«Dio ha tanto amato il mondo da
dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma
abbia la vita eterna» (Gv 3,16-18).
Oggi è
la festa della Trinità. Ma cos’è la Trinità? Cosa vuol dire che Dio è Padre, Figlio
e Spirito Santo? Cerchiamo a grandi linee di conoscere questi tre aspetti di
Dio.
Dio è Padre,
ed è in cielo: lo abbiamo conosciuto attraverso suo figlio; abbiamo cioè capito
che Gesù ha un Padre, perché parla spesso con Lui, si rivolge a Lui
amorevolmente; è un Padre che è sempre presente nella sua vita, anche se talvolta
assente: per esempio lo ha riconosciuto esplicitamente in varie teofanie, ma poi
non è intervenuto a salvarlo dal supplizio della croce, nonostante egli lo
avesse pregato intensamente. Un Padre che è anche nostro Padre, pur non correndo
sempre a risolvere immediatamente i nostri problemi. Egli sa veramente ciò di
cui abbiamo bisogno: i suoi disegni sono diversi dai nostri; ma è Lui che dobbiamo
pregare, come Gesù stesso ci ha raccomandato e insegnato: è insomma un Padre vicinissimo
anche se può apparire talvolta lontano; è quaggiù e lassù, al di fuori del
tempo e dello spazio.
Dio è
Figlio, è il Dio che si è fatto uomo in Gesù, accettando in tutto la nostra
condizione umana su questa terra. Gesù Cristo è il Dio che si incarna nel tempo
e nello spazio della storia, che prende forma, umanità, visibilità. Gli
apostoli e i primi cristiani lo hanno conosciuto di persona: hanno sentito le
sue parole, hanno ascoltato le sue parabole, hanno visto i suoi miracoli, hanno
toccato con mano la sua forza, la sua passione, la sua verità e non hanno avuto
dubbi: “È veramente il Figlio di Dio”. E infine la sua resurrezione dai morti ne
ha dato ampia conferma: poi però, dopo essere apparso per confortarli, se ne
va.
Lo
Spirito è invece il Dio che sarà sempre presente tra noi. I primi cristiani, subito
dopo la partenza di Gesù da questo mondo, lo hanno sperimentato – e anche noi
continuiamo a sperimentarlo - in una maniera nuova, difficile da capire e da
comprendere; Gesù è sempre presente dentro di noi come Spirito, come energia,
fuoco, ardore, speranza, lotta, fiducia. Il Dio Amore che lega
indissolubilmente Padre e Figlio, continua a vivere in noi, come in ogni
creatura.
Ebbene,
queste esperienze di Dio, vissute dagli apostoli e dai primi cristiani, diviene
nel corso degli anni il dogma della Trinità: l’Unico Dio, cioè, vive in Tre
persone, distinte, diverse, ma non separate; è sempre lo stesso Dio, che vive e
che è presente in modalità diverse, Uno e Trino.
Ogni
volta che noi ci facciamo il segno della croce non facciamo nient’altro che
invocare questo dogma, questa verità di fede: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Questa
è dunque la grande verità: Dio è Famiglia, è più persone. Le tre persone della
Trinità sono in un continuo dono reciproco d’amore, in una continua “relazione”
fra di loro. Una relazione che caratterizza il loro essere, la loro essenza: non
esiste l’una senza l’altra.
Sant’Agostino
nel suo De Trinitate definisce così
la Trinità: il Padre è l’Amans, il
Figlio è l’Amatus e lo Spirito Santo
è l’Amor. C’è insomma un Dio che fa
il “Padre”, l’amans, l’amante, colui
che dona. C’è un Dio che è donato, il “Figlio”, l’amatus, il dono. E c’è l’amor,
lo “Spirito”, la relazione d’amore che li lega insieme.
Dio quindi
è Relazione, è rapporto, è connessione, è unione: «Dio ha tanto amato (gapw) il mondo, da donare (d°dwmi) il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).
La
festa della Trinità ci fa capire che tra due persone, fra me e te, quello che conta
di più, quello che è più importante, non sono né io né tu, ma è la relazione che
intercorre fra di noi. Non siamo cioè noi, presi individualmente, che rendiamo
felice l’unione tra due persone, non sono le nostre qualità personali, ma è la
qualità del nostro rapporto, è il “come” ci relazioniamo.
La
maggior parte delle persone pensa, ad esempio, che la felicità coniugale dipenda
dal trovare o meno la “persona giusta” con cui condividere la propria esistenza.
Condiziona cioè il raggiungimento della felicità di una vita, all’incontro con
uno che detenga un “pacchetto magico della felicità” già pronto e confezionato.
Ma il principe azzurro non esiste, è un personaggio delle favole. Non possiamo demandare
ad altri la responsabilità di farci vivere felici. È un traguardo che va
costruito insieme: perché ciò che rende una vita meravigliosa non sono gli
altri, per quanto buoni siano, ma è la qualità delle relazioni che noi instauriamo
con loro. Pensiamo infatti solo per un attimo: cosa succederebbe se in una relazione
noi non sapessimo “dare”? Succederebbe che l’altro, prima o poi, si stancherebbe
di aspettare. E così di seguito: se in una relazione noi non sappiamo ricevere,
l’altro non si sentirà mai importante. Se noi non stimiamo l’altro, l’altro si
sentirà umiliato. Se non stimiamo noi stessi, costringeremo l’altro a farci
sempre da mamma, a incoraggiarci, a dirci che ne abbiamo le capacità, che ce la
possiamo fare. Se non vogliamo crescere, l’altro si sentirà imprigionato. Se vogliamo
che le cose rimangano sempre uguali, l’altro si sentirà morire. Se siamo convinti
di non valere, di essere inadeguati a tutto, ci attaccheremo morbosamente all’altro.
Se non siamo mai ottimisti, vitali, gioiosi, divertenti, finiremo per contagiare
l’altro con la nostra negatività, rendendo la relazione pesante e invivibile.
