«Giovanni, che era in carcere,
avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli
mandò a dirgli: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,2-11).
Il
vangelo di oggi ci ripropone la figura del Battista.
Non
più un Battista nel pieno del suo vigore, impegnato a tempo pieno nel predicare,
nel battezzare, nel portare i suoi ascoltatori alla “metanoia”, ad una conversione decisa e convinta della loro vita;
quello di oggi è un Battista solo, isolato da tutti, sbattuto in carcere da
Erode Antipa, tetrarca della Galilea, infastidito dai suoi continui richiami e critiche
per il genere di vita peccaminosa che egli conduceva con Erodiade. Un Battista
piegato ma non domo, che segue comunque con attenzione, attraverso il racconto
dei suoi fedelissimi, l’attività e la predicazione di Gesù: un Gesù che,
presentatosi anch’Egli sulle rive del Giordano per essere battezzato, lui ha
riconosciuto come il Cristo, l’Unto, il Messia di Israele, il Salvatore tanto
atteso: “Io ho bisogno di essere
battezzato da te, e tu vieni da me?” (Mt 3,13-14).
Dalle
notizie che i suoi gli riportano, però, quel Gesù Messia gli appare completamente
diverso da come lui lo aveva annunciato, da come lui se lo aspettava: un Messia
giustiziere, esigente, spietato con chi non era in regola, uno che avrebbe
punito senza possibilità di appello tutti i peccatori; un Messia che egli aveva
descritto servendosi di immagini terribili, come abbiamo sentito domenica
scorsa: “La scure è posta alla radice
degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato
nel fuoco” (Mt 3,10). Oppure: “Brucerà
la pula [gli scarti, coloro che sono senza frutto] con un fuoco inestinguibile”
(Mt 3,12). È questo il Messia secondo il Battista: è così che Gesù, secondo
lui, si sarebbe dovuto comportare.
Ora
invece il Gesù che i suoi gli descrivono, è completamente diverso, diametralmente
all’opposto di come lui lo pensava: Gesù è l’espressione di un Dio Amore, un
amore universale, che egli offre a tutti indistintamente: un amore che, come il
sole, splende su tutti, buoni e cattivi, o come la pioggia che scende su
meritevoli e non meritevoli. Il Dio di Gesù è Amore, è un Dio che non giudica, che
non condanna, ma al contrario ama e accoglie tutti.
E qui il
Battista, completamente spiazzato, entra in crisi. È tormentato da dubbi profondi:
non sa più cosa pensare, cosa credere. Nella solitudine del carcere egli vive la
sua grande crisi religiosa.
A
questo punto, volendo delle conferme, manda i suoi da Gesù, perché chiarisca la
sua posizione: “Sei tu colui che deve
venire o dobbiamo aspettare un altro?”.
Ma Gesù
non risponde in maniera diretta, come lui avrebbe voluto: invita invece gli
uomini del Battista a riferirgli semplicemente ciò che accade: “i ciechi
riacquistano la vista, gli zoppi
camminano, i lebbrosi sono purificati, i
sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E
beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!”.
In
altre parole è Giovanni che deve darsi una risposta: “Tu Giovanni, cosa ne
pensi? Cosa ne deduci da tutto ciò?”. Gesù non gli dice “Sì, sono io colui che
deve venire” oppure “No, non sono io”. Gesù gli risponde con un collage di
citazioni messianiche del profeta Isaia, che lo rimanda a quello che lui effettivamente
sta facendo per le strade della Palestina. “Quello che faccio, che provoco, tutto
quello che succede intorno a me, ti deve bastare: sei tu che devi tirare ora una
conclusione: perché solo da quello che uno fa’, da quello che uno provoca, è
possibile capire chi egli sia veramente”.
Ogni
altra considerazione è inutile: il nuovo annuncio di Gesù si spiega da solo.
Il passaggio
decisivo dall’antica economia della salvezza a quella nuova, rivoluzionaria, di
Gesù, è già in atto. A Giovanni sembrerà la fine, una svolta veramente
drammatica: ma il crollo delle sue certezze è necessario, per consentire che qualcosa
di veramente nuovo e di più vero, possa nascere in lui.
E
mentre gli inviati di Giovanni si allontanano, Gesù ne approfitta per parlare
del Battista, chiedendo alla folla che lo seguiva: “Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal
vento” (Mt 11,7). È chiaramente una domanda provocatoria.
