«In quei giorni venne Giovanni
il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: Convertitevi, perché
il regno dei cieli è vicino!» (Mt
3,1-12).
Durante
questo cammino d’avvento, i vangeli della domenica fanno riferimento a due
personaggi: Giovanni Battista (nella seconda e terza domenica) e Maria (nella quarta
domenica). Per raggiungere il Natale, dobbiamo pertanto confrontarci con queste
due figure: dobbiamo cioè metterci davanti e specchiarci in esse. Giovanni
Battista è un modello di uomo libero, autentico, non condizionato, autonomo.
Maria è la donna che fa spazio, che accoglie, che si fida di sé e di Dio.
Ma fermiamoci
per ora sulla figura di Giovanni Battista: uno che non aveva paura dell’opinione
della gente, che lottava per ciò in cui credeva, che aveva il coraggio di
esporsi e di pagare di persona per le sue scelte. Fu sicuramente un riferimento
anche per Gesù.
Cerchiamo
allora anche noi, nel nostro tempo, di attingere, di imparare qualcosa da lui:
magari di avere anche noi un po’ del suo coraggio nel rischiare per un mondo
più giusto, per la verità, per gli altri, per ottenere qualcosa di grande,
qualcosa per cui valga la pena di esistere.
Nella nostra
vita, volendo, abbiamo tantissimi i punti di riferimento, modelli esemplari da
seguire, da imitare; in una parola dei veri e propri “miti”. Persone che,
guardandole, conoscendole, ascoltandole, seguendole, ci prendono il cuore. Persone
che meritano la nostra stima per la forza d’animo, la tenerezza, l’amore, il
coraggio di osare, l’autenticità della vita, la radicalità delle scelte, l’esporsi
al pericolo per non venir meno ai loro ideali: persone franche, vere, che non
si sono mai svendute al sistema, all’opinione pubblica, al “così fan tutti”. Tuttavia,
nel dilagante materialismo della nostra società, dobbiamo amaramente constatare
come troppa gente preferisca mitizzare, idealizzare, innalzare a loro “idoli”, dei
personaggi decisamente discutibili, personaggi “costruiti”, lanciati dalla pubblicità,
da insulse trasmissioni televisive, prive di ogni dignità, decisamente
“spazzatura”; sono gli “eroi” di oggi, pronti a svendere la faccia, la
personalità, la dignità, pur di ottenere un fugace riflesso di notorietà, ridicolmente
destinata a dissolversi già sul nascere.
Ecco
allora che la Liturgia corre in nostro aiuto per offrirci concretamente la
possibilità di “convertirci”, di “tornare indietro”, di mettere un punto
fermo a questa nostra corsa alienante: in pratica ci dice: “Non svendere la tua
dignità per gli scarti, scegli il meglio, vai all’origine, guarda al Battista”.
In
effetti, scegliere un Battista come esempio da “vivere”, piuttosto che
un’attricetta scosciata o un tarantolato da quattro soldi, significa porsi decisamente
su un altro piano, significa distaccarci dalla mentalità corrente, avere un’altra
tipologia di maturità, altri sentimenti!
Gesù
stesso fu suo discepolo, lo seguì, si fece battezzare da lui: un Dio che imita
una creatura; una creatura divenuta “maestro” dell’unico Maestro.
Nel
vangelo di oggi, Matteo ci presenta dunque un Giovanni Battista che “predica” nel
deserto: nel deserto? Chi è quel predicatore che va a cercare la “sua” folla
nel deserto? Ovviamente nessuno. E allora, perché Giovanni se ne sta proprio nel
deserto?
Semplice:
perché il deserto è il luogo dove tutti dobbiamo “ritirarci” per riprenderci la
nostra libertà, la nostra autenticità, la nostra dignità. Nel deserto siamo soli:
noi con noi. Nel deserto impariamo a stare con noi stessi, a non dipendere dal
giudizio della gente, a non farci contaminare dalle mode, dalle idee, dai
luoghi comuni. Nel deserto incontriamo solo noi e Dio: è il luogo ideale in cui
metterci davanti a Lui e a noi stessi, e guardarci seriamente: “Questo sono io.
Mi accetto o mi rifiuto? Mi detesto o mi accolgo? Che faccio?”. È nel deserto che
abbiamo l’appuntamento con le nostre scelte di vita inderogabili.
È nel deserto
che ci rendiamo conto di non poter più delegare le nostre scelte di vita ad
altri. È nel deserto che dobbiamo decidere se rischiare, se osare personalmente,
se avere il coraggio di camminare da soli, oppure se, per paura, continuare a
buttarci tutto alle spalle, rinunciando a gestire autonomamente la nostra
esistenza.
