire “cambiare”.
La gente, ci dice Gesù, non si è accorta di nulla: il momento di incontrare Dio è giunto nel disinteresse generale. È successo allora, è successo al tempo di Gesù, succede anche oggi: l’incontro personale con Dio avverrà per tutti: ma nessuno se ne preoccupa più di tanto, nessuno vuol “vedere” la realtà. Perché se “vediamo” una cosa, se ne prendiamo seriamente atto, se pensiamo alle conseguenze di questo evento inevitabile, allora non possiamo essere più gli stessi: dobbiamo riprogrammare la nostra vita, e questo ci “scoccia”, ci “brucia”, al punto che, dicono molti, è meglio non sapere. Aprire gli occhi è doloroso. Preferiamo vivere nell’illusione, preferiamo ingannare noi stessi. E questo dice quanta falsità regni nell’uomo.
Dio viene per salvarli, ma molti non se ne curano. Preferiscono essere inghiottiti dalla vita, dal piacere, dalle cose passeggere, per poi esclamare: “Che sfortuna! Che destino terribile!”.
Nossignori: non è sfortuna, non è destino: siamo noi che dovevamo pensarci per tempo. Abbiamo preferito dormire; abbiamo preferito vegetare, trastullarci, lasciarci vivere, e poi, al dunque, ci meravigliamo, ci sorprendiamo, ci rammarichiamo: invece no! “dovevi accorgertene prima!”.
Ecco perché Gesù ci invita ad essere svegli, attenti, a non farci prendere dalla routine della vita quotidiana che rischia, oggi come sempre, di soffocare la nostra anima.
Ma possiamo fare anche un’altra considerazione, sempre sul paragone con Noè, fatto da Gesù: chi è questo Noè, e qual è il senso profondo della sua storia?
In ebraico “noah” significa “condurre”. Cosa fa Noè? “Conduce” tutti gli animali in salvo. Ma ciò che noi traduciamo “animali” (zòon), vuol dire “esseri viventi, tutto ciò che vive”. In altre parole Noè salva tutta la “vita” esistente, non la lascia morire. E il senso di salvarne due, una coppia per ogni animale, è quello di far sì che la vita progredisca, si evolva, cresca, si moltiplichi. Ed è interessante: perché dove conduce Noè gli animali? Nell’arca, cioè nella “arché”, in ciò che esiste da sempre, fin da principio.
Cosa significa tutto questo? Cosa vuol farci capire Gesù con questo paragone?
Ciascuno di noi è quell’arca in cui, fin da principio, c’è tanta vita che vuol vivere: il nostro compito è quello di salvarla, di non farla morire, di non permettere che tutta la forza che c’è in noi, giorno dopo giorno, muoia, si spenga, si esaurisca. Nostro compito è quindi di far crescere, far moltiplicare tutto ciò che abbiamo dentro, riempiendo il mondo.
Perché il grande rischio, presi dalla quotidianità, dalle preoccupazioni e soprattutto da mille distrazioni, è quello di “lasciar morire” proprio la parte più vera di noi, la nostra vitalità interiore.
“Morte”, infatti, non è solo uccidere qualcuno, ferire, denigrare o picchiare. Morte è “non essere” ciò che possiamo essere. Morte è non far uscire l’energia, la vitalità, che c’è in noi. Morte è non tirare fuori le nostre doti, le nostre capacità. Morte è vivere a bassa quota, quando invece siamo aquile. Morte è non provare più nulla, essere freddi, non sapersi né entusiasmare né indignare, essere apatici, abulici, senza emozioni. Morte è non sapersi più innamorare per paura di ciò che poi potrebbe succedere, o non credere più nell’amore. Morte è non saper più piangere, ridere o commuoversi, è non saper amare. Alcuni muoiono una volta sola, altri tutti i giorni.
Allora il compito di ciascuno di noi, piccoli Noè, è quello di dare alla luce tutto il potenziale che c’è in noi. Ripeto, siamo aquile, viviamo da aquile. Siamo dei leoni, non accontentiamoci di essere dei gattini. Siamo dei re, non viviamo da sudditi indolenti.
