«Avverrà come a un uomo che,
partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno
diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di
ciascuno; poi partì» (Mt 25,14-30).
La
parabola di oggi è molto semplice: c’è un padrone che deve compiere un lungo viaggio,
e secondo l’usanza del tempo, affida il suo patrimonio ai servi più fidati. Cosa
succede allora?
Ciascuno
riceve in consegna un patrimonio che non gli appartiene, che non è suo e sa
quindi che dovrà riconsegnarglielo. C’è inoltre una diversità: non tutti hanno
lo stesso patrimonio. Ciascuno, dice il vangelo, ha secondo la propria
capacità. Hanno cioè talenti diversi perché sono diversi, ognuno ha il massimo
di ciò che può avere.
Ciascuno
nella vita ha il suo talento. Il talento è la possibilità che uno ha, il
patrimonio che uno incarna con la sua vita, che uno ha dentro di se, che Dio ha
riposto nel suo cuore. È un patrimonio enorme fatto di doti, doni, sensibilità,
talenti, capacità, emozioni, ideali, amore, fiducia, libertà, voglia di vivere.
La grande domanda è: “Chi sono io?”, nel senso: “Qual è il mio patrimonio?”. La
gente passa tutta la vita a voler essere questo o quello, quell’uomo o quella
donna. Vorrebbe avere i soldi di quello, la bellezza di quell’altro, la
conoscenza e la brillantezza di quell’altro ancora. Così invece di guardare a chi
è, insegue cose che non sono proprie e che pertanto sono irraggiungibili.
Qual è
il nostro talento? Qual è la nostra essenza? Qual è la nostra peculiarità?
Perché
quello che ha un talento lo nasconde? Perché si confronta con gli altri. Se noi
ci confrontiamo con gli altri, è chiaro che non siamo contenti di quello che siamo,
di quello che abbiamo. Per cui troveremo che gli altri hanno sempre di più, che
sono più fortunati, che magari se noi fossimo stati al loro posto. Ma è così
solo perché invece di guardare a cos’abbiamo, continuiamo ad invidiare quello
che hanno gli altri.
Cosa
dà il padrone ai tre servi? Dà dei talenti. Il talento non era una moneta
corrente perché denotava una cifra enorme. Era solamente una unità di misura.
Sarebbe come dire una tonnellata di euro: non si può girare con una tonnellata
di euro, semplicemente perché nessuno potrebbe portarla. Un talento, infatti, corrispondeva
a 60 mine, a 6000 dracme, a 6000 denari (la dracma era parificata infatti ad un
denaro, che era la paga giornaliera più alta di un lavoratore). Quindi con un
talento, una famiglia, poteva vivere all’incirca 30 anni.
Allora:
ciascuno ha molto. Ma se noi guardiamo a quello che hanno gli altri, se ci
confrontiamo, troveremo sempre che ci manca qualcosa. Se invece guardiamo a noi
stessi, troveremo che siamo ricchi, pieni e abbondanti.
La
gente non è povera di doti, talenti o vitalità: è che vuole sempre quello che
non ha. È che invece di sviluppare ciò che ha, invidia quello che gli altri
hanno già sviluppato. La gente vorrebbe avere a basso prezzo, senza impegno,
con grande facilità, quello che gli altri hanno invece conquistato con grandi
sacrifici, osando e mettendosi completamente in gioco.
Allora:
solo se guardiamo a noi stessi, a quello che abbiamo, potremo essere
soddisfatti e felici. Dobbiamo ricordarci, inoltre, che nessuno di quei servi è
proprietario di ciò che ha. Tutto gli è stato dato in consegna: quindi avere
più talenti comporta solo maggiori responsabilità, maggior impegno, non un
maggiore arricchimento personale, visto che poi tutto dovrà essere riconsegnato
al padrone.
Bene:
cosa succede a questo punto? I primi due investono il loro patrimonio e lo
fanno crescere, moltiplicare. Il terzo, invece, fa una buca e nasconde il suo denaro.
La
differenza è tutta qui: i primi due vivono osando, giocandosi, mettendosi in
gioco, rischiando, provandoci. Il secondo, invece, ha paura e la paura lo
blocca. Tutto dipende dal comportamento dei personaggi.
In
pratica questo vangelo ci dice: “Vivete e realizzatevi, moltiplicate i doni che
avete ricevuto, ciò che siete (il patrimonio)”. I talenti rappresentano
pertanto la nostra vita: perché non la mettiamo a frutto? Perché non la viviamo?
Cosa aspettiamo a vivere? Cosa aspettiamo a scendere in campo? Alcune persone passano
l’esistenza da “panchinari”: ci sono, ma non hanno mai il coraggio di entrare
in gioco, di fare quelle scelte che diano uno scopo, una direzione alla loro
vita, che la trasformino, che le facciano prendere “colore”, intensità. La loro
scelta? Di non scegliere mai: il partner? il primo che trovano; gli amici? quelli
che incontrano; gli hobby? quello che fanno tutti; le idee? quelle che hanno
tutti. Non si chiedono mai: “Ma a me cosa sta bene? Cosa voglio? Cosa fa per me?”.
E così sciupano la vita, la guardano passare invano. Avevano la possibilità di
viverla e invece si sono lasciati vivere: il treno passa, ci salgono su, e si lasciano
trasportare. Non hanno il coraggio di scendere e di fare a piedi, da soli, la loro
strada, di andare avanti con le loro gambe. Si dicono: “Ma noi non siamo fermi,
progrediamo, andiamo avanti!” e non capiscono che si illudono da soli, perché è
il treno che va avanti, che viaggia: loro vanno semplicemente dove va lui”.
Alcune
persone, come fa quell’uomo, nascondono la loro esistenza sottoterra, cercano
di essere invisibili, di passare inosservati e muoiono senza vivere.
Solo
la persona che rischia è veramente libera. La vita è il dono che Dio ci fa: se
la viviamo è il nostro dono che restituiamo a Dio. Ma se non la viviamo, se ci
nascondiamo, se sotterriamo ciò che possiamo essere, se permettiamo alla paura
di vincerci, allora vanifichiamo il dono che Dio ci ha dato in consegna.
La vita
ci restituisce sempre quello che noi le abbiamo dato. Il padrone ritorna, e
regola i conti con i servi: il risultato dipende da come uno si è comportato
con la propria vita. Il primo e il secondo hanno vissuto “giocandosi” e ricevono
in conseguenza del loro impegno; e non sono ricompensati perché hanno effettivamente
guadagnato, ma perché hanno provato, perché hanno avuto fiducia, perché hanno
osato, perché si sono lanciati. Il terzo, al contrario, ha avuto paura. È la
paura infatti che lo ha immobilizzato, che gli ha impedito di mettersi in
gioco.
Lui ha
avuto paura: non voleva essere criticato, non voleva fare errori, non voleva
sbagliare, non voleva essere giudicato. Voleva avere tutto sotto controllo, voleva
essere sicuro, ma facendo così ha perso ogni possibilità.
Certo,
se avesse rischiato, vissuto, avrebbe potuto perdere il suo talento, avrebbe
potuto sbagliarsi e perdere tutto, avrebbe potuto esser giudicato o criticato
per ciò che faceva o diceva; nessuno gli avrebbe potuto garantire un esito
felice. Ma se non si rischia si muore: perché è la paura che ci fa morire, non
gli imprevisti della vita.
La
vita è così: un patrimonio da far fruttificare, da realizzare, da far fiorire. La
vita, in modi diversi, in momenti diversi, offre a tutti la possibilità di
cambiare. Tutti noi abbiamo avuto delle occasioni che ci hanno portato in una
certa direzione. Tutti noi abbiamo incontrato delle persone che ci hanno fatto respirare
un’altra aria. Tutti noi abbiamo incrociato qualcuno che ci diceva: “Vieni di
qua; provaci, ce la puoi fare!”. Tutti noi abbiamo vissuto delle situazioni
(morte di un amico, di un caro parente; un momento difficile di vita; una
sofferenza interiore; una malattia, ecc.) che ci hanno suggerito insistentemente
di cambiare rotta, di vivere diversamente. E noi come abbiamo reagito di fronte
a tali inviti? Nulla, abbiamo rinviato: ma a forza di rinunciare, di posticipare,
di rimandare, di tralasciare, di abbandonare, di evitare, arriverà un bel giorno
in cui non potremo più fare “domani”. Sarà troppo tardi. E ognuno raccoglierà
ciò che ha seminato. “Hai preferito vivere così? Questo è il tuo raccolto!”. Allora
sarà inutile arrabbiarci: perché avremo esattamente ciò che abbiamo voluto. Amen.
«Il regno dei cieli sarà simile
a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo.
Cinque di esse erano stolte e cinque sagge…» (Mt 25,1-13).
