È chiaro che tutto ciò che ruota intorno al tempio di Gerusalemme, non rientra nelle simpatie di Gesù. I personaggi del culto, gli scribi, i farisei, gli anziani del popolo, se ne approfittano per compiere liberamente i loro loschi affari. Questa élite, più volte pubblicamente redarguita da Gesù, indicata come meno degna dei pubblicani e delle prostitute, lo ritiene ormai come il suo più acerrimo nemico da combattere: Gesù è un uomo pericoloso, uno che deve essere fermato ad ogni costo, poiché non solo non rispetta le istituzioni religiose, ma addirittura le scredita apertamente! Pertanto i farisei si riuniscono per decidere il da farsi: “tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Ormai è guerra aperta. Riescono a coinvolgere nelle loro trame anche gli erodiani, che è tutto dire: i farisei odiavano gli erodiani, li consideravano una feccia schifosa da sterminare; però pur di coronare i loro perversi progetti si abbassano a chiedere la loro collaborazione. Gesù è il nemico comune, e “chiunque odia il mio nemico, diventa mio amico”!
Essi dunque mandano una loro rappresentanza, con un discorsetto già preparato a tavolino: ed iniziano con un elogio esagerato, falso, volutamente adulatorio, un incensamento ostentato: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia nessuno”. Ma Gesù non si scompone, li conosce molto bene, e con calma si rivolge loro: “Perché mi tentate?”. Li paragona apertamente a satana, il tentatore: usa infatti le stesse parole che ritroviamo nel racconto delle tentazioni. Finiti i convenevoli, scoprono immediatamente le loro carte: vogliono che Gesù si esprima apertamente su un argomento molto spinoso: “Dì a noi: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. Che praticamente vuol dire: “Devi dirci, qui e ora, ciò che pensi degli invasori romani”. La trappola è ben congegnata, poiché qualunque risposta egli darà, gli si ritorcerà contro; infatti, dicendo “sì”, si dichiara favorevole al pagamento delle tasse, e quindi, riconoscendo l’invasore come “signore” del popolo, incorre nel reato di infedeltà verso Dio, l’unico “Signore” che gli ebrei devono riconoscere e servire (Dt 6,4-13); se invece dice “no” al pagamento delle tasse, si mette automaticamente contro l’autorità romana, decretando personalmente la propria fine, veloce e sicura.
Gesù dunque è incastrato. Se accetta di esprimere un suo parere, ogni risposta è perdente. Deve necessariamente capovolgere la situazione. E lo fa signorilmente: ignora la provocazione e sposta i termini del discorso su un altro piano, facendo a sua volta una richiesta: se essi accettano, egli esprimerà il suo pensiero su quanto gli era stato chiesto: “Mostratemi la moneta del tributo”. Si trattava di una moneta particolare, coniata dai Romani in argento, con incisa l’immagine dell’imperatore e una dicitura che ne decretava la sua “divinità”. Praticamente il simbolo del potere dominante: dove arrivavano quelle monete, lì arrivava il potere di Roma, il dominio dell’imperatore. Gliela mostrano e Gesù: “Di chi è questa immagine e l’iscrizione?”. Gli rispondono: “Di Cesare”. E Lui: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. Cosa vuol dire? Prima di tutto che le tasse vanno pagate, certo: le monete di Cesare devono essere restituite al loro padrone. Ma la risposta non si esaurisce qui: “Rendete a Dio quello che è di Dio”. I doveri sono due: uno nei confronti del potere politico, l’altro, molto più profondo e mirato, nei confronti di Dio. In sostanza Gesù non perde l’occasione per richiamare all’ordine i suoi nemici. In pratica, piuttosto risentito, esclama: “Cari farisei, voi che vi date tanto da fare col popolo, voi che siete la classe dirigente del sacro, che vivete all’ombra del tempio, dovete restituire a Dio il popolo che gli appartiene, quel popolo che Lui ha scelto, che Lui ha riscattato, e che ha temporaneamente affidato alla vostra guida. Voi però cercate di impadronirvi di esso, di indurlo in errore con regole false, con le vostre ideologie. Cercate di attirarlo a voi predicando un Dio, che non è il vero Dio. Subordinate Dio alle vostre teorie, al vostro pensiero, ai vostri personali vantaggi e riconoscimenti, e questo è un terribile oltraggio nei suoi confronti: il popolo è suo, vostro dovere è di ricondurlo a Lui”. Parole crude che, come tutto il Vangelo, sono sempre di grande attualità.
Il racconto ci offre pertanto due spunti di meditazione distinti, costituiti dalla domanda e dalla risposta di Gesù. Scendiamo più nel particolare.
Primo spunto, la domanda: “Di chi è quest’immagine?”. L’immagine richiama la persona, esprime ciò che gli appartiene: quella di Cesare stabilisce che la moneta viene da lui e gli appartiene. Ma a noi deve interessare soprattutto un’altra immagine: nella Bibbia infatti sta scritto che l’uomo è stato creato a “immagine e somiglianza di Dio” (Gn 1,26): noi quindi apparteniamo a Lui, siamo sua proprietà. Dimenticare, perdere, trascurare questa nostra autentica e indelebile appartenenza a Dio Vita, significa vivere una non vita, significa cadere in un dramma incalcolabile. Infatti, qualunque nostro attaccamento, qualunque legame ad altre realtà che non siano Dio, a persone, a cose, al mondo intero, svilisce, deturpa la nostra somiglianza divina, ci rende schiavi, dipendenti e prigionieri: non saremo mai completamente liberi, tremendamente liberi, come prima. Dobbiamo pensare più spesso alla nostra somiglianza con Dio. Ci capita mai guardando il cielo stellato, di ammirare la meraviglia di tutti quei punti luminosi, di pensare che è da lì che noi veniamo, di sentirci quasi in comunione con tutte quelle luci, di provare una certa nostalgia di casa, la nostalgia di cose grandi, immense? O siamo morti dentro? Ci capita mai, in certi giorni, di veder riflettere il sole, la luce, nel volto e negli occhi delle persone amate? Ci succede mai di essere pieni, quasi gonfi, di una inspiegabile felicità? Ecco, è in quei momenti che possiamo sentire chiaramente il vero motivo per cui siamo nati, da dove veniamo, chi è la nostra vera madre (la Vita) e chi è il nostre vero padre (l’Altissimo).