Dobbiamo farlo subito, perché la realizzazione della Buona Novella annunciata da Gesù, un giorno si realizzerà anche per noi: Dio verrà ad incontrarci: ma se nell’attesa continuiamo a dormire, ci coglierà impreparati! Se vogliamo “vedere Dio”, dobbiamo aprire gli occhi, dobbiamo vegliare, rimanere desti. Non basta produrre benessere per vedere Dio!
All’inizio della creazione, Dio ha detto: “Crescete e moltiplicatevi”, che noi abbiamo tradotto con: “Fate figli, realizzate i vostri sogni”. Ma possiamo anche porre quel mito della Genesi su di un livello molto più profondo, più intimo. Lo sviluppo, la crescita, cioè, non riguarderebbe solo l’aspetto “quantitativo”, quello esteriore, ma soprattutto quello “qualitativo ”, quello interiore. In altri termini: “Sviluppate la vita che è dentro di voi”, crescete interiormente, rinvigorite la vostra vita spirituale. “Crescere e moltiplicarsi” in tal caso vuol dire evolvere, divenire, sviluppare nuova vita.
Questo era il compito dell’umanità: ma cos’è successo poi? È successo che l’uomo fin da allora si è moltiplicato solo “esteriormente”, nel regno della quantità, giungendo progressivamente fino ai nostri giorni, completamente anestetizzato: mangiare, bere, correre, lavorare; ingolfarsi di prodotti, di esperienze, di relazioni, di scoop, di piaceri frivoli; preoccupandosi solo di moltiplicarsi fuori, senza crescere dentro; ad “avere di più”, piuttosto che ad “essere di più”: tutte cose che lo hanno portato a vivere da morto: una esistenza vissuta nelle tenebre, nella cecità più totale.
Quando poi improvvisamente si trovano a dover fare i conti con i “segni” della venuta di Dio, allora si disperano, accampano scuse, pretendono la “misericordia” divina: ma talvolta è troppo tardi. Perché Dio è sì infinita misericordia, ma è anche infinita giustizia.
Questo ci suggerisce oggi il Vangelo: questo ci propone il tempo di avvento. E se esaminandoci dentro, arriviamo a constatare amaramente: “Mi sento vuoto, non provo nulla; non mi riconosco più!”, allora è arrivato il momento di prendere in mano la nostra vita, e ricominciare tutto da capo.
E concludo: non lasciamoci sorprendere dalle situazioni, perché quando i ladri sono già entrati e ci hanno derubati di tutto, chiudere la porta è troppo tardi. Quando l’uovo è caduto, la frittata è già fatta!
Allora svegliamoci, prendiamoci cura di noi stessi, della nostra anima, non facciamo gli indifferenti, stiamo in guardia, leggiamo attentamente i “segnali” di Dio, interpretiamo correttamente i suoi suggerimenti premonitori. “Vegliare” è saper attendere, è non dormire, perché Dio è “sorpresa”, è fuori da ogni nostro schema; la sua venuta è imprevedibile, incalcolabile, non pianificabile,. Non facciamoci sorprendere, non inganniamo noi stessi, perché prima o poi arriva il momento in cui sarà troppo tardi per qualunque ripensamento, il momento in cui non potremo fare più nulla.
Impariamo da subito a riconoscere la voce della nostra coscienza, accettiamo umilmente la continua offerta di aiuto e di amore da parte del Dio che abita in noi: approfittiamo ora della sua misericordia: è un dono sempre presente, non un diritto finale!

Non perdiamo tempo. All’inizio un fiume è un semplice rigagnolo d’acqua. Fermarlo è facile. Ma fermare un fiume alla foce, è impossibile. Non corriamo il rischio, di fronte a certe situazioni, di dover purtroppo ammettere: “Troppo tardi! Dovevo pensarci prima!”. Buon Avvento! Amen.

giovedì 17 novembre 2016

20 Novembre 2016 – XXXIV Domenica del T.O. - Cristo Re

«Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male. E disse: Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno. Gli rispose: In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,35-43).

Oggi è la festa di Cristo Re, la festa di Cristo, Signore glorioso del mondo e di ogni cosa, punto di arrivo della storia umana.
Ma nel vangelo non c’è proprio nulla di glorioso, nulla di trionfalistico.
Il vangelo di oggi, infatti, ci propone la scena straziante del Calvario: Gesù è in croce, agonizzante; davanti a lui una folla muta, accorsa solo per curiosità, per godersi lo spettacolo. Lo “spettacolo” di una morte cruenta attira sempre morbosamente, anche oggi, la curiosità della gente.