La
parabola di oggi è un po’ singolare, perché i suoi protagonisti,
indistintamente, fanno tutti una brutta figura. La fa lo sposo perché, giunto
alle nozze con un ritardo inammissibile, respinge quelle vergini che si
presentano con la lampada spenta, poiché nel frattempo l’olio si era esaurito: “Non
vi conosco!” dichiara loro; ma perché ricorrere ad una bugia, dal momento che le
conosceva perfettamente visto che lui stesso le aveva invitate? Fanno ovviamente
brutta figura le vergini che si sono trovate senza una scorta d’olio,
dimostrando di essere delle sprovvedute, poco lungimiranti. Ma la fanno
ugualmente anche le sagge che rifiutano sdegnosamente di dare alle amiche un
po’ del loro olio: perché non condividere infatti qualche goccia d’olio con le
altre, visto che lo sposo era finalmente arrivato? Lo fanno perché sono invidiose,
cattive d’animo, oppure perché l’olio che hanno è incedibile, strettamente
personale, per cui anche volendo, non possono cederlo ad altri? Un olio “particolare”,
unico, personalissimo che, o ce l’hai di tuo, altrimenti nessuno può dartene?
“Andate dai venditori e compratevelo”, è la loro risposta. Ma che risposta è? Perché
sono così scostanti? Come possono quelle poverette trovare un venditore d’olio
nel cuore della notte? Si burlano di loro, oppure fanno così perché non possono
dare ciò che “non si può” dare?
Insomma,
questa è una parabola con tanti interrogativi, in cui nessuno sembra comportarsi
in maniera corretta.
Ovviamente,
per capirla, dobbiamo prima di tutto capire il significato di queste immagini così
lontane da noi, dalla nostra cultura, facendo esse riferimento agli usi
matrimoniali del mondo ebraico.
Attualizzando
comunque la parabola, appare chiaro che lo sposo è Gesù; mentre le vergini, sia
le prudenti che le stolte, siamo noi. E allora viene spontaneo chiederci: perché
Gesù risponde in maniera così aspra e tremenda: “Non vi conosco”? E cos’è quest’olio
così importante da condizionare il nostro ingresso alle sue nozze?
Matteo,
parlando delle vergini stolte che si sono dimenticate di prendere l’olio, le
chiama “morai”: un termine che letteralmente
significa “matte, pazze, stolte”; oppure, in senso più blando, “sbadate,
stupide, sciocche, senza testa, insipide”.
Per meglio
comprendere la portata della loro stupidità, dobbiamo sapere che la “lampada” in
questione altro non era che un recipiente fissato su un bastone nel quale ardevano
stracci intrisi d’olio. È chiaro che per continuare a bruciare e a far luce,
gli stracci dovevano essere continuamente imbevuti: non disponendo di una scorta
d’olio le lampade si sarebbero ben presto spente cessando di fare luce.
Stupidità,
dunque: significativo è infatti che sempre Matteo usi questo stesso termine di stolto, matto, pazzo, per indicare
un’altra situazione altrettanto ovvia: quella dell’uomo che ha costruito la sua
casa sulla sabbia (Mt 7,26): solo un
pazzo infatti poteva fare una cosa tanto assurda: il primo temporale, la prima
pioggia torrenziale avrebbe spazzato via la sabbia, e la casa sarebbe crollata.
In
entrambi i casi gli stolti sono identificati
con quelle persone che ascoltano sì la parola di Dio, ascoltano il messaggio di
Gesù, lo accolgono, ma poi non lo mettono in pratica, lo lasciano lettera morta,
se ne disinteressano totalmente. Sono quelle persone che vivono alla giornata
senza angustiarsi di nulla, senza troppi pensieri, senza porsi alcun problema.
Non si preoccupano minimamente di ciò che è importante nella vita: della
qualità del rapporto di coppia, del sapersi ascoltare, del fare silenzio
dentro, del mettersi in gioco, del cambiare in meglio, del nutrire l’anima, dell’avere
del tempo per sé e per quelli che amano. Vanno avanti come se niente fosse. Poi
si dicono: “Come è potuto capitarmi questo? Com’è possibile?”. Ma cosa
pensavano, che un giorno o l’altro non avrebbero dovuto dare ragione del loro
comportamento? Cosa pensavano che potesse succedere? Così si sono trovati
sprovvisti di olio. Ma cos’è esattamente quest’olio che gli stolti non hanno?
Sono le opere buone. L’ha detto chiaramente Gesù: “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini (la lampada
della vostra vita), perché vedano le
vostre opere buone (l’olio che la alimenta) e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli” (Mt 5,16).
Ma in
concreto i vangeli cosa intendono per “opere buone”? Vi ricordate la parabola
del buon samaritano? Non i gesti sacri
del levita che passa e tira via dritto di fronte all’uomo ferito, non le preghiere giornaliere del sacerdote,
ma l’amore del buon samaritano che oltretutto
era considerato un eretico (Lc 10,29-37).
È questo, è l’amore che conta davanti al Signore. Perché “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46).
È questo
in pratica che significa avere l’olio: un bene concreto, reale, quotidiano,
fatto di gesti, di pensieri, di azioni, di sentimenti. C’è qualcuno che soffre?
Noi vediamo, sentiamo la sua sofferenza, e ci muoviamo subito per aiutarlo. L’amore
è dunque l’unico metro di giudizio usato da Dio; preghiere, riti, meriti,
studi, fama, soldi, conoscenze, non servono a nulla se non sono a servizio dell’amore.
Anche questo Gesù lo dichiara apertamente: “Non
chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli…” (Mt 7,21).
Che tradotto in pratica significa: non basta fare belle prediche, costruire
grandi chiese, grandi cattedrali, tirare in ballo “Dio” continuamente, in ogni cosa,
in ogni discorso, per essere riconosciuti da Lui. Dio, che è Amore, riconosce solo
l’amore che ognuno ha e vive. Il resto non gli interessa. “Non vi conosco”, dice alle vergini stolte, sprovviste di opere
buone, di amore. Perché solo chi possiede amore può entrare alle nozze con Dio,
nel Paradiso, nell’Aldilà.
“Non vi conosco”: ma non è il Signore che non ci
riconosce. Non è una condanna la sua, ma una conseguenza del nostro modo di
vivere. Siamo noi stessi che non ci riconosciamo, perché abbiamo sempre vissuto
in superficie, con banalità: non sappiamo chi siamo; non sappiamo cosa vogliamo
o cosa proviamo; non abbiamo alcun colloquio con noi stessi e,
conseguentemente, ci autoescludiamo dalla vita, dalle sorgenti della vita.
Trovarci
in situazioni simili è molto più facile di quanto si possa pensare. Anzi è un
classico, succede sempre così. Arriviamo ad un certo punto in cui il nostro
cuore è talmente indurito, corazzato, siamo diventati talmente gelidi, da non
essere più in grado di amare, di esprimere alcun sentimento: così, quando il
pianto vorrebbe liberarci, ci dirà: “Non ti conosco”, perché dentro di noi, nel
nostro cuore, non troverà più nulla, solo aridità; quando arriverà la gioia,
dirà: “Non ti conosco”, perché non riusciamo più a gioire, ad abbracciare, a
lasciarci andare con sincerità. Quando arriverà l’amore, dirà: “Non ti conosco”,
perché saremo così aridi, così sterili, da non sapere più cosa significhi innamorarci,
amare veramente qualcuno. Quando arriverà la tenerezza o la compassione diranno:
“Non ti conosco”, perché il nostro cuore sarà talmente indurito, che niente potrà
commuoverci, niente potrà emozionarci: dentro di noi non avvertiremo più alcun
palpito. Ma vivere così è vivere senza vita. La distanza che si è venuta a creare
con l’Amore, è ormai troppo grande, e in tutti noi un punto di non ritorno. C’è
un punto in cui tutto è “troppo tardi”: il tempo a nostra disposizione è
finito, e non avremo più alcuna possibilità di “rivivere” per porvi rimedio. Questa
parabola, allora, deve essere per noi un pressante invito: “Non lasciare che la
tua lampada languisca. Prenditi cura del tuo olio, della tua vita, delle tue
opere buone, perché la “scorta” di cui in quel momento devi disporre, determinerà
la tua salvezza o la tua condanna, la tua beatitudine o la tua disperazione. Fai
molta attenzione, perché potresti cadere improvvisamente nel buio più totale.
Amen.
«Vedendo le folle, Gesù salì
sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a
parlare e insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito… ». (Mt 5,1-12).
Il
vangelo di oggi ci dice che con Gesù, tutti possono avvicinarsi a Dio. Tutti lo
possono incontrare, perché Dio non mette alcuna barriera tra noi e lui. Anzi è proprio
Gesù, come ci dice il vangelo di oggi, che attira i discepoli, attrae le folle.
Con lui Dio non è più un Dio da temere ma è un Dio che affascina, un Dio Padre
di infinita bontà. Quindi non un Dio da evitare, ma un Dio da incontrare, da
avvicinare, da cercare. Non un Dio che ci può punire ma un Dio che vuole amarci
sempre più. Un Dio che non esige mai qualcosa in cambio da noi, ma un Dio che è
lì per dare Lui qualcosa a noi. Il Dio di Gesù non può incutere paura: e se noi
abbiamo paura di Dio, vuol dire che il nostro non è il Dio del vangelo.
Gesù
dunque, una volta che la folla si è raccolta intorno a lui, proclama le otto
beatitudini: perché otto? Perché nella simbologia del cristianesimo primitivo
indicava la resurrezione (“l’ottavo giorno”); Gesù, con le beatitudini “della
risurrezione”, ci indica infatti lo stile di una vita che non verrà mai meno: chi
vive le beatitudini, infatti, vivrà per sempre, vivrà una vita che non sarà mai
interrotta dalla morte.