Dio è
relazione. Dio è l’Amore. Il nostro amore deve essere pertanto “relazione”. L’amore
è un movimento circolare continuo, una compenetrazione (pericoresi trinitaria) di due persone che si danno e che si
ricevono, che si donano e che si accolgono. L’amore è quell’intervallo di
spazio che esiste tra l’io e il tu, spazio in cui si crea il noi: l’amore è dove io non sono “io” e tu non sei “tu”, ma io e tu siamo
“noi”.
Tutto
ciò che esiste è creato ad immagine della Trinità: ognuno di noi ha bisogno di
vivere in sé stesso i tre elementi che la costituiscono. Se ne manca uno non c’è
comunione, perché la comunione è data dalla loro presenza in contemporanea:
1) L’amans, il Padre, il genitore. Noi tutti
dobbiamo essere amantes, gli amanti,
coloro che amano. L’amans è colui che
prende l’iniziativa, che va, che non guarda cosa fanno gli altri: non guarda se
fanno di più o di meno di lui. Lui ha dentro di sé l’amore, e lo dona
gratuitamente. È il “genitore” per eccellenza: è talmente pieno d’amore che lo
dona, lo riversa sugli altri. L’amore è dare, è donare. Ma per dare dobbiamo essere pieni, altrimenti
credendo di dare, pretendiamo di ricevere. Siamo pieni d’amore? Lo doniamo.
Siamo pieni di gioia? La doniamo. Siamo pieni di vitalità? La doniamo. Siamo pieni
di allegria? La doniamo. Siamo pieni di felicità? La nostra gioia diventa
iniziative, voglia di creare unioni, condivisioni, momenti gioviali.
Non possiamo
mai dare ciò che non abbiamo. Luca parla chiaro in proposito: «L’uomo buono trae fuori il bene dal buon
tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male,
perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Lc 6,45). Chi dentro ha
rabbia sarà sempre arrabbiato e ogni occasione sarà buona per arrabbiarsi; chi
dentro ha tristezza vedrà tutto nero, tutto negativo e tutto pericoloso; ma chi
dentro ha la gioia, trasmetterà serenità; e lo si può riconoscere dal volto, dai
gesti, dalle parole e dai sorrisi che dona a chi incontra. La nostra vita esteriore
non è nient’altro che la proiezione della nostra vita spirituale, interiore.
2) L’amatus, il Figlio, il bambino. Il Figlio
è colui che riceve. Tutti noi abbiamo bisogno di ricevere. Abbiamo bisogno di
coccole, di tenerezza, di ascolto, di gioia, di ridere, di lasciarci andare, di
sentirci accolti, riconosciuti, amati. Il bambino è colui che si apre e riceve.
Tutti siamo bambini. Ma a volte vogliamo ricevere senza aprirci. Vorremmo che
gli altri ci ascoltassero, ma noi non vogliamo chiedere. Vorremmo tenerezza,
affetto, ma non vogliamo mostrarci vulnerabili o bisognosi. Vorremmo conforto,
protezione, ma non vogliamo farci vedere piangere o sofferenti. Vorremmo
sentirci riconosciuti ma quando qualcuno ci fa un complimento o ci dice: “Ti
voglio bene”, noi ci sottraiamo, ci sentiamo imbarazzati. Per ricevere dobbiamo
invece aprirci, dobbiamo accettare di essere vulnerabili.
3) C’è
poi l’amor, lo Spirito, l’amore, l’unione,
il legame, l’essere adulti: io sono io
e tu sei tu; l’amore, è ciò che ci unisce
entrambi. Se però pretendo che tu “divenga” me, io ti uccido. Se invece io
divengo te, mi uccido. L’amore non vuole cambiare l’altro: tu sei tu. Se
cambierai, è una scelta tua. Io ti amo, non ti cambio. È l’adulto che fa così:
io ti amo e non mi aspetto che tu cambi. Lo faccio perché l’amore nasce dal mio
cuore, dal mio essere, da ciò che io ho dentro. Non voglio nulla in cambio. «Infatti se amate quelli che vi amano, quale
merito ne avete?» (Mt 5,46); non è più amore, è solo interesse, è un barattare
qualcosa!
L’amore
è ciò che fa vivere. L’amore fa vivere tutto ciò che vive. Amore è che l’altro
sia al massimo, sia se stesso anche se ciò è contro il suo volere o le sue
idee.
Cosa
vuol dire per noi, nel nostro lavoro, essere amore, essere unione? Cosa vuol dire essere amore con il nostro
fratello? Cosa vuol dire essere amore con chi non sopportiamo? Madre Teresa, o
Teresa di Lisieux, dicevano: “Oggi sarò l’amore”. E vivevano così quella
giornata. Abbiamo di che imparare.
La
festa della Trinità, per concludere, ci dice che Dio, il Tutto, è collegato al
tutto; dice cioè che noi siamo in relazione con il Tutto (Dio) e con il tutto (gli
altri). Siamo cioè interconnessi fra noi. Siamo collegati, interdipendenti.
Nessuno
allora può più dire: “A che serve fare il bene, se poi sono l’unico a farlo?”.
Nessuno può più pensare in questo modo, perché tutto quello che facciamo comporta
realmente delle conseguenze per noi, per gli altri, per il mondo intero.
A noi invece
piace molto pensarci “unici”, separati dagli altri: “La vita è mia e faccio
quello che ne voglio”. E invece no: se urliamo, se bestemmiamo, se viviamo nel
rancore e nella rabbia, la risonanza delle nostre azioni, dei nostri
sentimenti, si diffonde e si riverbera nel mondo. Se, invece, amiamo
incondizionatamente, se viviamo nel perdono lasciando andare e cadere l’odio e
la rabbia, se compiamo gesti di bontà gratuita, se abbiamo compassione e
tenerezza, tutto questo si riflette in noi, nella nostra famiglia e nel mondo. È
la Trinità che ce lo ricorda: siamo collegati al Tutto e il tutto è collegato a
noi. Tutto è in relazione e la relazione è tutto. Amen.
“Mentre erano chiuse le porte
del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù,
stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”.
I
discepoli sono terrorizzati. Cosa sta succedendo? Gesù è morto, lo hanno ucciso.