L’immagine
della canna sbattuta al vento, offre un facile riferimento: a differenza degli
alberi che oppongono resistenza alle raffiche del vento, fino ad essere
talvolta completamente sradicati, le canne si piegano, seguono passivamente
qualunque direzione venga loro imposta, si piegano docilmente ad ogni nuovo
corso: la canna scossa, è l’immagine dell’opportunista, della persona che riesce
a stare sempre a galla, pronta ad adattarsi ad ogni corrente di pensiero, pur
di partecipare al potere.
In
pratica Gesù chiede: “Cosa pensate di Giovanni Battista? È forse una canna, un
opportunista, un uomo che si china supinamente a chi alza la voce? Assolutamente
no: egli è inflessibile, incorruttibile, uno che non è sceso a compromessi neppure
con l’amico Erode; anzi decidendo di denunciare pubblicamente la sua condotta
immorale, ha ottenuto in cambio il duro carcere”.
“Che cosa dunque siete andati a
vedere? Un uomo avvolto in morbide vesti? Coloro che hanno morbidi vesti stanno
nei palazzi dei re” (Mt 11,8).
Altra
immagine improponibile per Giovanni. Coloro che vestono “morbide vesti”, abiti sontuosi,
di lusso, sono i cortigiani, ossequiosi ma falsi, che pur di tenersi i loro
privilegi, sono disposti ad ogni voltafaccia, in grado di cambiare continuamente
idea e casacca pur di conservare il loro prestigio, il loro potere. Forse che Giovanni
il Battista è come costoro? No!
“Egli è colui del quale è
scritto: “Ecco io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via
davanti a te”“ (Mt 11,9). E
aggiunge: “non è solo un profeta, ma più di un profeta. È il messaggero, colui che ha spianato la strada al Messia. È il suo apripista, il precursore; il più grande tra i nati da donna.
Sono
dunque queste le espressioni usate da Gesù per tessere l’elogio del Battista. Ma
subito dopo fa un nuovo paragone: “Giovanni è sicuramente grandissimo, voi
tutti lo sapete: ma il più piccolo di quanti seguono il mio vangelo, la mia
nuova comunità, è ben più grande di lui”. Perché? Perché come Mosè ha guidato
il popolo verso la liberazione, senza poter entrare nella terra promessa, così
il Battista non può entrare nel Regno di Dio della Nuova Alleanza. Non basta
cioè essere i più grandi nati da donna, ma per entrare a far parte del Regno nuovo,
nella nuova società che Gesù ha fondato, è necessario rinascere mediante un
radicale cambiamento personale di mentalità e di vita. Il Battista non ha
potuto o voluto inserirsi in questa direzione: è morto prima.
Perché
nasca in noi qualcosa di nuovo, dobbiamo prima liberarci di ciò che è vecchio, di
ciò che ancora esiste, e limita le nostre aspirazioni di cambiamento. Il
Battista è certamente un grandissimo personaggio, un profeta che Gesù stesso
elogia: ma non è riuscito anche lui a chiudere con la vecchia immagine di Dio, e
accogliere il Dio nuovo di Gesù. Non è riuscito a far spazio al nuovo: è
rimasto ancorato al passato, per lui sicuro e certo, piuttosto che aprirsi
all’incertezza del nuovo, aprirsi totalmente a Gesù. Predicava alle folle un
cambiamento radicale, una preparazione risolutiva in vista del Messia, ma
quando venne anche per lui il momento di cambiare la sua visione di Dio, non ce
l’ha fatta, non ne ha avuto tempo.
In
pratica Gesù vuole sottolinearci la pericolosità di un simile comportamento che
molto spesso anche noi adottiamo: io sono tranquillo, certo della mia fede, dei
miei sentimenti: sono gli altri che devono cambiare!
È la cosiddetta
“sindrome dei buoni”. I buoni sono convinti di stare sempre dalla parte giusta:
sono gli altri, i cattivi, che devono convertirsi. I buoni indicano agli altri
come devono comportarsi: per cui si esprimono sempre “contro” qualcuno o
qualcosa: per loro c’è sempre un “male” da combattere, da eliminare, da
estirpare. Solo che non si rendono conto che di fronte allo “scandalo” del
Vangelo, di fronte alla novità introdotta da Gesù, non sono soltanto i “cattivi”
che devono convertirsi a Cristo, ma anche i buoni, quelli che sono convinti di
essere “giusti”, quelli che magari sono “perfetti” solo nel loro comportamento
esteriore, a termini di legge.