Il
segreto per essere felici già in questa vita? Praticare le beatitudini, un
condensato del “donare”: infatti “Vi è
più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35): più ci doniamo agli altri,
più siamo felici. Se vogliamo realizzare in tutti i sensi la nostra vita, dobbiamo
donare noi stessi agli altri: al contrario togliere, rubare, tenere solo per sé,
per arricchire se stessi, equivale a perdere la vita, significa morire.
I
Santi l’hanno capito e l’hanno messo in pratica: santi, oltre a quelli
innalzati agli onori degli altari, sono infatti tutti coloro che hanno vissuto,
o che ancora vivono, la loro vita per donare, per condividere, non per
isolarsi, per chiudersi egoisticamente, ignorando il prossimo.
Dare infatti è sinonimo di amare, e amare significa “creare”:
donare cioè qualcosa di noi che faccia nascere e crescere qualcosa nell’altro. È
questa nascita che ci procura la
gioia più vera, la gioia “divina” del creare, che ci fa sentire realizzati e
fecondi.
Noi
capiremo che la nostra vita ha centrato il suo senso profondo soltanto quando,
donandoci, possiamo essere utili agli altri; perché in questo modo ciò che noi siamo,
diventa un bene comune, un bene per tutti, per il mondo intero; vuol dire che
siamo importanti non per la fama o per le ricchezze, ma per il nostro amore,
per la nostra dedizione, perché il nostro essere, la nostra vita, diventa “vita”
per altri.
Questo
è il filo conduttore, la filosofia delle beatitudini. In pratica esse ci dicono:
“Tu puoi essere felice. E come lo puoi tu, lo possono tutti”. Qui però non funziona
come nel commercio: uno vuol comprare qualcosa, paga, e riceve l’oggetto dei
suoi desideri o delle sue necessità. Qui non c’è niente da dare, qui c’è solo da darsi;
qui non si fa shopping, non c’è da giocare, da divertirsi, ma c’è da mettersi
in gioco su tutto; qui non c’è da fare
o non fare qualcosa, ma da essere e
vivere qualcosa.
Ecco: le
beatitudini ci mostrano esattamente come dobbiamo essere. Il mondo, il
benessere,l’egoismo, ci suggeriscono continuamente:
“Riguardati, non buttarti via, accontentati di pensare a te stesso, gli altri
si arrangino”. Le beatitudini invece: “Non fermarti, punta sempre più in alto,
osa, vola ad alta quota, perché tu sei fatto per questo. Questo è ciò che Dio
vuole da te e per te, questa è la tua unica felicità. Non hai idea di cosa puoi
vivere, di come puoi sentire pieno e grande il tuo cuore! Non hai idea di
quanto tu possa amare, quale profondità possano raggiungere i tuoi rapporti, con
che ricchezza di sentimenti tu possa sentire, percepire e vivere”.
Le
beatitudini non insegnano a non avere contrasti, conflitti, perché non si può
vivere senza tutto questo. Non insegnano ad evitare i conflitti ma ad entrarci,
a superarli; non insegnano a sottrarsi al dolore ma ad esprimerlo; non
insegnano a fuggire di fronte alla paura ma a guardarla in faccia; non
insegnano a fuggire i sentimenti ma a viverli. Non sono una soluzione magica,
ma un invito a non aver paura, a fidarci di Dio che ci dice: “Ci sono io: e tu con
me puoi vivere meglio di quanto credi”.
Del
resto è un’illusione pensare di poter vivere senza difficoltà, senza conflitti,
tensioni o incomprensioni. Noi purtroppo siamo fragili, e poiché non ci
sentiamo tanto forti da poter reggere tutti gli urti della vita, i suoi scossoni,
le sue tensioni, per evitarli cerchiamo di fuggire dalla realtà, ci rifugiamo
in un mondo fantastico in cui sogniamo di vivere senza difficoltà. Le
beatitudini, invece, ci riportano alla realtà, ci proiettano nel nostro
quotidiano, non abbandonandoci alla nostra fragilità, ma insegnandoci a
superarla, a vivere in maniera forte e profonda, con le radici ben salde,
proiettati in avanti; ci indicano come essere felici, anche quando le
situazioni sembrano insuperabili, difficili, crude, dolorose. E ci dicono: “Vivi
con noi, non ti sottrarre, perché anche quello che tu vorresti rifiutare ha un
senso; vivi con noi, perché tutto ti serve, tutto devi imparare, soprattutto da
ciò che ti succede; vivi con noi e non aver paura, perché Dio è sempre al tuo
fianco, non ti abbandona mai. Vivi con noi, e non avrai più nulla da temere!”.
Le
beatitudini non sono negative: non inneggiano alla povertà, alla miseria, alla
rassegnazione, al piismo, alla tristezza o al dover subire; non dicono che la
povertà è un bene: no, perché la povertà è miseria,
è la triste realtà della nostra condizione umana, ma dicono con quale spirito
dobbiamo cercare di uscirne. Le beatitudini non dicono che essere perseguitati
è un bene: no, tutte le persecuzioni sono terribili e spietate, ma d’altra
parte non possiamo neppure pensare che tutti ci accettino così come siamo: quindi miglioriamoci. Non
dicono che piangere è bello: no, è e sarà sempre doloroso. Ma piangere ci
trasforma, ci purifica; il pianto è il modo naturale di esprimere i nostri
dolori, le nostre tristezze, i nostri lutti e le nostre perdite. È l’adattamento
alla realtà. Non è bello, ma è necessario (che è molto diverso). Le beatitudini
non dicono che dobbiamo chiudere gli occhi di fronte a tutto, o di subire le
malefatte degli uomini. Dicono al contrario che dobbiamo essere misericordiosi,
che dobbiamo avere un cuore grande che giudica le azioni e non gli uomini, i
comportamenti delle persone, ma non le persone. Dicono che gli uomini agiscono
così perché sono pieni di paura: per questo diventano aggressivi, violenti,
indisponenti. Ma ciò non significa che dobbiamo subire tutto; quando c’è da
dire “no”, lo dobbiamo dire con tutta la forza che abbiamo.
Le
beatitudini non sono degli ordini: “Devi vivere così”. Sono invece delle
proposte: “Tu puoi vivere così!”. Ci offrono una possibilità, possiamo
sceglierla oppure no. Siamo solo noi a scegliere. Le beatitudini non sono una
soluzione ai nostri problemi: ma sono un cammino verso la loro soluzione.
Le beatitudini
insomma ci indicano la grande verità della vita: “dove ci possiamo appoggiare?
Su cosa possiamo veramente contare? Sulle cose? Tutte passano e si consumano.
Sulla gloria? Ma di noi, nel migliore dei casi, quando non ci saremo più, rimarrà forse solo un nome. Sulle persone? Non ci salvano, hanno altre preoccupazioni. Soltanto Dio,
Dio solo, è il nostro tutto, il nostro appoggio, il nostro futuro, la nostra
salvezza: tutto il resto, tutto ciò che ci circonda, è niente.
L’uomo
da solo, senza Dio, è zero assoluto. Nella lingua ebraica “zerà”, oltre a zero, niente, vuol dire anche “seme”. Ebbene: noi siamo zero, siamo nulla, vuoti, poveri del
tutto, mendicanti, ma nel nostro essere niente,
si nasconde, come un seme, il
nostro essere tutto. Nel nostro
essere niente c’è il Tutto: nel nostro essere poveri c’è la Ricchezza; e più ci
spogliamo, più ci diamo, più siamo al sicuro nelle mani di Dio. Quando poi arriveremo
a non avere più nulla del mondo che affascina il nostro cuore, allora avremo il
Tutto, avremo Dio. Quando saremo spogli di ogni cosa terrena, quando tutto di
noi morirà, allora entreremo nella Vita e Dio ci rivestirà di amore eterno.
Amen.
«Maestro, nella Legge, qual è il
grande comandamento?» (Mt 22,34-40).
Dopo
le ripetute brutte figure, i farisei per mettere alla prova Gesù questa volta
scelgono una persona competente, il meglio del meglio: un dottore della legge. Da
notare che il verbo “metterlo alla prova”
è lo stesso peirazo usato per descrivere
le tentazioni di satana: possiamo constatare infatti come nel vangelo le istituzioni
religiose, i sacerdoti del tempio, gli scribi, i farisei, sempre pronti a
tentare, a mettere alla prova Gesù, siano paragonati al diavolo. È quanto meno
sintomatico: una prerogativa di allora che riemerge anche oggi?
Cosa
gli chiede dunque il dottore, l’esperto?: “Maestro, qual è il più grande
comandamento della legge?”