Poi è risorto, molti di loro lo hanno rivisto, qualcuno lo ha anche toccato con
mano. Infine, dopo averli incontrati in Galilea, se ne è andato definitivamente:
“Ora che sarà di noi?”, si dicono perplessi. È un momento difficile per loro, un
momento di crisi profonda, radicale, decisiva. E li possiamo capire. Quante
volte anche a noi, trovandoci in una situazione altrettanto difficile,
apparentemente senza sbocchi, non viene naturale pensare: “Ora che faccio?”.
Ma
ecco la Pentecoste: cosa succede esattamente in questo giorno? Essi fanno un
salto qualitativo decisivo, la loro vita subisce un totale sconvolgimento: da
una comprensione del loro ruolo limitata, bassa, esteriore, terra-terra,
passano ad un livello di cognizione decisamente superiore, profondamente interiore:
dall’esteriorità passano cioè all’interiorità. Se prima si lasciavano guidare
dai sensi, ora è il loro cuore, è ciò che hanno dentro che li illumina sul da
farsi.
Questo
passaggio di livello lo possiamo cogliere soprattutto nella prima lettura di
oggi, tratta dagli Atti (sono essi e non i Vangeli che descrivono nel dettaglio
la discesa dello Spirito sugli apostoli); e lo percepiamo attraverso l’analisi
di tre immagini:
1. Il
vento (At 2,2): non si tratta tanto di un vento esteriore, materiale, atmosferico,
ma di un vento interno, un “soffio” spirituale. È il vento della libertà, dell’apertura, dell’amore; un
vento che tutti possono avere: solo se uno ce l’ha, ha il coraggio di uscire,
di esporsi al giudizio della gente, di affrontare le sfide, di osare, di
rischiare, di esprimersi per quello che è, ecc. Se non abbiamo questo “vento”
dentro di noi, siamo ancora nella stessa condizione degli apostoli prima della
Pentecoste: pieni di paura (20,19).
2. Il
fuoco (At 2,3): le lingue di questo fuoco non sono fisiche; è un fuoco che brucia
dentro, una passione che ci arde l’anima. È la forza, il tormento, la tenacia,
l’ardore, il coraggio; è “l’essere presi”; è il giocarci fino alla fine per una
causa o un motivo, è l’entusiasmo, è la vitalità che ci brucia e arde dentro. Anche
qui, se non abbiamo questo fuoco, continuiamo ad essere come gli apostoli prima
della Pentecoste: freddi senza motivazioni, senza impulsi, rinchiusi in noi
stessi.
3. Parlare
le lingue (At 2,8-11): non è che di punto in bianco parlino materialmente tutte
le lingue del mondo. Tutti li capiscono, è vero, qualunque sia il paese
d’origine: ma ciò è possibile perché la nuova lingua che parlano, è la lingua
del cuore, la lingua dell’amore; quella lingua che tutti capiscono, che fa
rivivere, che fa vibrare l’anima, che parla al cuore.
Gesù
non c’è più: a livello storico, materiale, Gesù non lo vedono più come prima,
non gli possono parlare più come prima. Ma lo sentono con loro, dentro di loro,
ad un altro livello, più alto, più spirituale: lo sentono dentro di loro come
libertà, come passione, come coraggio, come amore; e da questo punto di vista,
Lui è sempre con loro, più di prima.
Ma ritorniamo
a noi: anche a noi serve un salto di qualità: serve anche a noi lo Spirito. Se
continuiamo a rimanere sul livello esteriore, materiale, non avremo mai certezze,
non avremo sicurezze, non avremo coraggio; perché è nell’intimo, è nello
Spirito che ci inabita, che troviamo il coraggio di osare, di capire, di salire
sempre più in alto.
Prendiamo
per esempio l’andare in chiesa: se noi non facciamo un vero salto di fede, continueremo
ad essere dei semplici esecutori materiali, distaccati e superficiali, di
regole esteriori. Quello che sentiamo a livello materiale sarà pertanto: “Sono a
posto, sono in “regola”. Ma siamo sufficientemente bravi anche per Dio?”. Se ci
confrontiamo sul livello spirituale, infatti, sentiamo che Dio non è qualcuno da
tenersi buono, per paura di castighi, ma qualcuno di cui innamorarsi, di cui
appassionarsi; di qualcuno che per amore ci fa cambiare modo di pensare,di credere,
di vivere.
Oppure
guardiamo la nostra insoddisfazione: a livello materiale noi cerchiamo di
risolverla distraendoci, divertendoci, magari con un viaggio, con questo o
quello, pensando che ciò ci renderà felici; o magari pensando che si tratta di
una cosa passeggera, che prima o poi passerà; quindi aspettiamo. A livello
spirituale, invece, il traccheggiare, il rimandare, il perdere tempo, non
esiste; dobbiamo fare un salto decisivo: perché se non troviamo un senso
profondo per cui vivere, un motivo che catalizzi le nostre energie, saremo
sempre insoddisfatti.
Cos’è allora
che ci salva? Solamente se facciamo un salto al nostro interno. Se riusciamo cioè
a dare un nuovo senso alla nostra vita, un senso più vero, più profondo, più
spirituale, insomma diverso.
Il nostro
compito primario – come ci insegna la Parola di oggi - è infatti quello di
trasformare il materiale in spirituale. Il grande simbolo che ci deve ispirare è
il Crocifisso. La croce è formata da due bracci: uno orizzontale e uno
verticale. Su quello orizzontale ci sono le braccia aperte di Gesù che prende,
accoglie, raccoglie, accetta tutto ciò che c’è nel mondo: odio, cattiveria,
ingiustizia, morte, tradimento, ecc. Su quello verticale c’è la persona di Gesù
che porta, eleva, trasforma tutto questo in opera di salvezza. Per questo
possiamo dire che se la Croce, da un punto di vista materiale, storico, è un
obbrobrio di ingiustizia, di sadismo, dal punto di vista spirituale è la nostra
salvezza, è lo strumento con cui Lui ci salva. Gesù cioè per mezzo della croce dà
un senso alle ingiustizie del mondo e all’odio stupido e ingiusto che riceve
dall’umanità. Ma ciò che gli è capitato, ha un senso? Storicamente no, è una
brutalità, una bestialità. Ma con la Pentecoste Gesù ci fa capire, trasforma il
non-senso terreno della croce, in senso spirituale di salvezza, il non senso in
opera di redenzione.