Non dimentichiamo mai chi siamo veramente: la più grande tragedia che ci possa capitare è salire sul palco della vita, recitare la nostra parte, e dimenticarci la maschera addosso quando abbiamo finito e usciamo di scena. È importante ripeterci continuamente, nel nostro cuore, nella nostra anima: “Io sono di Dio, appartengo solo a Lui, sono suo figlio, e un giorno tornerò a Lui!”
Secondo spunto, la risposta di Gesù: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. Certamente nel dare questa risposta, Gesù alludeva anche all’aspetto politico: “Dai a Cesare, allo Stato, quello che è di Cesare e dello Stato”: è nostro dovere pagare le tasse; non possiamo essere uomini di fede se evadiamo il fisco, se imbrogliamo la gente, se sfruttiamo i nostri dipendenti, se noi accumuliamo, mentre gli altri muoiono di fame, se creiamo lobby di potere. Oggi si fa tanto parlare di comunione negata ai divorziati: di contro, nessuno dei tanti “alti papaveri” della teologia si è mai posto il problema per quelli che “si sono mangiati” i risparmi di una vita di onesti lavoratori, per quelli che fanno fallire le aziende per interessi personali, per quelli che colludono con la mafia a beneficio della propria ascesa al potere, per quelli che si portano a casa milioni di euro in tangenti alla faccia dei contribuenti. Tutta gente che liberamente, pubblicamente e tranquillamente può accostarsi alla comunione.
Ma la risposta di Gesù contiene un’altra verità, altrettanto essenziale, una verità più universale: oltre che a Cesare e a Dio, noi dobbiamo cioè restituire alle persone, alla natura, alle cose che ci circondano, ciò che è loro, che appartiene loro: valore, importanza, dignità. Tutto e tutti hanno le loro qualità: sta a noi riconoscerle, apprezzarle, restituirle: il verbo greco apo-didomi, significa appunto “restituire, rendere a qualcuno ciò che gli spetta, che gli appartiene, che gli è dovuto”. Tra i doni che Dio ci ha concesso in uso, ai quali dobbiamo riconoscere massimo rispetto e cura, ce n’è uno che è il più prezioso in assoluto: la nostra vita! Più gli scienziati studiano l’uomo e più dicono: “Siamo un miracolo!”. Dio ci dona ogni giorno la cosa più grande di questo mondo: il poter dire: “Sono vivo”.
Purtroppo per molte persone è un dono così comune, così scontato, che non lo apprezzano, non sanno che farsene di questa vita e di questo tempo che hanno a disposizione, e continuano a lamentarsi con Dio di questo e di quello. Ma noi dobbiamo riconoscere e onorare questo dono gratuito che è la vita: la vita non ci è “dovuta”, è un dono; e verrà un giorno in cui dovremo riconsegnare nelle sue mani questo dono. Finita questa vita non ne abbiamo un’altra di scorta, in cui poter rimediare al tempo perso. Quello che non facciamo oggi non lo potremo fare mai più.
Viviamola dunque seriamente questa nostra vita, viviamola con intensità, pienamente: disponiamo di questa sola per amare, per provare, per sentire, per realizzare la nostra missione, per diventare ciò che dobbiamo essere: immagine del Padre.
Non lasciamoci condizionare dalla paura di sbagliare, dal giudizio della gente, dell’autorità, da tutte quelle paure che ci impediscono di vivere. Siamo positivi, entusiasti: chiudiamo gli occhi, e nel silenzio ripetiamoci: “Voglio vivere: voglio sentire l’odore dei prati, della natura in fiore, il profumo della pelle di chi amo; voglio provare il gusto del cibo, dei frutti della terra; voglio entusiasmarmi, correre, rotolarmi sull’erba, ridere a crepapelle, giocare, accarezzare e abbracciare; voglio piangere quando sto male, sentire e condividere il dolore della gente, commuovermi per la gioia; voglio inseguire un sogno, lottare per un mondo migliore e sentire che questo mio tempo non sta passando invano, che ha un senso meraviglioso per me e per il mondo. Sì, voglio vivere!”. Se arriveremo a tanto, potremo restituire a Dio questa nostra vita “da vivi”: quando moriremo, saremo ancora in vita. Dio ci ha consegnato la vita, noi gli riconsegneremo la vita, in tutta la sua bellezza: non la morte dei rinunciatari, di coloro che si sono spenti per strada, senza provare, senza sognare, senza combattere.
La gente impreca e si lamenta quando le cose finiscono; ma non sa ringraziare e viverle quando ci sono. Non capisce che all’amore si risponde con l’amore: per amore riceviamo, per amore dobbiamo restituire. Amen.
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