Già da
come si pone, fa capire il suo reale proposito: l’appellativo di “maestro” con
cui si rivolge a Gesù, non è un’espressione reverenziale, ma un titolo
chiaramente provocatorio: non solo non ha alcuna intenzione di approfondire le
sue conoscenze (lui non ha nulla da imparare, sa già tutto!) ma cerca piuttosto
un pretesto per metterlo in difficoltà davanti al suo pubblico: vuole cioè cogliere
in fallo Gesù per offrire alle autorità l’opportunità di condannarlo: e quale
argomento è più indicato se non quello di indagare su cosa Gesù pensi dei
comandamenti e della legge? La verità peraltro non gli interessa; e non è
neppure curioso di conoscere il pensiero di Gesù; ma vuole sfruttare
l’occasione per avere finalmente un riscontro su di una questione fondamentale che
inquieta seriamente le autorità religiose: Gesù infatti nella sua predicazione non
solo prende le distanze dai comandamenti della legge ma arriva pure a trasgredirli.
Egli in pratica definisce “vecchi, sorpassati, incompleti” proprio quei
comandamenti sempre validi, che tutti sono tenuti ad osservare. Quindi la
risposta di Gesù serviva soltanto per verificare la sua ortodossia, e per
acquisire un motivo ufficiale per denunciarlo.
Ma
Gesù sa perfettamente a cosa le autorità mirano per mezzo del suo interlocutore:
“Il più grande comandamento? Ma è ovvio, è il sabato!”. Il comandamento più
grande è senza ombra di dubbio l’osservanza del “sabato”, quel comandamento che
Dio stesso ha rispettato, consacrandolo col riposo dopo le fatiche della
creazione. L’osservanza del sabato equivaleva per gli ebrei all’adempimento di
tutta la legge, e la sua disobbedienza era punita con la morte (Es 31,14).
Tutto
dunque è chiaro; ma è altrettanto chiaro che Gesù, nel suo peregrinare, di
questo comandamento non ne tiene alcun conto, non gli interessa: se deve fare qualcosa
di importante, come per esempio guarire un ammalato, lui lo fa’ tranquillamente,
perché per lui l’amore è la cosa più importante della legge. Per cui se Gesù
avesse dato la risposta che tutti si aspettavano, “il sabato”, il dottore della
legge gli avrebbe immediatamente contestato il suo comportamento: “È giusto,
maestro: ma perché tu non lo rispetti?”. Se invece avesse risposto
diversamente, avrebbe fatto la figura dell’ignorante, di uno che non conosce la
legge, e questo sarebbe stato altrettanto deleterio.
Il
dottore esprime il suo quesito, basandosi su quanto previsto dalla Scrittura;
lui è un esperto e la conosce bene: Gesù però gli risponde a tono, citando
anche lui la Scrittura, dimostrando di conoscerla altrettanto bene, e gli fa
capire che il testo non va interpretato in base ad una singola citazione
letterale, ma da una lettura d’insieme, globale.
Gesù infatti
risponde citando un altro comandamento – altrettanto “grande” ma sicuramente il
“primo” e più importante – riferendosi cioè a quella “preghiera” che gli ebrei
recitano due volte al giorno, al loro “Credo” ufficiale (Dt 6,4-9): “Amerai il
Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutto il tuo essere e con tutta la tua
mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti”. E fin qui va
tutto bene: il dottore non può che essere d’accordo. “Amare Dio”, in fin dei
conti, non è difficile, è un fatto interiore che non si può misurare dall’esterno,
e che quindi nessuno può conoscere né giudicare: le autorità sono salve!
Ma il
problema nasce subito dopo con quel che segue: “E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv
19,18)”. Anche questo è scritto nella Bibbia. Quindi, a rigor di logica,
Gesù non dice nulla di nuovo. Ma in realtà, per come vanno le cose, sì: Gesù,
infatti, condiziona l’amore per Dio all’amore per il prossimo: lega
indissolubilmente i due amori. In altre parole dice: “Amare Dio senza amare
veramente le persone, non serve a nulla, non è un vero amore per Dio. Pertanto,
quello che voi ripetete ogni giorno (visto che lo dite), mettetelo anche voi in
pratica, come faccio io!”.
Che
dire? È chiaro che a questo punto il dottore si trova spiazzato: non ha parole,
non immaginava che il discorso prendesse una simile piega, è sorpreso,
ammutolisce: “Nessuno era in grado di
rispondergli nulla; e nessuno da quel giorno in poi, osò interrogarlo” (Mt
22,46). Una bella lezione: del resto Gesù non cita chissà quale teoria, ma risponde
attenendosi scrupolosamente a quanto già stabiliva la legge ebraica. E poiché
si rivolge ad un ebreo, oltretutto ottimo conoscitore delle Scritture, il succo
è questo: “La legge ce l’avete e la conoscete: mettetela in pratica!”
Ma per
Gesù non è tutto qui: egli non si ferma all’amate “gli altri come amate voi
stessi” (vecchia legge) ma va ben oltre: “amate
gli altri come io vi ho amati” (nuova legge)! (Gv 13,34). La portata della legge dell’amore è molto più vasta e impegnativa;
il “novum” introdotto da Cristo è addirittura rivoluzionario. Per tre motivi: prima
di tutto per il nuovo concetto di “prossimo”:
per un ebreo il prossimo era un altro
ebreo o al massimo uno che abitava in Palestina; quelli fuori, i non ebrei, non
erano considerati “prossimo”: ebbene, Gesù estende questo riconoscimento a
tutta l’umanità; un altro concetto decisamente innovativo sta nell’amare il
prossimo “come te stesso”: fermandoci
a queste sole parole, il nostro amore non sarebbe stato perfetto: per logica
infatti se io mi fossi amato poco, avrei amato poco anche gli altri; se io non
mi fossi amato, non avrei amato neppure il prossimo; se non avessi ricevuto
amore, non avrei potuto a mia volta darne a nessuno. Gesù stravolge questo
aspetto riduttivo; in pratica dice: ama il prossimo tuo “non” come tu ami te
stesso, ma come Dio ama te, “come Io vi ho amati”. Apre cioè una
nuova e straordinaria prospettiva: il modo con cui dobbiamo amare il prossimo passa
da quello riduttivo, il “nostro”, a quello di Dio, universale, straordinario,
senza limiti. In questo modo l’amore diventa ovviamente tutta un’altra cosa! La
maggior parte di noi infatti non si ama correttamente, e se amassimo il
prossimo come amiamo noi stessi, finiremmo col non amare nessuno!
Infine,
l’ultima novità: se la vecchia legge ebraica stabiliva che l’amore per Dio doveva
coinvolgere l’uomo nella sua totalità (con il cuore, l’anima e la mente), nei confronti del prossimo ciò non
era previsto; la condizione era soltanto di amarlo “come se stessi”. Cosa vuol dire? Che se per un ebreo l’amore per
Dio era totale, coinvolgente, esclusivo, e quindi il primo dei doveri, quello
per il prossimo veniva in second’ordine, veniva dopo, valeva meno. Gesù al
contrario – cosa assolutamente rivoluzionaria - pone l’amore per Dio e per il
prossimo esattamente sullo stesso piano, sono cioè entrambi esclusivi. Per Gesù
amare l’uomo equivale amare Dio, e amare Dio equivale amare l’uomo. Conseguentemente
l’amore per Dio non lo si misura da quanto uno è pio o religioso, da quante preghiere
dice: ma da quanto amore nutre per i suoi fratelli. Per Gesù il vero credente
non è colui che esegue alla lettera le prescrizioni religiose, ma colui che
vive realmente l’amore, colui che compie ogni sua azione elargendo amore.
Il
testo di questo vangelo ci offre inoltre altre considerazioni su cui meditare.
1. Prima
di tutto cosa vuol dire la parola “amore”?
Letteralmente è “dare la vita”, “togliere la morte a qualcuno” (dal latino “a” privativo e “mors”, morte). Quindi “amare”
significa rendere vivo, vitale colui che amiamo. Gesù vedeva intorno a lui
persone che soffrivano, che erano morti o ciechi, li guariva, li rimetteva in
contatto con la vita, con la vista. E lo faceva (altro insegnamento
fondamentale) non per avere un “ritorno”, una ricompensa, un beneficio: neppure
in termini di fama, perché chiedeva sempre che non divulgassero la cosa, di non
parlarne con nessuno; non lo faceva neppure per convertire: non diceva: “Ti
guarisco ma tu devi credere in Dio; tu devi venire in chiesa; tu devi
obbedirmi; tu mi devi...”. Lui vedeva semplicemente uno che soffriva, e il suo “amore”
lo liberava dalla sofferenza, dal disagio.
L’amore
di Gesù deve essere anche il nostro: chi ama rende vivo l’altro. Chi ama vuole il meglio per l’altro, anche se ciò
gli costa fatica e sacrificio; perché talvolta ciò che è meglio per l’altro non
è detto che coincida con quello che noi vorremmo fare.
2. Altra
considerazione: in passato noi cristiani abbiamo spesso tradotto “Ama il
prossimo tuo come te stesso” con “Ama il prossimo tuo contro te stesso”, oppure” ama il
prossimo tuo al posto di te stesso”. Nulla
di più sbagliato. In questo modo amare se stessi, “amarsi”, era peccato,
significava essere egoisti, narcisisti: bisognava soltanto spendersi per gli
altri, sacrificarsi per gli altri: questa era la sola via per la santificazione.