Gesù è
il Sommo Sacerdote (sacrum facere=rendere
sacre le cose). Gesù sacralizza questa umanità che lo ha ucciso e continua a
ucciderlo. È Pontefice (pontem facere=gettare
un ponte): è colui cioè che fa da ponte, che mette in contatto il materiale con
lo spirituale, l’uomo peccatore con Dio Amore e misericordia.
Tutti
noi siamo pertanto chiamati ad essere sacerdoti (pontefici): tutti noi dobbiamo
trasformare il materiale in spirituale. Perché solo così tutto ciò che ci succede
viene elevato, trasformato, sacralizzato. La materia diventa spirituale; ciò
che è basso diventa alto e ciò che è senza senso inizia ad averlo per noi. E
quando il sacerdote trasforma un po’ di pane (materia) in Corpo di Cristo
(Spirito) e un po’ di vino (materia) in sangue di Cristo (Spirito), ci siamo
anche noi su quell’altare, sacerdoti della nostra vita, per trasformare,
elevare, sacralizzare i nostri giorni e ciò che ci succede. Tutto è spirituale
per chi ha lo Spirito nel cuore. Tutto è materiale per chi non si eleva e non
diviene sacerdote della propria vita.
La
festa di Pentecoste esprime appunto la grandiosa verità che Dio abita dentro di
noi. Dio non è più presente fisicamente
in mezzo a noi, Dio è presente in noi con il suo Spirito.
Se noi
chiediamo alle persone cos’è lo Spirito, la maggior parte non sa cosa
rispondere. E non sa rispondere perché non lo conosce, non ne ha esperienza,
non lo ha mai vissuto.
Molti
pensano che lo Spirito sia un qualcosa che si “aggiunge”, che si attacca a
quello che già siamo; e poiché ci sta bene così come siamo, dello Spirito possiamo
anche farne a meno. Ma lo Spirito non è un di
più, un’aggiunta, un accessorio: è qualcosa di noi, del nostro essere, un
qualcosa che ci fa essere. Lo Spirito
di Dio non decide di scendere su di noi in un certo giorno della nostra vita;
egli abita in noi da sempre, ci ha fatto nascere.
Altri
pensano che lo Spirito sia in
contrasto, sia incompatibile con la materia, con
l’uomo: per loro spirituale, equivale
a disincarnato, fuori dal mondo; quando
pensano ad una persona spirituale si
immaginano un santo monaco che vive fuori dal mondo, che prega in solitudine e
che odia tutto ciò che esiste nel mondo. Nulla di più sbagliato. Queste persone dovrebbero
infatti leggere un po’ di più il vangelo e prendere nota di quanto “materiale” sia stato Gesù: mangiava,
beveva, faceva festa, si divertiva, toccava e abbracciava. E con tutto ciò non possiamo
certo dire che non fosse spirituale!
Essere
spirituali, quindi, non è pregare molto, fare tante cose religiose, frequentare
la chiesa, fare penitenze, compiere pellegrinaggi o dire rosari. Essere
spirituali vuol dire vivere in modo che tutte le nostre azioni, i nostri
pensieri, la nostra vita, confermino all’esterno la presenza dello Spirito di
Dio che è dentro di noi. È semplicemente un modo di vedere e di vivere le cose.
Materia
è infatti il pane della domenica sull’altare. Ma Spirito è quando vediamo in
quel pane, il Pane, il Cristo. Materia è quando vediamo in una persona solo uno
che ci disturba, uno che scoccia, uno che ci dà fastidio. Spirito è quando
iniziamo a vedere in essa un fratello che soffre, uno che ha un cuore e un’anima
bisognosi d’amore.
Materia
è quando vediamo al mattino soltanto un altro giorno di lavoro. Spirito è
quando vediamo nel nuovo giorno un regalo divino, un’altra opportunità che ci
viene regalata dall’alto per sperimentare la vita.
Materia
è quando qualcosa ci fa innervosire. Spirito è quando iniziamo a chiederci il
perché, il che cosa dobbiamo imparare o che cosa dobbiamo cambiare del nostro
comportamento o del nostro modo di pensare. Materia è mangiare, spirito è
gustare. Materia è respirare (avviene in automatico), spirito è essere
consapevoli del nostro “soffio” (non a caso ruah,
spirito, in ebraico vuol dire anche “soffio”). Materia è sentire il canto degli
uccelli, spirito è ascoltare il canto
degli uccelli.
Tutta la
nostra vita può essere quindi terribilmente materiale o terribilmente
spirituale; piena di buio o splendente di luce. Tutto può essere materia o
tutto può essere spirito: dipende solo ed esclusivamente con quali occhi noi
guardiamo: se con quelli del corpo o con quelli dell’anima, dello “Spirito”. Amen.
«Io sono con voi tutti i
giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,16-20).
Gesù è
vivo; è risorto; e incontra i suoi discepoli.
Li incontra in Galilea: come mai
in Galilea e non in Gerusalemme, dove già si trovavano? Perché la Galilea è il luogo
della vita (Betlemme) mentre Gerusalemme è il luogo della morte. In certi
luoghi, come in certe persone, non possiamo incontrare il Signore: sono “ambienti”
di morte, vuoti, dove regna solo l’odio, l’invidia, la rabbia. Li incontra poi
“sul” monte che aveva loro fissato (l’articolo determinativo indica che si
tratta di quel preciso monte e non di uno a caso; proprio quello e nessun
altro). Di che
monte si tratta? Matteo fa capire di conoscerlo molto bene: è il monte delle
beatitudini.