C’è tanta gente lassù sul Golgota. Gente che guarda, che continua a guardare, che non smetterà di guardare fino alla fine. Un popolo che non dice nulla, che non reagisce, che non si ribella, non si indigna, non chiede spiegazioni, non si muove.
Sta assistendo ad una ingiustizia evidente: ha davanti a sé il figlio di Dio, assiste ad una delle situazioni più crudeli della storia, e non dice nulla. Come se non ci fosse. Siamo nell’indifferenza più totale.
A molta gente basta un po’ di pane sotto i denti, qualche divertimento, “tirare avanti” e non essere disturbati. Non si sporca le mani su niente: “perché non si sa mai!”. Non vuole essere coinvolta; non vuole avere problemi: non si espone e non prende posizione. Ma non prendere alcuna posizione vuol dire avere già preso una posizione. Quando la gente dice: “Io mi faccio gli affari miei e non do fastidio a nessuno”, significa che questa è la posizione scelta: una posizione però che non la giustifica, che non può deresponsabilizzarla. Non solo chi ha ucciso Gesù ne è il responsabile, ma anche chi potendo fare qualcosa, anche solo alzando la sua voce, anche solo ribellandosi, anche solo opponendosi, non ha fatto nulla.
Quando rimaniamo indifferenti, quando non ci indigniamo di fronte a certe ingiustizie, vuol dire che le accettiamo. Quando non prendo posizione di fronte a ciò che sta accadendo, allora indirettamente lo favoriamo. Quando ciò che vediamo non ci fa riflettere, piangere e cambiare, allora favoriamo il male. Quando di fronte alle tragedie che accadono ogni giorno nel mondo, noi non muoviamo un dito, non ci interroghiamo, non tramutiamo il nostro sdegno in azioni, non ci mettiamo in gioco, cosa risponderemo: “Ho avuto paura”? Quando di fronte a certe ideologie, a certe linee di pensiero, di fronte alla squallida banalità di certi stili di vita, invece di ribellarci, noi ci adeguiamo, ci adattiamo supinamente, cosa risponderemo: “Beh, facevano tutti così”? Non abbiamo una nostra testa per pensare, una coscienza a cui rispondere? Non ci sono attenuanti: siamo colpevoli. Anche noi siamo colpevoli di tale andazzo.
Perché la gente non fa niente non vuol dire che non sia responsabile di ciò che succede. E’ proprio per questa indifferenza, per questo stare a guardare e non intervenire che si compiono le peggiori crudeltà, che nazioni cadono sotto despoti e tiranni, che avvengono nel silenzio carneficine di uomini. E’ proprio per questo disinteressarsi che i potenti possono fare ciò che vogliono. Loro lo fanno ma la gente, non intervenendo, ne è complice.
Poi ci sono i capi del popolo. I capi sbeffeggiano Gesù, si prendono gioco di lui e lo disprezzano. I capi sono quelli che sfruttano a loro vantaggio ogni situazione. Con abili manovre politiche, con una buona comunicazione ottengono sempre ciò che vogliono ottenere.
I potenti fanno i loro interessi e subdolamente si prendono gioco della gente. Con quelli invece che se ne accorgono (Gesù), sono feroci e li condannano alla gogna pubblica.
Quante persone si ritengono libere e fortunate perché si possono permettere “certe cose” e non si accorgono di essere invece schiave del sistema, di essere delle marionette in mano di poche lobbies che gestiscono in tutto la loro vita, facendo loro credere di essere libere e potenti.
Infine ci sono i due malfattori. Uno dei due è arrabbiato con la vita, con Dio e con tutti, come se gli altri fossero i responsabili della sua sorte, quando al contrario ciò che gli sta accadendo è la conseguenza della sua vita. E scarica addosso a Gesù tutto l’odio e la rabbia che cresce dentro di sé.
Quanta gente è arrabbiata, risentita con tutti: dentro sono insoddisfatti e gettano sugli altri tutta la loro frustrazione per una vita che non li ha resi felici, né realizzati.
Tutti dicono a Gesù: “Salva te stesso e noi”. Ma la frase è ironica, sarcastica. Sono loro che si devono salvare; sono loro che devono cambiare; sono loro che non si rendono conto di essere i condannati, gli imprigionati, i condizionati, gli schiavi. Ma non se ne accorgono.