Per chi voleva intraprendere un cammino cristiano più impegnativo, gli veniva continuamente
ricordata la frase: “Se uno non rinnega
se stesso e non prende la sua croce...”: la nostra vita “doveva” essere pertanto
impostata solo sul sacrificio, sulla penitenza, sulla totale dedizione per gli
altri; solo se eravamo infelici e pieni di sventure, Dio ci avrebbe accettati. Ma
questo è un’altra cosa.
“Ama il prossimo tuo come te stesso” più
che un comandamento, più che un invito, rappresenta una realtà, un modo di
vivere, un dato di fatto: noi cioè amiamo gli altri se e come amiamo noi
stessi. Il vangelo è chiarissimo in proposito: “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete
condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona
misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la
misura con cui misurate, sarà misurato a voi” (Lc 6,37-38).
In
altre parole: noi amiamo gli altri allo stesso modo con cui amiamo noi stessi;
non possiamo dare più di quello che abbiamo: se ci giudichiamo, giudichiamo anche
gli altri: se siamo severi con noi stessi, saremo severi anche con gli altri; se
pretendiamo da noi stessi, pretenderemo anche dagli altri. “Ama il prossimo tuo come te stesso”
definisce dunque una semplice verità. È un’equazione: l’amore per gli altri è
proporzionale all’amore per noi stessi e viceversa: ti amo come mi amo; mi amo
come ti amo.
3. Da
qui un’altra considerazione: dobbiamo amare
noi stessi. “Amarci” è volere il nostro bene, cioè renderci vivi; significa
lottare per ciò che è bene per noi, fare in modo che la nostra persona sia retta,
rispettabile e rispettata. Se gli altri ci evitano, ci ignorano, ci escludono,
perché continuare ad arrabbiarci con gli altri? “Amarci” vuol dire cambiare il nostro
carattere e la nostra persona: in questo modo diventeremo anche noi amabili,
accettabili, ricercati. Abbiamo una paura che ci blocca: paura di provare, di
sbagliare, di parlare, di giudicare, di fare una scelta, ecc.? “Amarci” è
affrontarla perché noi meritiamo di vivere senza paura, in tutta la nostra
pienezza, in tutte le nostre possibilità, al meglio e al massimo. Se nessuno ci
considera, se nessuno nel nostro ambiente ci rivolge la parola, invece di
inveire contro mondo che è cattivo, che ce l’ha con noi, lavoriamo su noi
stessi: “amarci” è diventare più presentabili, è avere un carattere meno
irascibile, più estroverso; “amarci” è essere più aperti con gli altri, più elastici,
meno saccenti, meno giudicanti e pretenziosi; “amarci” significa insomma diventare
migliori. Non si è mai visto nessuno che si ami veramente, che non sia amato a
sua volta da un sacco di gente. Quindi non pretendiamo dagli altri ciò che noi non
sappiamo o non vogliamo fare per noi stessi: perché è autentico parassitismo.
4. Infine
dobbiamo “amare in pienezza”. Il
vangelo parla di amare “con tutto il
cuore, l’anima e la mente”. Altrove aggiunge “con tutte le forze” (Lc
10,27). L’amore cioè implica ogni parte di noi, della nostra personalità, deve
essere a tutti i livelli, altrimenti non è vero amore: amare infatti con mente e forze, senza cuore, è volontarismo,
è azione, amore freddo, senza passione, manca il sentimento. Amare con mente e cuore, senza le forze, è
sentimentalismo, non c’è azione. Amare cuore
e forze, senza mente, diventa istintivo, irrazionale, non c’è il pensiero, non c’è
consapevolezza e lucidità. L’amore pertanto è pieno, completo, perfetto, solo quando
è dato con l’intera nostra persona, con tutto di noi: mente, cuore e forze.
Solo amando il prossimo in questo modo, lo ameremo come Gesù ci ha insegnato, come
Lui stesso ci ha amati: senza condizioni, senza pensare a ricompense, senza pretendere
meriti. Amen.
«Rendete dunque a Cesare quello
che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,15-21).
È
chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra
nelle simpatie di Gesù. I personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani
del popolo, se ne approfittano per compiere liberamente i loro loschi affari.
Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, indicata come meno
degna dei pubblicani e delle prostitute, lo ritiene ormai come il suo più
acerrimo nemico da combattere: Gesù è un uomo pericoloso, uno che deve essere
fermato ad ogni costo, poiché non solo non rispetta le istituzioni religiose, ma
addirittura le scredita apertamente! Pertanto i farisei si riuniscono per
decidere il da farsi: “tennero consiglio
per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta.
Riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i
farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da
sterminare; però pur di coronare i loro perversi progetti si abbassano a
chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune, e “chiunque odia il
mio nemico, diventa mio amico”!
Essi
dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a
tavolino: ed iniziano con un elogio esagerato, falso, volutamente adulatorio,
un incensamento ostentato: “Maestro,
sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai
soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si
scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Perché mi tentate?”. Li paragona apertamente
a satana, il tentatore: usa infatti le stesse parole che ritroviamo nel
racconto delle tentazioni. Finiti i convenevoli, scoprono immediatamente le
loro carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento molto
spinoso: “Dì a noi: è lecito o no pagare
il tributo a Cesare?”. Che praticamente vuol dire: “Devi dirci, qui e ora,
ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque
risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; infatti, dicendo “sì”, si dichiara
favorevole al pagamento delle tasse, e quindi, riconoscendo l’invasore come “signore”
del popolo, incorre nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli
ebrei devono riconoscere e servire (Dt
6,4-13); se invece dice “no” al pagamento delle tasse, si mette automaticamente
contro l’autorità romana, decretando personalmente la propria fine, veloce e
sicura.
Gesù dunque
è incastrato. Se accetta di esprimere un suo parere, ogni risposta è perdente. Deve
necessariamente capovolgere la situazione. E lo fa signorilmente: ignora la provocazione
e sposta i termini del discorso su un altro piano, facendo a sua volta una richiesta:
se essi accettano, egli esprimerà il suo pensiero su quanto gli era stato
chiesto: “Mostratemi la moneta del
tributo”. Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in
argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava
la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove
arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio dell’imperatore.
Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa
immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete
a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa vuol
dire? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare
devono essere restituite al loro padrone. Ma la risposta non si esaurisce qui: “Rendete
a Dio quello che è di Dio”. I doveri sono due: uno nei confronti del potere
politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio. In sostanza
Gesù non perde l’occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In pratica,
piuttosto risentito, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col
popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del
tempio, dovete restituire a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che
Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla
vostra guida. Voi però cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore
con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo a voi
predicando un Dio, che non è il vero Dio. Subordinate Dio alle vostre teorie,
al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è
un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo, vostro dovere è di ricondurlo
a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande
attualità.
Il
racconto ci offre pertanto due spunti di meditazione distinti, costituiti dalla
domanda e dalla risposta di Gesù. Scendiamo più nel particolare.
Primo
spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine richiama la persona,
esprime ciò che gli appartiene: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene
da lui e gli appartiene. Ma a noi deve interessare soprattutto un’altra immagine:
nella Bibbia infatti sta scritto che l’uomo è stato creato a “immagine e
somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi
apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà. Dimenticare, perdere, trascurare questa
nostra autentica e indelebile appartenenza a Dio Vita, significa vivere una non
vita, significa cadere in un dramma incalcolabile. Infatti, qualunque nostro
attaccamento, qualunque legame ad altre realtà che non siano Dio, a persone, a
cose, al mondo intero, svilisce, deturpa la nostra somiglianza divina, ci rende
schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremo mai completamente liberi,
tremendamente liberi, come prima. Dobbiamo pensare più spesso alla nostra
somiglianza con Dio. Ci capita mai guardando il cielo stellato, di ammirare la
meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo,
di sentirci quasi in comunione con tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia
di casa, la nostalgia di cose grandi, immense? O siamo morti dentro? Ci capita
mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli
occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una
inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente
il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, chi è la nostra vera madre
(la Vita) e chi è il nostre vero padre (l’Altissimo).
Non
dimentichiamo mai chi siamo veramente: la più grande tragedia che ci possa
capitare è salire sul palco della vita, recitare la nostra parte, e
dimenticarci la maschera addosso quando abbiamo finito e usciamo di scena. È
importante ripeterci continuamente, nel nostro cuore, nella nostra anima: “Io
sono di Dio, appartengo solo a Lui, sono suo figlio, e un giorno tornerò a
Lui!”
Secondo
spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a
Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa
risposta, Gesù alludeva anche all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato,
quello che è di Cesare e dello Stato”: è nostro dovere pagare le tasse; non possiamo
essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo
i nostri dipendenti, se noi accumuliamo, mentre gli altri muoiono di fame, se
creiamo lobby di potere. Oggi si fa tanto parlare di comunione negata ai
divorziati: di contro, nessuno dei tanti “alti papaveri” della teologia si è
mai posto il problema per quelli che “si sono mangiati” i risparmi di una vita
di onesti lavoratori, per quelli che fanno fallire le aziende per interessi
personali, per quelli che colludono con la mafia a beneficio della propria
ascesa al potere, per quelli che si portano a casa milioni di euro in tangenti
alla faccia dei contribuenti. Tutta gente che liberamente, pubblicamente e
tranquillamente può accostarsi alla comunione.