Su
quel monte Gesù ha tracciato le linee chiave della nostra vita cristiana: avere
cioè un cuore grande, in modo da poter contenere il mondo; essere vulnerabili, in
modo da poter percepire Dio, sentire la gioia e il dolore proprio e di ogni
uomo; avere un cuore vivo, che pulsa, che vibra, che sente, che piange, che
lotta, che è capace di misericordia; operare scelte radicali (“avete inteso che
fu detto, ma io vi dico”), lasciar andare ciò che non ha più senso; percepire e
manifestare il nostro scopo di vita (essere sale e luce); avere una fiducia
incondizionata e smisurata in Dio che ci protegge, lui, che nutre gli uccelli
del cielo e veste i fiori del campo; non giudicare nessuno e non credersi
superiori di qualcuno; non usare nessuna violenza, fisica, psicologica, morale,
genitoriale, per sottomettere gli altri.
Bene:
è qui, su questo “monte”, che anche noi dobbiamo incontrare Dio; è cioè in
questo contesto, a queste condizioni, che possiamo “incontrare”, fin da ora, il
Signore.
Ma in
pratica cosa dobbiamo fare, come dobbiamo comportarci per vederlo?
Il
monte delle beatitudini rappresenta il cammino che dobbiamo percorrere. Se vogliamo
incontrare Dio, dobbiamo purificare la nostra anima, rendere trasparente il nostro
cuore, portare la luce nel nostro buio profondo, cambiare i nostri schemi mentali,
rigidi e fissi.
Il
Risorto non è un’esperienza per pochi eletti: il Risorto è per tutti! Tutti
possiamo vederlo. Non solo gli apostoli, ma ciascuno di noi può incontrarlo, può
“vederlo”: purché si incammini verso la vetta di quel monte. Soltanto là
sopra, ci sarà l’incontro.
Molti
di noi dicono: “Vorrei incontrare il Signore, perché mi sento sempre così
vuoto?”. Per forza, perché noi contiamo soltanto sulle cose di questo mondo,
sulle ricchezze, sul benessere, sui soldi: quella è la nostra ricchezza; e di
quella soltanto ci fidiamo. Ma solo chi si affida completamente a Dio, solo chi
lascia le certezze e le sicurezze di questo mondo, può incontrarlo. Beati i
poveri in spirito, dice Gesù; beati i poveri che sanno perdere le false
sicurezze per trovare l’unica cosa che dà certezza nella vita: Dio. Chi invece
ha l’anima già colma di altre cose, non ha più spazio per Dio.
Altri
dicono: “Non lo sento il Signore, non mi riscalda, non mi dà niente, è solo un
bel pensiero; a che mi serve andare in chiesa se non percepisco nulla?”. Non lo
sentono, perché lo ignorano: ogni volta che “stanno male” non pensano a Lui, fanno
finta di niente, non ascoltano la voce del cuore. Rifiutano di accettare le
prove della vita, le sofferenze. Quando queste emergono fanno di tutto per
annegarle, per dimenticarle, per accantonarle. E in questo modo si sono costruiti
una corazza nel cuore: diventano impermeabili a tutto, praticamente morti nell’anima.
Beati gli afflitti, dice invece Gesù. Beati quelli che sanno piangere, che
sanno commuoversi, che percepiscono il proprio dolore e quello del mondo intero!
Ci
sono inoltre persone che dicono: “Mi piacerebbe venire agli incontri sul
vangelo, è che alla sera è tardi”. Altre: “Se avessi più tempo verrei di più in
chiesa”. Ma a questi signori dobbiamo rispondere: l’uomo mangia volentieri solo se ha fame. Se non c’è il desiderio,
la voglia, la brama, l’attrazione, la spinta, non se ne fa nulla, fosse pure Dio. Beati invece quelli che
hanno fame e sete di cose vere, profonde; che hanno fame di verità, di autenticità:
perché solo costoro troveranno ciò che cercano: troveranno Dio, che è la realtà
più vera, profonda e autentica.
Molti infine
sbuffano dicendo: “Questo mondo fa schifo! Non ti puoi fidare di nessuno! Tutti
ti fregano! Tutti pensano a se stessi!”. Purtroppo siamo portati a giudicare
sempre, in continuazione. Non abbiamo pazienza.
Quante
volte tagliamo corto e così pensiamo di aver sistemato le cose! Quante volte
usiamo la violenza del nostro potere: “Qui comando io!; io sono tuo padre; io
sono l’autorità, ecc. ecc.”.
Beati
quelli che, al contrario, sanno valorizzare i lati positivi del prossimo, che amano i
loro fratelli. Solo così saranno costruttori di pace, di unione, di fraternità.
I
discepoli, dunque, vedono Gesù e lo riconoscono. Alcuni però dubitano. Di che
cosa dubitano? Non certo del Signore, ma di loro stessi! “Ce la faremo a
stargli vicino, rischiando anche noi di morire, come lui?”; “cosa ci accadrà?
Ne varrà la pena? Avremo la forza per andare avanti?”.
Il
dubbio è malefico: è la piccolissima incrinatura nella diga: la farà crollare,
è solo questione di tempo. Il dubbio compromette il nostro valore, le nostre
sicurezze, la stima in noi stessi. Il dubbio è quella voce sottile ma terribile che ci dice: “Non ce la
farai; è troppo per te; non hai le forze; ma chi ti credi di essere?”. Il
dubbio crea insicurezza, paura, spezza il nostro coraggio, i nostri sogni, i
nostri slanci; la fiducia al contrario crea forza, valore e sicurezza. Gesù infatti si
fida dei suoi discepoli; crede in loro e li invia in missione: “Andate e
ammaestrate tutte le nazioni”. Vi immaginate la faccia dei discepoli? Loro
dubitano di sé e Lui li invia in tutto il mondo! Non credono in loro
stessi: ma Gesù conosce ciò che hanno dentro, conosce il loro valore, per questo li
manda.
Non possiamo
credere realmente in Dio e non credere in noi stessi. Non perché siamo dei
superman, degli eroi ma solamente perché Lui abita in noi. Se Dio è in noi
allora noi disponiamo di una forza divina. Aver fede in noi stessi non è tanto
aver fede in noi ma in chi abita dentro di noi.
Gesù ha
detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Per questo non
dobbiamo temere: se dubitiamo di noi, ricordiamoci di chi c’è con noi, ricordiamoci
di chi c’è dentro di noi.
Questa
verità dovremmo ricordarcela ogni mattina quando ci alziamo: “Anche oggi Io
sono con te: vai tranquillo”.
