Per capire bene cosa vuol dirci il testo evangelico di oggi, dobbiamo tener presente che in genere ogni evangelista, nel descrivere vita e insegnamenti di Gesù, insiste soprattutto in quei particolari “teologici” che egli ritiene più significativi per la propria comunità: ogni comunità, ogni ambiente, viveva infatti il messaggio cristiano in situazioni e con necessità molto diverse tra loro. Questo discorso vale in maniera particolare, per la pagina di Matteo che la liturgia ci propone in questa domenica. La parabola di oggi infatti è una potente allegoria. C’è all’origine un messaggio di Gesù, che Matteo elabora, per trasmettere alla sua comunità un segnale particolarmente chiaro e importante. È la stessa parabola che troviamo anche in Luca (14,16-24), come pure nel vangelo apocrifo di Tommaso, ma decisamente con toni molto diversi, meno accesi e categorici: l’uomo di Luca, per esempio, in Matteo diventa un re (la figura del re richiama il giudizio finale alla fine dei tempi); la grande cena del primo diventa nel secondo un banchetto di nozze per il figlio del re (il Figlio, per Matteo, è Gesù e la grande cena diventa il giudizio per tutti quelli che hanno accolto il suo messaggio); Luca manda un solo servo per invitare le persone, mentre Matteo ne manda molti e a più riprese (più volte Israele ha avuto messaggeri di Dio, ma invano). In Luca gli invitati si giustificano a parole, mentre in Matteo arrivano a malmenare e uccidere i servi del re. A questo punto ci si chiede: perché sottolineare tanta intransigenza? Che senso ha specificare che gli invitati, non solo rifiutano l’invito a nozze, ma picchiano e uccidono addirittura quelli che li invitano? In Luca, visto che i primi invitati rifiutano, il padrone allarga semplicemente il suo invito ad altri; ma in Matteo c’è un’ira terribile del re che, prima ancora di sedere a cena (già pronta!), spedisce la sua guardia del corpo per uccidere quegli assassini e per bruciare la loro città. E ripeto: che senso ha compiere tutto questo immediatamente, prima di cena? Ovviamente nessuno: ma Matteo lo fa, perché vuole riferirsi proprio alla storia di Israele, vuole identificare nei messaggeri del re i profeti e Gesù stesso: loro erano stati mandati da Dio e hanno fatto esattamente quella fine. La punizione doveva essere immediata, prima del ritorno del re nella “sala delle nozze”. Con quali conseguenze? La città degli invitati “assassini”, Gerusalemme, la città simbolo, deve pagare per i misfatti del popolo giudeo: l’allusione alla sua totale distruzione nel 70 d.C. per mano dei Romani, è evidente. La comunità di Matteo, formata appunto da cristiani provenienti dal giudaismo, deve essere consapevole di tutto questo, deve capire il significato profondo, la portata vitale della loro chiamata, della loro adesione al vangelo.
Il pratica il messaggio di Gesù è questo: “Vi ho fatto un invito e voi non l’avete accolto”. Egli è stato rifiutato dai sapienti, dai religiosi, dagli uomini del Tempio, da quelli cioè che già “avevano Dio”, il loro Dio; la loro immagine di Dio, era talmente radicata e fissa, che non sono riusciti a cambiarla. Allora Gesù si è rivolto ad altri: pubblicani, lontani, donne, eretici, senza-Dio, e loro lo hanno accolto.
Non è difficile leggere in questa allegoria, un chiaro messaggio anche per i cristiani di oggi, in particolare per la nostra storia personale.
Anche noi, come gli invitati della parabola, abbiamo sempre una buona, un’ottima giustificazione per rifiutare il messaggio di Dio. “Ho poco tempo; lavoro tutto il giorno; devo stare con i miei figli; mi piacerebbe tanto, ma proprio non posso!; prego già tanto per conto mio!”. Ma la vera domanda da porci è: “Lo vogliamo o non vogliamo questo Dio?”. Perché troppo spesso il “non posso” equivale più semplicemente ad un “non ne ho voglia”.
Il vangelo ci spiega quanto Dio fa per noi. Egli vuole amarci, perdonarci, starci accanto, essere la nostra forza, non farci sentire soli, darci sostegno; in una parola, farci felici: perché allora lo rifiutiamo? È come se uno venisse a dirci: “Ti regalo cento milioni: eccoli, prendili!” e noi che facciamo? li rifiutiamo! Ma perché? Perché siamo orgogliosi, perché pensiamo che sia tutto un inganno (Dio, preti, chiesa ecc.) un falso; e noi non crediamo, non ci fidiamo!
Eppure, quando Gesù parla di Dio, di suo Padre, ne parla apertamente come di un padre misericordioso, dal cuore enorme, e ci riempie di esempi: è come un padre, che se anche suo figlio gli sbatte la porta in faccia, e passa i giorni dissipando la sua vita, tutti i suoi beni, lui comunque rispetta la sua libertà, attende fiducioso e trepidante il suo ritorno, perché lo ama in maniera struggente.
Ma noi non lo vogliamo capire: non vogliamo che Dio ci ami, che sia misericordioso con noi. Preferiamo quasi che sia “cattivo”, che ci tratti male, che ci punisca, che ci tiri pure delle sberle, ma che se ne stia per conto suo; non vogliamo ammettere la sua bontà, perché farlo ci costerebbe troppo, comporterebbe una rivoluzione totale della nostra vita. Vogliamo essere “liberi”, indipendenti, salvo poi, nel momento del bisogno, nelle disgrazie, nelle malattie, essere noi a pretendere da lui un sollecito aiuto, quasi ricattandolo, appellandoci al suo immenso e indiscusso amore.