Ma la
risposta di Gesù contiene un’altra verità, altrettanto essenziale, una verità
più universale: oltre che a Cesare e a Dio, noi dobbiamo cioè restituire alle
persone, alla natura, alle cose che ci circondano, ciò che è loro, che appartiene
loro: valore, importanza, dignità. Tutto e tutti hanno le loro qualità: sta a
noi riconoscerle, apprezzarle, restituirle: il verbo greco apo-didomi, significa appunto “restituire, rendere a qualcuno ciò
che gli spetta, che gli appartiene, che gli è dovuto”. Tra i doni che Dio ci ha
concesso in uso, ai quali dobbiamo riconoscere massimo rispetto e cura, ce n’è
uno che è il più prezioso in assoluto: la nostra vita! Più gli scienziati
studiano l’uomo e più dicono: “Siamo un miracolo!”. Dio ci dona ogni giorno la
cosa più grande di questo mondo: il poter dire: “Sono vivo”.
Purtroppo
per molte persone è un dono così comune, così scontato, che non lo apprezzano,
non sanno che farsene di questa vita e di questo tempo che hanno a disposizione,
e continuano a lamentarsi con Dio di questo e di quello. Ma noi dobbiamo
riconoscere e onorare questo dono gratuito che è la vita: la vita non ci è “dovuta”,
è un dono; e verrà un giorno in cui dovremo riconsegnare nelle sue mani questo
dono. Finita questa vita non ne abbiamo un’altra di scorta, in cui poter rimediare
al tempo perso. Quello che non facciamo oggi non lo potremo fare mai più.
Viviamola
dunque seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: disponiamo
di questa sola per amare, per provare, per sentire, per realizzare la nostra missione,
per diventare ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci
condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, dell’autorità,
da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere. Siamo positivi, entusiasti:
chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ripetiamoci: “Voglio vivere: voglio sentire
l’odore dei prati, della natura in fiore, il profumo della pelle di chi amo;
voglio provare il gusto del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi,
correre, rotolarmi sull’erba, ridere a crepapelle, giocare, accarezzare e
abbracciare; voglio piangere quando sto male, sentire e condividere il dolore
della gente, commuovermi per la gioia; voglio inseguire un sogno, lottare per
un mondo migliore e sentire che questo mio tempo non sta passando invano, che ha
un senso meraviglioso per me e per il mondo. Sì, voglio vivere!”. Se arriveremo
a tanto, potremo restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: quando moriremo,
saremo ancora in vita. Dio ci ha consegnato la vita, noi gli riconsegneremo la
vita, in tutta la sua bellezza: non la morte dei rinunciatari, di coloro che si
sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
La
gente impreca e si lamenta quando le cose finiscono; ma non sa ringraziare e
viverle quando ci sono. Non capisce che all’amore si risponde con l’amore: per
amore riceviamo, per amore dobbiamo restituire. Amen.
«Perché molti sono chiamati, ma
pochi eletti» (Mt 22,1-14).
Per
capire bene cosa vuol dirci il testo evangelico di oggi, dobbiamo tener
presente che in genere ogni evangelista, nel descrivere vita e insegnamenti di
Gesù, insiste soprattutto in quei particolari “teologici” che egli ritiene più significativi
per la propria comunità: ogni comunità, ogni ambiente, viveva infatti il
messaggio cristiano in situazioni e con necessità molto diverse tra loro. Questo
discorso vale in maniera particolare, per la pagina di Matteo che la liturgia
ci propone in questa domenica. La parabola di oggi infatti è una potente allegoria.
C’è all’origine un messaggio di Gesù, che Matteo elabora, per trasmettere alla
sua comunità un segnale particolarmente chiaro e importante. È la stessa
parabola che troviamo anche in Luca (14,16-24),
come pure nel vangelo apocrifo di Tommaso, ma decisamente con toni molto diversi,
meno accesi e categorici: l’uomo di Luca, per esempio, in Matteo diventa un re
(la figura del re richiama il giudizio finale alla fine dei tempi); la grande
cena del primo diventa nel secondo un banchetto di nozze per il figlio del re
(il Figlio, per Matteo, è Gesù e la grande cena diventa il giudizio per tutti
quelli che hanno accolto il suo messaggio); Luca manda un solo servo per
invitare le persone, mentre Matteo ne manda molti e a più riprese (più volte
Israele ha avuto messaggeri di Dio, ma invano). In Luca gli invitati si
giustificano a parole, mentre in Matteo arrivano a malmenare e uccidere i servi
del re. A questo punto ci si chiede: perché sottolineare tanta intransigenza?
Che senso ha specificare che gli invitati, non solo rifiutano l’invito a nozze,
ma picchiano e uccidono addirittura quelli che li invitano? In Luca, visto che
i primi invitati rifiutano, il padrone allarga semplicemente il suo invito ad
altri; ma in Matteo c’è un’ira terribile del re che, prima ancora di sedere a
cena (già pronta!), spedisce la sua guardia del corpo per uccidere quegli
assassini e per bruciare la loro città. E ripeto: che senso ha compiere tutto
questo immediatamente, prima di cena? Ovviamente nessuno: ma Matteo lo fa, perché
vuole riferirsi proprio alla storia di Israele, vuole identificare nei
messaggeri del re i profeti e Gesù stesso: loro erano stati mandati da Dio e
hanno fatto esattamente quella fine. La punizione doveva essere immediata,
prima del ritorno del re nella “sala delle nozze”. Con quali conseguenze? La
città degli invitati “assassini”, Gerusalemme, la città simbolo, deve pagare
per i misfatti del popolo giudeo: l’allusione alla sua totale distruzione nel
70 d.C. per mano dei Romani, è evidente. La comunità di Matteo, formata appunto
da cristiani provenienti dal giudaismo, deve essere consapevole di tutto
questo, deve capire il significato profondo, la portata vitale della loro
chiamata, della loro adesione al vangelo.
Il
pratica il messaggio di Gesù è questo: “Vi ho fatto un invito e voi non l’avete
accolto”. Egli è stato rifiutato dai sapienti, dai religiosi, dagli uomini del
Tempio, da quelli cioè che già “avevano Dio”, il loro Dio; la loro immagine di
Dio, era talmente radicata e fissa, che non sono riusciti a cambiarla. Allora
Gesù si è rivolto ad altri: pubblicani, lontani, donne, eretici, senza-Dio, e
loro lo hanno accolto.
Non è
difficile leggere in questa allegoria, un chiaro messaggio anche per i
cristiani di oggi, in particolare per la nostra storia personale.
Anche
noi, come gli invitati della parabola, abbiamo sempre una buona, un’ottima giustificazione
per rifiutare il messaggio di Dio. “Ho poco tempo; lavoro tutto il giorno; devo
stare con i miei figli; mi piacerebbe tanto, ma proprio non posso!; prego già tanto
per conto mio!”. Ma la vera domanda da porci è: “Lo vogliamo o non vogliamo
questo Dio?”. Perché troppo spesso il “non posso” equivale più semplicemente ad
un “non ne ho voglia”.
Il
vangelo ci spiega quanto Dio fa per noi. Egli vuole amarci, perdonarci, starci
accanto, essere la nostra forza, non farci sentire soli, darci sostegno; in una
parola, farci felici: perché allora lo rifiutiamo? È come se uno venisse a
dirci: “Ti regalo cento milioni: eccoli, prendili!” e noi che facciamo? li rifiutiamo!
Ma perché? Perché siamo orgogliosi, perché pensiamo che sia tutto un inganno
(Dio, preti, chiesa ecc.) un falso; e noi non crediamo, non ci fidiamo!
Eppure,
quando Gesù parla di Dio, di suo Padre, ne parla apertamente come di un padre
misericordioso, dal cuore enorme, e ci riempie di esempi: è come un padre, che se
anche suo figlio gli sbatte la porta in faccia, e passa i giorni dissipando la
sua vita, tutti i suoi beni, lui comunque rispetta la sua libertà, attende fiducioso
e trepidante il suo ritorno, perché lo ama in maniera struggente.
Ma noi
non lo vogliamo capire: non vogliamo che Dio ci ami, che sia misericordioso con
noi. Preferiamo quasi che sia “cattivo”, che ci tratti male, che ci punisca,
che ci tiri pure delle sberle, ma che se ne stia per conto suo; non vogliamo
ammettere la sua bontà, perché farlo ci costerebbe troppo, comporterebbe una
rivoluzione totale della nostra vita. Vogliamo essere “liberi”, indipendenti, salvo
poi, nel momento del bisogno, nelle disgrazie, nelle malattie, essere noi a
pretendere da lui un sollecito aiuto, quasi ricattandolo, appellandoci al suo
immenso e indiscusso amore.
Dio è veramente
amore! Egli ci ama nonostante tutto. Allora perché rifiutarlo? Perché siamo
orgogliosi; perché non crediamo alla gratuità del suo amore; perché temiamo
ritorsioni; perché nel nostro delirio pensiamo che il suo amore unilaterale non
possa essere autentico; perché siamo impastati fin dalla nascita di sospetti,
di diffidenza; perché abbiamo innato un modo di vedere le cose completamente sballato.