E
allora quando abbiamo paura: “Io sono con te”; quando ci sentiamo soli: “Io
sono con te”; quando nessuno è con noi: “Io sono con te”; quando ci vergogniamo
di noi: “Io sono con te”; quando
sentiamo di non avere le forze, quando ci vien da gettare la spugna, di lasciarci
andare: “Io sono in te”; quando non sappiamo dove trovare la forza, ricordiamoci:
“Io sono qui dentro di te”; quando non sappiamo più dove aggrapparci, cosa fare
o dove sbattere la testa, ricordiamoci: “Io sono in te”.
In
ogni situazione ricordiamoci sempre: “Io sono con te tutti i giorni”. Non ci
sarà mai un giorno della nostra esistenza in cui noi siamo soli o abbandonati.
Lui è e sarà sempre con noi, in noi.
Ricordate
il racconto “Orme sulla sabbia”? È molto bello, poetico e ci conferma questa
verità. Ve lo riporto:
«Questa
notte ho fatto un sogno; ho sognato che camminavo sulla sabbia, accompagnato
dal Signore, e sullo schermo della notte erano proiettati tutti i giorni della
mia vita.
Ho
guardato indietro e ho visto che per ogni giorno della mia vita, apparivano
orme sulla sabbia: una
mia e una del Signore.
Così
sono andato avanti, finché tutti i miei giorni si esaurirono.
Allora
mi fermai guardando indietro, notando che in certi posti c’era solo un’orma...
Questi
posti coincidevano con i giorni più difficili della mia vita; i giorni di
maggior angustia, di maggiore paura e di maggior dolore...
Ho
domandato allora: “Signore, Tu avevi detto che saresti stato con me in tutti i
giorni della mia vita, ed io ho accettato di vivere con te, ma perché mi hai
lasciato solo proprio nei momenti peggiori della mia vita?”
Ed il
Signore rispose: “Figlio mio, Io ti amo e ti dissi che sarei stato con te
durante tutta il tuo cammino e che non ti avrei lasciato solo neppure un
attimo, e non ti ho lasciato...
i
giorni in cui tu hai visto solo un’orma sulla sabbia, sono stati i giorni in
cui Io ti ho portato in braccio”. Amen.
«Non vi lascerò orfani: verrò
da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete,
perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre
mio e voi in me e io in voi» (Gv 14,15-21).
Il
vangelo di oggi è il seguito di quello di domenica scorsa: là annunciava la sua
partenza per un’altra vita, per un altro luogo dove c’è posto per tutti. Oggi
Gesù annuncia ai discepoli che se Lui se ne va, se non vedranno mai più il suo
volto, Egli tuttavia sarebbe rimasto con loro sotto un’altra forma, in un altro
modo, in maniera diversa: nello Spirito Santo: “Io pregherò il Padre ed egli vi
darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della
verità”.
Ebbene:
entrambi i brani sono accomunati dalla tristezza dei discepoli, dal loro
sentirsi soli, abbandonati, orfani, pieni di paura. E si chiedono preoccupati se
da soli riusciranno mai a farcela.
Tutti
noi abbiamo bisogno di padri, di maestri, di riferimenti, di leggi, di regole
chiare e precise. Lo scopo di un maestro infatti è soprattutto quello di fare
dei suoi discepoli altrettanti maestri. Chi ci ama vuol farci adulti,
indipendenti, maturi, anche a costo che tutto ciò possa allontanarci da lui.
Ma non
si può essere sempre discepoli: ciascuno deve diventare maestro, responsabile della
propria vita.
Se Dio
avesse voluto che non ragionassimo, che non fossimo responsabili di noi, non ci
avrebbe dato il cervello. Invece se ci ha dato le gambe, vuol dire che dobbiamo
camminare. Se ci ha dato gli occhi, dobbiamo osservare ciò che ci circonda. Se
ci ha dato le orecchie, dobbiamo ascoltare. Così se ci ha dato un cervello, vuol dire che dobbiamo usarlo. Volare non significa soltanto muovere le ali, ma restare in
aria senza alcun sostegno.
La
gente crede che lo Spirito Santo sia un po’ come avere una radioricevente in
testa. Basta accenderla e una voce ci fa sentire tutto quello che ci serve.
Basta premere un pulsante e sapremo cosa esattamente dobbiamo fare. È senz’altro
un’idea simpatica, ma non funziona così!
Il
Cristianesimo non ci regala Dio: ci insegna invece a cercarlo, a meritare la sua amicizia, spesso anche con
molta fatica, e questo delude molti. Così pure il Maestro, il Consolatore, lo
Spirito, non è colui che ci guida meccanicamente, che ci offre la pappa sempre
pronta, che mette continuamente Dio in noi; ma è colui che ci aiuta a scoprire prima
di tutto noi stessi, a scoprire la realtà delle cose, e quindi ad “incontrare”
Dio: sì, perché Dio c’è già dentro di noi; non serve che qualcuno ce lo metta un’altra
volta: al massimo può aiutarci a scoprirlo, a riconoscerlo, ad amarlo.
La
gente, nella vita, preferisce quelle guide che danno ordini, che stabiliscono loro tutto
ciò che c’è da fare, come comportarsi, cosa è giusto o ingiusto, ecc. La gente ha
bisogno di sentirsi sempre bambina, infantile, di trovare dei papà, dei miti,
degli idoli da seguire, da imitare, da copiare; ha bisogno che qualcuno le indichi
per filo e per segno la strada da seguire. Ma non va bene: per un po’ di tempo
si può anche rimanere bambini, ma non per sempre. Dobbiamo assolutamente crescere
ed essere autonomi!