È nel
deserto che dobbiamo decidere se fidarci di noi stessi, se possiamo contare sulle
nostre forze, se decidiamo di amarci o no. Nel deserto siamo soli di fronte
alla vita, a noi stessi, ad un mondo che spesso ci è ostile e nemico.
È
proprio nel deserto, nella solitudine, che ci sentiamo perduti: di fronte al
nostro nulla veniamo assaliti dall’angoscia, ci viene da piangere: e allora piangiamo
pure tutta la disperazione, la paura, il terrore, lo smarrimento che la vita comporta:
perché in questo modo noi maturiamo; è in questo modo che diventiamo forti, che
sentiamo nuovamente la gioia, la soddisfazione di vivere senza condizionamenti,
che non dipendiamo più dagli altri. Allora ci sentiamo liberi: e una volta
liberi, nessuno può fermarci.
Questo
è il deserto. Per questo Giovanni Battista e Gesù, devono andare nel deserto: è
una questione di “libertà”.
Giovanni
Battista, a differenza di Gesù, vive stabilmente del deserto. È un uomo
selvatico, uno che non guarda in faccia nessuno, uno tutto d’un pezzo: non
veste riccamente come i “cittadini” di Gerusalemme, la gente bene, i “vip”, i
predicatori del tempio, le personalità religiose: ha un vestito grossolano, fatto
di pelli di cammello, apertamente in contrasto con le prescrizioni di purezza giudaiche.
Ma a Giovanni non interessano le leggi religiose sull’aspetto esteriore. A lui
interessa la vita interiore, la coscienza, la Verità. Non mangia i cibi della
società ma cavallette e miele selvatico, il nutrimento degli esclusi, degli
emarginati. Non ha bisogno di maschere esterne, né di lifting, né di mostrarsi
giovane, né di mostrarsi “macho” o muscoloso, né di esibire la sua potenza o i
suoi soldi: perché è un uomo libero, coerente con sé stesso, trasparente, che
trova in sé e in Dio la sua unica ragione di vita.
A
questo punto un paragone di attualità: talvolta mi capita di osservare uomini e
donne di spettacolo, gente del cinema e della televisione, esteticamente “perfetti”,
“rifatti” chissà quante volte, ma con uno sguardo vuoto, spento, senza vita.
Guardo l’espressione dei loro occhi, del loro volto: sembrano statue impassibili,
atone, senza alcuna espressione interiore. La loro è una bellezza formale,
artefatta, asettica, sapientemente modellata, ma che sa di morte. E mi chiedo: “Cosa
sentiranno dentro di loro? Avranno mai sperimentato il loro “deserto”? C’è
qualcuno o qualcosa di vivo dentro la loro anima?”.
E mi viene
in mente il ritratto di un “Battista” del nostro tempo: Santa Teresa di
Calcutta, con il suo volto pieno di rughe, segno di una vita vissuta nella lotta,
segno di chi si è appassionato, di chi ha vinto, e tante volte anche perso; di
chi si è messo in gioco, di chi ha pianto, amato, rischiato, osato; di chi si è
fidato solo di Dio. Occhi luminosi, pieni di passione, di luce divina; occhi
profondi che penetrano, che scavavano nell’anima. Un volto sereno, pieno di
pace: la pace di chi ha vinto, di chi ha armonizzato le forze disgregatrici
della vita; di chi ha trovato la fiducia oltre ogni guerra; di chi ha trovato
un giardino fiorito oltre ogni morte; di chi ha trovato un amore per cui
spendersi fino alla fine: un volto che trasuda la presenza di Dio, che rivela
un colloquio costante con Lui.
Bene: tra
le due immagini è appunto il “deserto” che evidenzia l’abissale differenza: il nulla del deserto che riempie l’anima, e dà amore e vita, il tutto del mondo che la svuota, lasciando
oscurità e morte!
Giovanni
Battista è consapevole della sua missione. Lui è voce di uno che grida nel
deserto. Sa che non sarà ascoltato, sa che lo derideranno, sa che rischia
grosso, ma lui ha un dovere da compiere nei confronti della Verità. È uno che,
senza mezzi termini, ci dice: “Amico mio, se non cambi vita, finisci male!”. Chiaro,
diretto, essenziale!