Dio è veramente amore! Egli ci ama nonostante tutto. Allora perché rifiutarlo? Perché siamo orgogliosi; perché non crediamo alla gratuità del suo amore; perché temiamo ritorsioni; perché nel nostro delirio pensiamo che il suo amore unilaterale non possa essere autentico; perché siamo impastati fin dalla nascita di sospetti, di diffidenza; perché abbiamo innato un modo di vedere le cose completamente sballato. Un esempio? Fin da bambini abbiamo imparato a nostre spese che l’amore si conquista: soltanto eseguendo per bene la volontà di papà e mamma, infatti, il bambino si sente amato. In caso contrario: “Sei cattivo; hai fatto arrabbiare il papà!; non ti voglio più bene...”, e quindi urla, distanze fisiche ed emotive, bronci, ecc. Cosa ci è rimasto di tutto questo? Primo, che sei amato solo se fai quello che vogliono gli altri; secondo, che l’amore è sofferenza: per guadagnarselo occorre faticare, rinunciare ai propri desideri, ai propri progetti di vita. Il bambino poi, ormai adulto, è convinto che questo principio valga anche nei confronti di Dio: il suo amore va conquistato; Dio ama soltanto i meritevoli, quelli che soffrono, faticano, si impegnano, si sacrificano per lui. Troppo difficile! E quando sente le parole del vangelo: “Dio ama gratuitamente tutti, buoni e cattivi, vicini e lontani”, non ci crede: “Non è vero; sono certo del contrario; so per esperienza che ogni amore va meritato: “Ecco, vedi come sono diventato bravo, come sono praticante, come sono perfetto? Ora puoi amarmi!”. Ma non è così. L’amore di Dio non si conquista, non si compra, non ha un prezzo da pagare: è assolutamente gratuito; l’amore di Dio è puro dono.
Accettare allora l’invito di Dio, indossare la veste nuziale, rivestirci degli insegnamenti del vangelo, implica da parte nostra un abbandono totale in Lui, lasciare che lui ci ami teneramente, intensamente, nonostante le nostre schifezze, i nostri errori, il nostro marciume.
Noi abbiamo di Dio un’opinione sbagliata: siamo portati a rappresentarcelo terribile, un nemico, un giudice intransigente: un’idea che la stessa chiesa ci ha trasmesso per anni. Ma dal vangelo risulta esattamente il contrario: Dio è venuto tra noi, si è spogliato della sua divinità, ha indossato la nostra natura umana, e ci ha amati fino a sacrificare la propria vita per noi, per il nostro bene, per la nostra salvezza. E se vuole qualche minima cosa da noi, la vuole esclusivamente per il nostro bene, perché ci ama visceralmente. I suoi inviti a seguirlo sono continue, intense esortazioni d’amore, spesso accorate.
Abbiamo poi sentito che di fronte al rifiuto degli invitati, degli eletti, il re ordina ai suoi ministri di andare per le strade, in ogni angolo, e di chiamare tutti alle nozze, buoni e cattivi, eleganti e straccioni”. Lo fa per amore: vuole tutti con sé, li ama tutti, uno per uno, indistintamente.
Ma allora come mai, quando questo re entra e vede uno sprovvisto di abito nuziale, ha una reazione tanto feroce? Fa legare mani e piedi quel malcapitato e ordina che venga buttato fuori dalla sala del banchetto, nelle tenebre e nel dolore. Ma non aveva convocato anche gli “straccioni”? È il secondo scatto d’ira che Matteo attribuisce a questo re. E lo fa volutamente. Perché, proiettando questa stessa scena negli ultimi tempi, nell’eskaton, Matteo vuol far capire ai suoi, che non è sufficiente essere “chiesa”, appartenere ad una comunità di credenti, trovarsi tra i “chiamati”: ciò non offre alcuna garanzia o diritto di rimanere nel “regno”; l’unica condizione è che tutti devono indossare la “veste nuziale”: perché non indossarla equivale ad aver risposto alla chiamata di Dio solo formalmente, perché così fanno tutti, per interesse, per moda, senza alcun personale riscontro al grande dono d’amore fatto del re: significa avere un cuore arido; significa aver alimentato l’odio, avere l’anima completamente inadeguata all’offerta d’amore del re: in una parola significa non aver indossato “l’uomo nuovo” del vangelo, trascurando la propria conversione.
L’uomo “indegno” del vangelo è purtroppo in buona compagnia: quanti di noi infatti si professano cristiani semplicemente perché battezzati, perché hanno accettato l’invito, ma non si preoccupano di indossare la veste nuziale della coerenza e del servizio! Facciamo bene attenzione, perché un giorno, alla chiamata finale, concluso il “nostro tirocinio”, quando il re ci passerà in rassegna, ogni recriminazione sarà tardiva, fuori tempo massimo: e capiremo da soli quanto siamo stati stolti, quanto siamo stati ottusi nel non ascoltare i tantissimi inviti di Gesù, i tantissimi suoi paterni suggerimenti. Ciò che ci capiterà allora non sarà per caso, non sarà per colpa del “giusto giudice”, ma avremo la logica conseguenza del nostro comportamento. Eravamo tra i chiamati, i fortunati, i privilegiati, ma non è servito a nulla. Noi, e solo noi, abbiamo voluto così. Ognuno ottiene ciò che meritano le sue scelte. Non è Dio che ci punirà; non è Dio che ci butterà fuori dal “regno eterno”: siamo noi che, vivendo rifiutando il vangelo (l’abito nuziale), ci siamo già fin d’ora buttati fuori da Dio. Non per niente Matteo molto amaramente conclude: “molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti”. Amen.
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