Poi
Gesù aggiunge ancora: “Fra un po’ non mi vedrete più”. Cioè: sto per morire, stanno
venendo per prendermi e uccidermi. Ma – aggiunge – “voi continuerete a vedermi perché
io vivo, vivo in voi, e voi vivrete”. Gesù sentiva che gli apostoli gli
volevano bene. Anche se erano uomini pieni di paura, gretti, sclerotizzati, e a
volte proprio duri a capire, tuttavia gli volevano bene, e questo bastava. Gesù
sentiva che loro lo amavano, e sentiva che le sue parole facevano breccia nei
loro cuori, sentiva che la sua vita li affascinava, che pur impauriti, erano
innamorati del suo messaggio. Gesù sente che quello che i suoi dodici amici
hanno visto, fatto, sentito, provato con lui, è entrato nel profondo del loro
cuore, della loro anima; fa parte ormai di loro e non potranno più
dimenticarselo. Non potranno più perderlo. Succede anche a noi: ci sono infatti
esperienze che abbiamo vissuto nella nostra vita che conserviamo gelosamente. Ci
sono persone, che ci hanno amato per davvero, che rimarranno per sempre con
noi, vivranno in noi. Persone che ci hanno guarito dalle nostre miserie, che ci
hanno aperto gli occhi, che ci hanno fatto vedere la verità, che ci hanno infiammato
il cuore: sono persone che, come è successo agli apostoli con Gesù, rimarranno per
sempre con noi. Nessuno potrà strapparcele via, neppure la morte.
Poi Gesù
parla dello Spirito Consolatore. Consolatore, in greco, è Paraclito. Paraclito
significa anche Avvocato, colui che è chiamato in causa per difenderci, che sta con noi
quando siamo soli. Ma Consolatore vuol dire soprattutto uno che ci aiuta, che ci
protegge, che ci sta vicino, che non ci lascia soli. Spesso anche noi ci
ritroviamo soli, persi, in balia di un mondo che vive tutt’altre cose dalle
nostre. Allora il Consolatore ci invita ad aver fiducia nel nostro cuore. Anche
se ci sentiamo soli, anche se ci sentiamo non capiti, anche se ciò che viviamo
è contrario a quello che fanno gli altri.
Il
Paraclito metterà anche grandi consolazioni nella nostra strada: metterà cioè al nostro fianco qualcuno che ha la nostra stessa sensibilità, qualcuno che ci aiuterà,
qualcuno che ci difenderà, qualcuno che ci proteggerà, qualcuno che entrerà nel
nostro mondo con rispetto e che lo capirà. É sempre stato così.
Dio ci consola mettendo nel nostro cammino i suoi angeli, persone che ci
aiutano, che condividono la strada, la nostra passione, che ci aiutano. Lui non c’è
più materialmente, ma ci sono i suoi angeli. Se ci fidiamo di questo, anche se in alcuni
giorni ci sentiremo soli, non saremo mai soli. Allora: guardiamoci attorno! Dio non c’è, ma si nasconde
sotto altri nomi. Si nasconde nelle persone che ci stanno accanto, nel nostro prossimo. Lo riconosciamo? Lo vediamo? Chi sono i nostri angeli? La
lettera agli Ebrei ci ricorda che “alcuni hanno accolto gli angeli senza
saperlo”. Ebbene, anche se non li conosciamo, accogliamoli questi nostri angeli "terrestri",
perché Dio ci parla e ci si fa vicino proprio attraverso di loro. Amen.
«Abbiate fede in Dio e abbiate
fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi
avrei mai detto: Vado a prepararvi un posto? Quando sarò andato e vi avrò
preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io
siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via» (Gv 14,1-12).
Siamo
durante l’ultima cena. Il brano del vangelo di oggi è uno stralcio del lungo
discorso di Gesù, pronunciato in tale occasione e riportatoci da Giovanni.
Finita la cena, durante la quale lava i piedi ai presenti, quasi in segno di
addio, Giuda esce frettolosamente per consegnare il Maestro ai suoi nemici.
Tutti sono preoccupati, presagiscono che sta per accadere qualcosa di molto
grave; sono sconvolti dalle parole di Gesù (il verbo greco tarasso indica una profonda agitazione, una tempesta interiore); si
sentono perduti. A questo punto mille domande sorgono impetuose dal loro cuore:
“Che ne sarà di noi? Cosa ci succederà? Dove andremo a finire? Finirà tutto? Ci
siamo sbagliati a credere in Gesù?”. E lo assediano di domande, di chiarimenti;
vogliono avere certezze.
Gesù
risponde con dolcezza: “Non abbiate paura. Abbiate fiducia in me e in Dio. Vado
a prepararvi un posto”. Cosa vuol dire esattamente? È un semplice invito a
sperare, una frase di cortesia, o si fonda su qualcosa di concreto? Gesù quindi
li rassicura: “Abbiate fede in me, ci rivedremo, state tranquilli. Vi ho mai
lasciato?”. Le sue parole sono rassicuranti, danno fiducia, perché si fondano
su tutto quello che Lui ha fatto in precedenza. Non sono chiacchiere, promesse
a vuoto: il suo è amore, che richiede da parte nostra soltanto una fiducia solida
in Lui: percepiamo dalle sue parole un qualcosa di certo, di forte, di solido;
e le esperienze che abbiamo vissuto ci dicono che possiamo fidarci e lasciarci
andare, anche se non capiamo il perché.
Purtroppo
nella nostra vita non è facile avere la “sicurezza”, contare su basi “solide”,
provare un amore “indistruttibile”: hesed
(amore fedele), in ebraico, significa letteralmente “roccia”, un amore quindi
incrollabile sul quale possiamo piantare la nostra esistenza, sapendo che
terrà, che non cederà mai.
Esiste
per caso un qualcosa di sicuro su questa terra? Assolutamente no. Per esempio quando
ci sposiamo, e ci diciamo: “Per sempre”, non esprimiamo una certezza, un dato
di fatto: è un nostro impegno, è un desiderio, un programma che intendiamo realizzare.
Così pure per le amicizie, per i rapporti, per i legami, per il lavoro, per le
convinzioni religiose, per le scelte fatte: il nostro “per sempre”, non esprime
una realtà, un dato già acquisito, già consolidato, solo perché ci siamo detti “per
sempre”; è un progetto tutto da costruire. Su questa terra non esiste nessuna
certezza eterna, perché tutto è passeggero, tutto è transitorio. Anche se per
noi è difficile accettarla, la verità è questa: “panta rei”, tutto passa, tutto diviene, nulla rimane, nulla è
certo.