Gesù sa
perfettamente che noi siamo buoni, ma anche cattivi. Per questo abbiamo tutti bisogno
di amore e di conversione. Di amore, per non sentirci solo cattivi; di
conversione, per non sentirci solo buoni e perfetti. Nessuno è tanto buono da
non aver bisogno di convertirsi, e nessuno è tanto cattivo da sentirsi indegno
di essere amato.
Quando
allora nella nostra vita c’è qualcosa che non va, quando tra noi e i fratelli c’è
qualcosa che ci divide, smettiamola di ragionare volendo stabilire chi è il
buono e chi il cattivo, chi ha ragione e chi ha torto, chi ha agito giustamente
e chi ha sbagliato: perché nella vita dove c’è uno che ha ragione, dall’altra
parte c’è sempre automaticamente uno che ha torto.
Dobbiamo
invece ragionare diversamente: “Senti, noi due abbiamo un problema in comune. Cosa
posso fare io per aiutarti, cosa puoi fare tu per aiutarmi? Come possiamo
aiutarci insieme?”.
Sì, perché
solo con l’amore tutto diventa superabile! L’amore del Dio di Gesù, che è
presente in me, in te, in ciascuno di noi.
Quello
di Gesù è il Dio della vita, della libertà, della guarigione, del cambiamento. È
il Dio che vive in tutti gli uomini, perché tutti sono Sua immagine. È il Dio che
inabita ogni creatura: per cui ogni essere umano è mio fratello, ogni creatura
è mia sorella. È Lui che ci chiede di “convertirci”, di realizzarci, di
trasformare la nostra irruenza interiore in amore cosmico, universale, di
diventare noi stessi “tempio” viventi di Dio e “chiesa” dell’Altissimo. Il Dio
di Gesù è il Dio della Luce, della consapevolezza: se entriamo in noi, ci
scontriamo con i nostri mostri, i nostri fantasmi, le nostre paure, i nostri
condizionamenti, ma incontriamo anche il Dio dell’amore che ci abita, ci ama e
ci chiede di amare. È un Dio impegnativo perché ci chiede di lasciarci coinvolgere,
di lasciarci plasmare.
Allora
non basta dire: “Io credo” e sentirsi a posto. “Sì, d’accordo noi crediamo. Ma
in che cosa crediamo? Com’è il nostro credere? È rimasto ancora allo stadio
puerile, infantile, immaturo?”. Sì, perché se non siamo mai entrati in crisi, se
non abbiamo mai avuto difficoltà nel nostro credere, allora la nostra è una fede
che è rimasta bambina, piena di paure, di ansie.
Per
trovare Dio, dobbiamo “lasciare Dio”. Quando noi vediamo che i nostri ragazzi nel
crescere abbandonano l’immagine di Dio, non è una cosa terribile: è solo una tappa
necessaria per la loro crescita spirituale. In realtà non abbandonano Dio, ma solo l’immagine
bambina che hanno di Dio. Ciò di cui dobbiamo invece preoccuparci, ciò che purtroppo
oggi è molto problematico, è che “dopo” non trovano nulla, non trovano nessun
Dio con cui potersi identificare, perché noi adulti non abbiamo fatto nulla per
metterli in condizione, un giorno, di incontrarlo veramente. Per questo oggi tanta
gioventù non crede, non si converte, non cambia vita. Purtroppo segue solo l’esempio di noi adulti!
Siamo
poveri di Dio, è vero; siamo impreparati, insufficienti, distratti, per nulla
attenti: ma il “lieto annuncio” di Gesù ci assicura che possiamo ancora vivere esperienze
che vanno oltre ogni nostra migliore aspettativa: e non dobbiamo aspettare il
paradiso, ma possiamo viverle già quaggiù, su questa terra. Annunciamolo ai nostri figli, ai giovani. Perché possiamo vivere,
vibrare, espanderci, amare, sentirci grati, essere felici, e tutto con una tale
intensità da farci piangere, fremere, da farci mancare l’aria.
Allora,
perché voler continuare a strisciare per terra, a vivere come dei vermi, se abbiamo le ali per
volare?
Chi si
fida di Dio, si libra in alto. Con Dio tutti lo possiamo! Amen.
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