Un esempio? Fin da bambini abbiamo imparato a nostre spese che l’amore si
conquista: soltanto eseguendo per bene la volontà di papà e mamma, infatti, il
bambino si sente amato. In caso contrario: “Sei cattivo; hai fatto arrabbiare
il papà!; non ti voglio più bene...”, e quindi urla, distanze fisiche ed
emotive, bronci, ecc. Cosa ci è rimasto di tutto questo? Primo, che sei amato
solo se fai quello che vogliono gli altri; secondo, che l’amore è sofferenza:
per guadagnarselo occorre faticare, rinunciare ai propri desideri, ai propri
progetti di vita. Il bambino poi, ormai adulto, è convinto che questo principio
valga anche nei confronti di Dio: il suo amore va conquistato; Dio ama soltanto
i meritevoli, quelli che soffrono, faticano, si impegnano, si sacrificano per
lui. Troppo difficile! E quando sente le parole del vangelo: “Dio ama
gratuitamente tutti, buoni e cattivi, vicini e lontani”, non ci crede: “Non è vero;
sono certo del contrario; so per esperienza che ogni amore va meritato: “Ecco,
vedi come sono diventato bravo, come sono praticante, come sono perfetto? Ora puoi
amarmi!”. Ma non è così. L’amore di Dio non si conquista, non si compra, non ha
un prezzo da pagare: è assolutamente gratuito; l’amore di Dio è puro dono.
Accettare
allora l’invito di Dio, indossare la veste nuziale, rivestirci degli
insegnamenti del vangelo, implica da parte nostra un abbandono totale in Lui, lasciare
che lui ci ami teneramente, intensamente, nonostante le nostre schifezze, i
nostri errori, il nostro marciume.
Noi abbiamo
di Dio un’opinione sbagliata: siamo portati a rappresentarcelo terribile, un nemico,
un giudice intransigente: un’idea che la stessa chiesa ci ha trasmesso per
anni. Ma dal vangelo risulta esattamente il contrario: Dio è venuto tra noi, si
è spogliato della sua divinità, ha indossato la nostra natura umana, e ci ha
amati fino a sacrificare la propria vita per noi, per il nostro bene, per la
nostra salvezza. E se vuole qualche minima cosa da noi, la vuole esclusivamente
per il nostro bene, perché ci ama visceralmente. I suoi inviti a seguirlo sono continue,
intense esortazioni d’amore, spesso accorate.
Abbiamo
poi sentito che di fronte al rifiuto degli invitati, degli eletti, il re ordina
ai suoi ministri di andare per le strade, in ogni angolo, e di chiamare tutti
alle nozze, buoni e cattivi, eleganti e straccioni”. Lo fa per amore: vuole
tutti con sé, li ama tutti, uno per uno, indistintamente.
Ma allora
come mai, quando questo re entra e vede uno sprovvisto di abito nuziale, ha una
reazione tanto feroce? Fa legare mani e piedi quel malcapitato e ordina che venga
buttato fuori dalla sala del banchetto, nelle tenebre e nel dolore. Ma non
aveva convocato anche gli “straccioni”? È il secondo scatto d’ira che Matteo
attribuisce a questo re. E lo fa volutamente. Perché, proiettando questa stessa
scena negli ultimi tempi, nell’eskaton,
Matteo vuol far capire ai suoi, che non è sufficiente essere “chiesa”, appartenere
ad una comunità di credenti, trovarsi tra i “chiamati”: ciò non offre alcuna
garanzia o diritto di rimanere nel “regno”; l’unica condizione è che tutti devono
indossare la “veste nuziale”: perché non indossarla equivale ad aver risposto
alla chiamata di Dio solo formalmente, perché così fanno tutti, per interesse, per
moda, senza alcun personale riscontro al grande dono d’amore fatto del re: significa
avere un cuore arido; significa aver alimentato l’odio, avere l’anima completamente
inadeguata all’offerta d’amore del re: in una parola significa non aver
indossato “l’uomo nuovo” del vangelo, trascurando la propria conversione.
L’uomo
“indegno” del vangelo è purtroppo in buona compagnia: quanti di noi infatti si
professano cristiani semplicemente perché battezzati, perché hanno accettato l’invito,
ma non si preoccupano di indossare la veste nuziale della coerenza e del
servizio! Facciamo bene attenzione, perché un giorno, alla chiamata finale, concluso
il “nostro tirocinio”, quando il re ci passerà in rassegna, ogni recriminazione
sarà tardiva, fuori tempo massimo: e capiremo da soli quanto siamo stati
stolti, quanto siamo stati ottusi nel non ascoltare i tantissimi inviti di Gesù,
i tantissimi suoi paterni suggerimenti. Ciò che ci capiterà allora non sarà per
caso, non sarà per colpa del “giusto giudice”, ma avremo la logica conseguenza
del nostro comportamento. Eravamo tra i chiamati, i fortunati, i privilegiati,
ma non è servito a nulla. Noi, e solo noi, abbiamo voluto così. Ognuno ottiene ciò
che meritano le sue scelte. Non è Dio che ci punirà; non è Dio che ci butterà
fuori dal “regno eterno”: siamo noi che, vivendo rifiutando il vangelo (l’abito
nuziale), ci siamo già fin d’ora buttati fuori da Dio. Non per niente Matteo molto
amaramente conclude: “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”. Amen.
«C’era un uomo che possedeva un
terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per
il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne
andò lontano».
C’è dunque un
padrone che decide di investire i suoi capitali in maniera proficua anche per
gli abitanti del luogo: “pianta una vigna, la circonda con una siepe, vi scava
il frantoio, vi costruisce la torre” e poi l’affida ai vignaioli, a quelli cioè
che l’avrebbero coltivata. La cura che il padrone mette nel costruire le
infrastrutture ci dimostra quanto egli amasse questo suo terreno, questa sua
vigna. Arrivato il tempo della maturazione, egli manda ovviamente “i suoi servi
dai contadini a ritirare il raccolto”. E fin qui tutto è nella normalità, tutto
secondo le regole e usanze dell’epoca.
Ma poi
succede l’imprevisto. Cosa fanno i vignaioli? Hanno una reazione furiosa,
furibonda, esplosiva: prendono i servi e “uno lo bastonano, uno lo uccidono,
uno lo lapidano”. Come mai tanta violenza? che colpa ne hanno questi “colleghi”
anch’essi servi dello stesso padrone? Erano semplicemente degli incaricati, dei
rappresentanti, dei messaggeri. Ma è proprio l’essere gli “inviati”, le persone
che in quel momento rappresentano il padrone, che fa scattare l’ira nei
vignaioli, con un continuo crescendo di violenza, cha va dalle bastonate alla
morte.
Ciò che
risalta immediatamente in questo susseguirsi di eventi è il comportamento
illogico, paradossale, sia dei contadini che del padrone. È assurda la reazione
dei vignaioli, perché avrebbero dovuto pensare alla inevitabile replica repressiva
del padrone. Ma è assurdo anche il comportamento del padrone che continua
impassibile, nonostante la violenza subita dai suoi rappresentanti, ad inviarne
continuamente di nuovi, non risparmiando, alla fine, nemmeno il suo stesso
figlio. È chiaro comunque che se il comportamento finale del padrone è dettato
dalla logica dell’amore: “Avranno rispetto di mio figlio!”, il comportamento
dei vignaioli è dettato ancor più dall’ostilità e dall’odio: “Uccidiamolo e
avremo noi l’eredità”. Un ragionamento da stupidi, perché non hanno tenuto in
alcun conto l’immediata e altrettanto violenta rappresaglia del padre, una
volta messo di fronte all’uccisione del figlio.
A
questo punto Gesù, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo presenti, pone
una domanda a risposta scontata: “Secondo voi, che cosa farà il padrone della
vigna a quei vignaioli”. E loro danno l’unica risposta ovvia: “li farà morire
miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini”, sottoscrivendo così
la loro condanna.
Sì,
perché è chiaro che il contenuto della parabola riguarda proprio loro, è
diretto a Israele e ai suoi capi. A noi i particolari non dicono molto, ma
tutti gli ebrei conoscevano perfettamente l’oracolo di Isaia (Is 5,1-7) che dice inequivocabilmente: “La
vigna del Signore degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda,
la sua piantagione preferita”. Israele era infatti l’orgoglio, il popolo
preferito, la vigna di Dio. E loro erano fieri di esserlo! Per cui chi doveva
capire, ha capito perfettamente: “I sommi sacerdoti e i farisei capirono che
parlava di loro” (Mt 21,43). E lo
capirono molto bene anche perché il testo della parabola affronta gli stessi
temi, usando le stesse parole, anticipati da Isaia: “siepe, frantoio, torre”.
La vigna è Israele; il padrone è Dio; i vignaioli sono i capi religiosi; i servi,
i profeti. Tutto è chiaro.
Dio (il
padrone) ha amato il suo popolo (la vigna) ma questo hai rinnegato il suo amore
e i suoi messaggi d’amore (i profeti): Isaia, Geremia, Ezechiele, e tutti i
profeti, non sono stati ascoltati. Erano dei messaggeri che richiamavano
Israele a convertirsi, a ritornare sulla retta strada, ma non furono ascoltati.