A noi
le persone come il Battista non piacciono; eppure ne abbiamo tanto bisogno: abbiamo
un grande bisogno di persone che ci sveglino dal nostro torpore, che ci diano
uno scossone, che ci facciano sussultare, che ci stampino in faccia quattro
sberle, prima che sia troppo tardi. Abbiamo bisogno di “profeti”, di quelli
autentici come Giovanni: di “profeti” che leggono dentro di noi, che ci
scrutano l’anima, che ci dicono, in nome di Dio: “Se continui così morirai
dentro. Se non perdoni, se non ami, finirai per vivere sempre nell’odio. Se non
smetti di illuderti, di raccontarti “balle”, non ne uscirai più. Se non piangi,
non riuscirai più ad emozionarti. Se non ti prendi cura della tua anima, ti
condannerai all’infelicità. Se ti nascondi dietro alle maschere, ti perderai.
Se non tiri fuori ed esprimi i tuoi sentimenti profondi, ti condannerai all’inferno
del cuore”.
Il
“profeta” è uno che ama in maniera “dura”. A volte la sua verità ci ferisce
perché svela ciò che non vorremmo né vedere né sentire. Ci fa rabbia, stiamo male
quando troviamo uno che ci rinfaccia certe cose; uno che è in grado di
smascherarci, di guardarci dentro, di vedere le nostre ipocrisie, le nostre
miserie, i nostri nascondigli, le nostre falsità. Ma è questo l’amore “duro”, è
questo l’amore “vero”, l’amore che ci chiama a vivere nella verità.
Amore
non è solo proteggere o difendere o custodire o non volere che l’altro soffra: trattare
gli altri da bambini, significa abbandonarli al loro stadio infantile. Vanno
invece aiutati a crescere, a diventare adulti, a camminare con le loro gambe. Solo
l’amore li rende autonomi. Se noi amiamo una persona superficialmente, ci limitiamo
a farle delle coccole; ma se l’amiamo per davvero, le insegniamo a volare,
anche se ha paura, anche se non vuole, anche se si mette contro di noi. Se l’amiamo
veramente, dobbiamo saperle dire, oltre ai “sì”, anche dei “no” decisi.
Matteo
scrive che molti corrono nel deserto, dal Battista, per farsi battezzare; ma
tanti altri no: come i farisei e i sadducei. Per loro il “deserto”, il
battesimo, non è motivo di conversione; e Giovanni, quando li vede, li
smaschera apertamente: “Razza di vipere! Forse riuscite ad ingannare la gente,
nascondendovi dietro alla vostra “religiosità”: ma non ingannate me e neppure Dio.
Siete dei falsi!”.
Eh sì:
farisei e sadducei; uguali a tante persone che vivono nell’ambiguità,
nell’esteriorità; è impossibile capire cosa pensano realmente, cosa macchinano,
quali siano le loro vere intenzioni. Hanno sempre a disposizione una doppia
faccia: possono ridere, essere cortesi con noi, e subito dopo pugnalarci alle
spalle. Non sappiamo mai se possiamo fidarci o no. Gente che non si espone mai
in prima persona, che agisce solo da dietro le quinte. La loro arroganza, come
quella dei farisei e dei sadducei, è di volersi giustificare sempre, a priori: “Abbiamo
Abramo per padre. Osserviamo le leggi, siamo a posto!”.
Quante
persone conosciamo che sono sempre pronte a giustificare con forza qualunque
loro iniziativa, anche la più sballata; non capiscono che, come diceva il
vecchio adagio latino, “excusatio non
petita, accusatio manifesta!”. Cioè: una giustificazione non richiesta, equivale
apertamente ad un’ammissione di colpa”. Sì, perché giustificarsi vuol dire sapere
di essere colpevoli, e fare di tutto per dimostrare il contrario; in pratica, è
tentare di far diventare giusta una cosa che non lo è. Ebbene, questa è falsità;
è lo stravolgimento della realtà.
Di
fronte poi ad una colpa accertata e inoppugnabile, tanti si giustificano
minimizzando la loro responsabilità: “Non è poi così grave! Lo fanno tutti:
perché non dovrei farlo anch’io? Nessuno è perfetto!”. Ma così facendo, addormentano
sempre più la loro coscienza; si auto convincono che, in fondo in fondo, nulla
è poi così tanto grave. Con le loro giustificazioni, con le loro attenuanti,
con i loro “distinguo”, mentono a loro stessi sapendo di mentire, e finiscono
per anestetizzare totalmente la loro lucidità, la loro integrità morale, la
loro capacità di emettere giudizi imparziali. Non sapranno più riconoscere cosa
è bene e cosa è male, non sapranno distinguere cosa è luce e cosa è buio, cosa
è forza e cosa è debolezza, cosa fa loro bene e cosa fa loro male, cos’è amore
e cos’è violenza o possesso. Diventano larve umane: senza ideali, senza gioia,
senza la luce dell’Amore.
A che
vale allora ostinarsi a vivere in “città”, rifiutando categoricamente l’esperienza
del “deserto”? A nulla. Amen.
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