Credono di vedere uno uomo crocifisso e invece stanno vedendo un uomo libero. Credono di essere loro i liberi e invece sono loro i crocifissi, dalle loro paure, dai loro condizionamenti. Credono di vedere e, invece, sono ciechi. Credono di vivere e non sanno che sono morti dentro.
Ma li vicino c’è anche un malfattore che capisce e accoglie Gesù. Nella sua situazione tragica e di totale impotenza, è riuscito comunque a costruire qualcosa, ha detto di sì a Gesù: lo ha accolto nel suo cuore, lo ha riconosciuto Signore della sua vita. Riconosce il suo errore e chiede perdono.
A questo punto Luca ci porta a fare una considerazione molto interessante: cioè, chi è il primo ad entrare nel Regno dei cieli? Maria, la madre di Gesù? No. Pietro, il “capo” degli apostoli? No. Giovanni, il discepolo amato? Nossignori. Il vangelo dice esplicitamente che il primo ad entrare in paradiso è un malfattore, un criminale: “Oggi con me sarai nel paradiso”. Per cui, da adesso in poi le porte del Regno dei cieli, del paradiso, saranno aperte per tutti, a condizione che riconoscano Dio come loro Signore, come loro Re, qualunque sia il loro passato, qualunque sia la storia della loro vita.
È la Buona Notizia (eÇagg™lion) di Gesù: ed è davvero una gran Buona Notizia per tutti!
Questo è il felice annuncio di Gesù, nostro Re: le porte dell’Amore di Dio sono aperte per tutti quelli che vogliono entrarvi, al di là di come abbiano amministrato la loro vita. Gesù è il Re dell’amore. Non esistono più casi impossibili, situazioni irrimediabili: l’Amore di Dio è più forte di tutto.
“Salvezza”, allora, è guardare in noi stessi, nel profondo della nostra anima; “condanna” è insistere a seguire stupidamente quello che fanno gli altri, uniformandoci alle “mode” del momento, ai capricci deleteri di una società moralmente allo sbando. “Salvezza” è riconoscere i propri errori, la propria non-luce, la propria cecità. “Condanna” è non voler ammettere la propria ottusità, le proprie scelte autolesioniste. “Salvezza”, insomma, è aprire bene gli occhi sulla propria vita, per tirare delle conclusioni concrete: “Se finora ho vissuto così, da oggi voglio cambiare. Oggi, Gesù, anch’io ti accolgo e ti faccio entrare in casa mia. Perché oggi ti dico sul serio di sì. Oggi cambio. Oggi inizio una nuova vita. Se finora ho vissuto nel disinteresse, nel menefreghismo, da oggi cambio. Se finora ho vissuto delegando gli altri ogni mia iniziativa, da oggi voglio cambiare. Se finora ho incolpato Te della mia infelicità, da oggi voglio cambiare. Se finora Ti ho imprecato e bestemmiato per ciò che di brutto accade nel mondo, da oggi voglio cambiare. Se finora ho vissuto nella paura, nel disprezzo, nel dubbio, nella diffidenza, da oggi voglio cambiare. Sì, perché voglio meritare il dono di poterti stare accanto, nel “tuo” Paradiso. Da oggi posso e voglio cambiare: sì, perché per cominciare non è mai troppo tardi. Mai!
Quel “salva te stesso e anche noi” è terribile. È come dirgli: “Tira fuori il tuo potere perché oggi mi servi!”.
Ma a cosa serve Dio per noi? Se pensiamo che Dio serva a far soldi, a dare lustro alla nostra immagine di brave persone, ad essere rispettati, a risolvere i nostri problemi di relazione, a coprire le nostre magagne, a tappare i nostri buchi, allora Dio non serve. Se pensiamo così, illudiamo noi stessi. Se pensiamo di chiamare in causa Dio per ciò che non va nella nostra vita o nel mondo, se pensiamo di chiamare in causa Dio per tutte le disgrazie e le tragedie che succedono, sbagliamo di grosso: un Dio così non ci serve.