Anzi, spesso furono veramente uccisi o lapidati.
E il
figlio? Il figlio, è evidente, è Gesù. Dio manda ciò che ha di più caro, di più
prezioso: suo figlio. Come a dire: “Più di così, cosa posso fare per voi? Cosa
posso dirvi di più perché possiate cambiare?”. Più di così Dio non può niente:
Dio le tenta tutte, ma tutto è inutile, quando uno non vuol capire. E sono loro
stessi ad autocondannarsi: il padrone “farà morire miseramente quei malvagi e
darà ad altri la vigna”. E sarà proprio così: sarà loro tolto il regno di Dio e
sarà dato ad altri (ai pagani, alla Chiesa) e la pietra (Gesù) che voi avete
scartato, ucciso fuori da Gerusalemme (“fuori dalla vigna”) sarà invece la
pietra d’angolo, la pietra su cui poggerà l’intera nuova costruzione.
In
pratica cosa ci dice questo vangelo? Che ciò che “non serve”, ciò che ha perso
la sua autenticità, la sua “caratura” originale, viene inesorabilmente “scartato”,
accantonato, superato. Il popolo d’Israele non è stato fedele a Dio ed è stato “sostituito”
dal cristianesimo. Oggi però anche la Chiesa di Cristo sta attraversando un
momento difficile, sta gradualmente scomparendo dalle nostre nazioni, dalle
nostre città come pure da gran parte del mondo. Possiamo certo attribuire la
colpa a fattori esterni (consumismo, individualismo, relativismo, demoralizzazione,
ecc.) ma questo non ci giustifica: il vero motivo va invece ricercato al suo
interno, nella perdita dei valori cristiani da parte dei cattolici. La storia
ci insegna che quando Cristo e il suo Vangelo non è più vitale, significativo, fondamentale
per una comunità, questa è destinata nel tempo a scomparire dalla scena
religiosa, sociale, culturale. È stato così per Israele, è stato così per molte
comunità cristiane dei primi secoli; e sarà così anche per molte comunità
cristiane della nostra Europa, che di Cristo hanno conservato solo la radice nel
nome.
A
questo punto cosa dobbiamo fare? Il padrone fa sempre bene la sua parte:
pianta, circonda, scava, costruisce, affida: è la cura, l’interessamento, l’amore
di Dio. Gesù ce lo dice chiaramente: “Vi ho guariti, vi ho fatto resuscitare, vi
ho sfamati, perdonati, illuminati; vi ho provato quanto perdutamente vi amo;
cos’altro dovevo fare?”. E noi? Praticamente continuiamo a comportarci come i
vignaioli: “Abbiamo visto i tuoi miracoli, ma i nostri occhi non ti hanno
riconosciuto; abbiamo visto la tua vita ma la nostra vita non è cambiata, né si
è convertita; abbiamo sentito le tue parole ma il nostro cuore non si è
lasciato contagiare; abbiamo sperimentato le tue guarigioni, ma la nostra mente
si è chiusa in discussioni teologiche per ucciderti ed eliminarti finché eri
sulla terra, perché ci facevi troppa paura. Cos’altro dovevi fare, Gesù? Cos’altro
dovevi dimostrare? È chiaro che il problema non sei tu, ma siamo noi, è il
nostro cuore!
Noi
non vediamo le migliaia di gesti d’amore che le persone ci fanno in tuo nome; non
vediamo la bontà che c’è attorno a noi; non apprezziamo chi ci aiuta e ci
sostiene; non vediamo la bellezza che ci circonda e che ci illumina ogni
mattina quando apriamo gli occhi; non vediamo la vita e l’amore che pulsa
attorno a noi e che potrebbe stupire e rallegrare la nostra vita: ma continuiamo a recriminare, a prendercela
con te, lamentandoci per quello che ci manca e che non abbiamo.
Ascoltiamo
umilmente i messaggi che ci arrivano dalla vita. Noi infatti possiamo leggere
questo vangelo anche in chiave personale: la vigna è la vita, è l’esistenza: ed
è una vigna bellissima, meravigliosa! Il padrone, Dio, molto generosamente, ce
l’ha concessa gratuitamente in gestione; ci ha detto: “Attento che la vigna, la
vita, non è tua. Non essere così stupido da pensare il contrario. È solo un
dono. Lavoraci, usala bene, falla fruttificare, e soprattutto godi dei suoi
frutti. Ma ricorda: non è tua, è mia”. E poiché di tanto in tanto si accorge
che sbandiamo, che “usciamo” di strada, dal seminato, ci manda un preciso messaggio:
“Attento, così non va! Se vivi così, muori dentro, rovini le relazioni, lasci
morire il tuo cuore, la tua anima, ecc.”. E noi che facciamo? Ce ne infischiamo
allegramente dei suoi messaggi e continuiamo a vivere come prima.
Ma Dio
non desiste: ci manda un altro messaggio, un altro ancora, e poi tanti altri:
gli sta troppo a cuore che la “nostra” vigna sia rigogliosa, non vuole perderla;
ma noi ce la ridiamo, ci disinteressiamo, spensieratamente. Fino a quando, ci
dice il Vangelo, arriva il momento in cui è troppo tardi: i “vignaioli” si sono
talmente rinchiusi nelle loro idee, nella loro presunzione, nella loro
cattiveria, da diventare insensibili a tutto; a questo punto nessuno può fare
più niente per loro, neppure lo stesso suo Figlio, Gesù.
Quando
leggiamo questa parabola ci viene senz’altro spontaneo esclamare: “Ma come
hanno fatto quegli idioti a non capire? Come potevano pensare di farla franca,
evitando qualunque reazione?”. Ebbene: quei vignaioli che si comportano così
apertamente da stolti, da insensati, da sprovveduti, siamo proprio noi.
Dio con
noi è sempre buono: ci manda dei messaggi (angelo,
in greco significa messaggio), ci
manda cioè degli angeli, dei
consiglieri, delle guide, dei santi, che ci indicano la via, la condotta da
seguire. Dio non ci costringe, non ci forza, non ci toglie la libertà. Ci
invita, ma mai ci obbliga. I messaggi di Dio sono come una chiamata al telefono:
squilla, ma per sapere cosa vuol dirci chi chiama, dobbiamo alzare il
ricevitore! Altrimenti suona a vuoto, per nulla!
La vita
è piena di messaggi... dobbiamo semplicemente alzare il ricevitore! Certo non c’è
un manuale di decodifica: ogni messaggio è unico, ognuno lo sente in base al
suo vissuto. Ma Dio, la Vita, ci parla sempre: ci “in-vita” ogni giorno
all’amore, ci istruisce con dei piccoli-grandi annunci. Perciò qualunque cosa ci
accada, dobbiamo sempre chiederci: “Cosa mi vuol dire Dio questa volta? Cosa
devo ancora imparare?”. In questo modo ogni giornata che passa, diventa per noi
una lezione di vita; e finché vivremo, continueremo a formarci, a imparare.
Non c’è
maestro più grande della Vita per chi l’ascolta: è solo “vivendo la Vita” che
impareremo a vivere. Ma per chi non ascolta, per chi non accetta questa scuola,
l’esistenza diventa un peregrinare stupido, insignificante, senza senso e a
volte estremamente doloroso. Più che un amico, la vita è un nemico da cui
difendersi.
Dobbiamo
capire dunque che Dio è sempre presente in ogni momento della vita. Niente
succede all’infuori di Lui, a sua insaputa. Lui c’è sempre in ogni fatto che ci
riguarda, in ogni evento, in ogni malattia, in ogni situazione. Tutto ci parla
di Lui: pertanto, ciò che conta, è rimanere costantemente aperti, attenti,
vigili; e se qualcosa non la capiamo subito, non accantoniamola, non dimentichiamola,
non buttiamola, ma teniamola lì, in evidenza. A suo modo e a suo tempo anche
quel qualcosa ci parlerà. L’importante, ripeto, è assicurare sempre ai nostri angeli la giusta e dovuta attenzione.
C’è una
storiella che rende bene l’idea: durante una grande inondazione, l’acqua aveva
raggiunto il primo piano di una casa: il proprietario si rifugiò sul tetto. Arrivò
la protezione civile su di una barca per portarlo in salvo. Ma l’uomo disse: “Dio
mi ha detto: in ogni situazione io ti salverò”. E non ci fu verso di farlo scendere.
L’acqua arrivò al tetto e di nuovo la protezione civile venne per prenderlo. “Dio
mi salverà”, gridò ancora. L’acqua gli arrivò al collo. Venne nuovamente la
barca di salvataggio, ma lui fu irremovibile. La conclusione? Morì affogato.
Quando si presentò davanti a Dio, l’uomo indispettito si lamentò a gran voce con
Lui: “Ma come! Tu mi avevi detto di non preoccuparmi! Che qualunque cosa mi
fosse capitata tu mi avresti salvato: invece eccomi qui!”. E Dio gli rispose: “Amico,
io l’ho fatto: ti ho mandato ben tre barche per salvarti!!!”. Chiaro? Non diamo
la colpa a Dio della nostra ottusità! Amen.