Dobbiamo stare molto attenti a non usare Dio! Dio è la forza delle nostre gambe: ma sta a noi muoverle e camminare. Dio è l’amore del nostro cuore: ma sta a noi cercarlo, incontrarlo e abbracciarlo. Dio è la voce che dal profondo sale alle nostre labbra: ma sta a noi parlare. Dio è lo sguardo dei nostri occhi: ma sta a noi aprirli. Non chiediamo a Lui ciò che tocca fare a noi! Non deleghiamo mai a Dio i nostri compiti!
Dio è forza ma non fa azioni di forza. Dio è luce ma si limita solo a illuminare la verità: siamo noi che dobbiamo scoprirla. Dio è potente ma non violenta nessuno. Dio è la Vita ma non costringe nessuno a viverla per forza.
Il quadro dei due malfattori è una scena molto profonda. Sono due malfattori, due uomini condannati giustamente, sono due malviventi che hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, sono due peccatori, due che hanno “mancato il bersaglio” (in ebraico peccare= sbagliare il bersaglio). Sanno di aver sbagliato: uno dei due lo ammette, e riceve il perdono; l’altro no.
Non possiamo ricevere alcun perdono se non ammettiamo di aver sbagliato. Nessuno può perdonarci se noi non accettiamo la nostra ferita, il nostro errore. Giuda era morso dal senso di colpa per ciò che aveva fatto, ma non l’aveva accettato. E si è ucciso. Così chi non sa accettare il proprio errore, chi non sa perdonarsi, si uccide: non si concede nessun’altra possibilità di vita.
Come i due malfattori, anche noi sbagliamo e falliamo in tanti modi e in tante maniere. Ogni errore ci produce un senso di colpa: e noi cosa facciamo? O ci ostiniamo nel non vedere, o accettiamo questa realtà che ci fa male.
«Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Già, pentirsi. A volte preferiamo fare di tutto, anche distorcere la realtà, pur di non piegarci: ma la nostra coscienza, il Dio che è in noi, conosce ogni cosa di noi. A Lui non possiamo mentire. Anche se lo nascondiamo a noi stessi, lui lo sa. Anche se ce lo dimentichiamo, lui sa e ricorda tutto. Certo, ammettere, riconoscere, pentirci del male che abbiamo fatto, ci procura sempre un certo imbarazzo, ci fa vergognare, ci infastidisce: ma è l’unica strada che abbiamo per ottenere il perdono, ritornare a vivere, sentirci salvi.
Il demonio, che ci lega al silenzio, che ci spinge alla finzione, alle menzogne, alla falsità, ci dice: “Tranquillo, non credere alle promesse, non ti capiterà nulla!”. Ma Dio ci rassicura: “Pentiti, e oggi sarai con me in paradiso”. In altre parole: “Forza, oggi sei tornato nell’Amore: rialzati e cammina nella Luce. Oggi tutto ti è stato cancellato, segui la vera Vita. Hai sbagliato molto, lo so: ma so anche che da oggi vuoi stare con Me, nonostante le tante difficoltà”.
Quindi, ogni volta che le nostre fragilità ci opprimono, ogni volta che i casi della vita ci soffocano e ci fanno soffrire, non chiediamoci: “Perché a me?”. Ma chiediamoci: “Signore, cosa devo imparare?”. Ogni volta che il dolore stritola il nostro cuore, diventando insopportabile, non rinfacciamo a Dio: “Cosa ti ho fatto per trattarmi così?”. Ma chiediamogli umilmente: “Cosa mi vuoi insegnare?”.
Seguire Gesù sulla Croce significa lasciarsi trafiggere, lasciarsi ferire, perché è così che la vita può insegnarci ciò che ci deve insegnare. La vita talvolta ci trafigge, è vero, ma lo fa per guarirci; ci ferisce, ma per salvarci.
Abbracciare la nostra croce significa allora accettare il buio della vita, immergerci nell’incertezza della nostra fragilità, ma consapevoli che è l’unica via che ci conduce alla Luce, che ci porta al riparo nel calore misericordioso del cuore di Dio.

Sì: quando tutte le nostre sicurezze umane cadono, quando tutte le nostre spiegazioni, il nostro buon senso, non ci reggono più, quando siamo convinti che perfino Dio ci abbia abbandonati, è allora, che emerge l’unica, vera certezza: Lui. Quando rimane soltanto il buio, è allora che emerge la Luce. È allora che la croce, strada del buio, diventerà la strada della Luce. È allora che la “via della morte” sarà la via della Vita. Amen.