Ma è proprio
vero che “tutto” passa? È proprio vero che nulla rimane “per sempre”? Nossignori:
una cosa c’è che rimane: è “l’a-more”
(dove l’a privativa e mors, morte, indicano appunto la non-morte): è l’amore, in assoluto l'unica
forza in grado di oltrepassare ogni “limite”, di superare ogni “separazione”, anche
il distacco della morte. Un giorno tutto sparirà (ma proprio tutto): solo ciò
che è amore rimarrà, perché l’amore è eterno: dura oggi, domani, dopodomani, “per
sempre”. Ecco allora che dove non c'è amore, non c'è neppure il “per sempre”, e
non c’è neppure la fedeltà: poiché è l'amore che fonda la fedeltà, non la
fedeltà che fonda l'amore.
Questo
è in sintesi il senso del “Discorso di Addio” pronunciato da Gesù nell’ultima
cena e riportatoci da Giovanni (14,13-17): “Io vi amo. Voi fidatevi del mio
amore”. La forza dei discepoli e della Chiesa si basa infatti su questi due elementi:
l’amore da una parte, la fiducia dall’altra.
Perché
i discepoli possono fidarsi di Gesù? Perché hanno visto, sentito, sperimentato
il suo amore. Le rassicurazioni umane non servono a nulla: “Ti amerò per
sempre; non ti lascerò mai; io per te ci sarò sempre; puoi contare sempre su di
me”; certo, sono parole confortanti, ma l'unica cosa che ci permette veramente di
fidarci è il “sentire” intimamente che
l'altro c'è, che ci ama, che non ci abbandonerà mai: una certezza maturata nell’esperienza
di ogni giorno.
Lo
stesso è successo con i discepoli: come mai ad un certo punto non hanno avuto
più paura? Che molla è scattata in loro, per cui dal terrore, dalla fuga, sono
passati a seguirlo, a difenderlo apertamente?
Perché
dopo la passione e la risurrezione di Gesù, in loro è pian piano maturata una
nuova “visione” di Gesù e delle sue parole: ora lo “rivedono” nelle sue
apparizioni con altri occhi; lo sentono vivo in cuor loro, lo sentono come fuoco,
passione, vita, coraggio, presenza in loro.
Tommaso
e gli apostoli, la Maddalena, Paolo, subiscono ciascuno un “trauma” dall’incontro
personale con Gesù. Non credono in Lui perché qualcuno glielo ha detto o
comandato: credono in Lui, hanno piena fiducia in Lui, perché hanno visto,
sperimentato, toccato.
Ciò
che ha cambiato e stravolto la loro vita non è stato l'incontro con Gesù il
Maestro per le strade della Palestina (già questo li aveva sconvolti
abbastanza!) ma l'incontro con il Gesù Risorto. Improvvisamente si sono accorti
di averlo dentro di loro: il Maestro, la passione, la forza, la vita, che prima
trovavano in Gesù fuori, ora ce l’hanno dentro. Gesù Risorto è in loro. Per
questo vanno dovunque gridando: “Lui vive! Lui è risorto!”. E ne sono convinti,
perché lo hanno incontrato, visto, identificato da risorto. Nei vangeli infatti
la resurrezione non è mai un discorso ma sempre un incontro tra il Risorto e la persona. Tutti i discepoli che lungo
la storia hanno seguito il Signore, lo hanno fatto perché ad un certo momento
lo hanno incontrato. È stata un'esperienza personale (nei vangeli è
un'apparizione) che ha cambiato la loro vita, l'ha sconvolta; un’esperienza che
ha dato, che ha creato nei loro cuori quella scintilla che li ha spinti a seguirlo
dovunque la sua Voce chiamasse.
Ecco: il
nostro incontro con il Risorto deve essere anche per noi una “bomba nucleare”
che ci cambia la vita, ci sconvolge, ci rende diversi. Quando si parla di “fede”
la gente pensa a un qualcosa di posticcio, uno smussare, un addolcire, un
aggiustare il nostro carattere, un diventare un po' più gentili, più buoni con
gli altri, più amabili: insomma una specie di restyling personale. Ma l'incontro con il Risorto è un uragano che
spazza via tutto e ci fa completamente diversi. Perché quando lo sentiamo presente
e Vivo dentro di noi, è impossibile rimanere come prima. E se non siamo
cambiati, se siamo sempre uguali, vuol dire che non lo abbiamo ancora incontrato.
È così. Fede è cambiare vita, è fare un incontro decisivo con Uno, dopo il
quale non possiamo mai più essere gli stessi.
Per
questo non dobbiamo avere timore, o provare imbarazzo, nel proporre ai nostri
fratelli, ai nostri amici, incontri alti, forti, profondi, duri, intensi con Gesù:
non dobbiamo vergognarci di dire alle persone che la fede è questo, altrimenti
pensano che la fede sia una preghiera, una buona azione, un gesto d'amore. La
fede al contrario è un incontro che ci cambia la vita; è un incontro con l’Amore
che ci fa vivere la vera Vita.
Ci
sono tante vie per arrivare a Dio, siamo tutti diversi, e ciascuno deve fare il
“suo” incontro; c'è
chi arriva a Dio attraverso la parrocchia, chi arriva attraverso le sofferenze
della vita, attraverso le malattie, le disgrazie; c'è chi arriva aiutando le persone
e facendo della propria vita un servizio per gli altri; c'è chi arriva con una
vita contemplativa e monastica, c'è chi arriva passando per una vita mondana;
c'è chi arriva consacrandosi solo a Dio, c'è chi arriva dedicandosi alla
famiglia.
Ma c'è
anche chi non arriva mai ad incontrare Dio: non ha interesse, è sordo, sta bene
così; pensa che siano solo “panzane” destinate a persone psicolabili, poco
furbe: è convinto di essere felice così com’è; ma si accorgerà che è solo una temporanea
illusione. E poi, tranquilli: non vuole incontrare Dio? Sarà Dio che incontrerà
lui: perché Dio prima o poi, con il suo amore arriva a tutti. È solo questione
di forma e di tempo. Amen.
«Gesù disse loro questa
similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. Allora Gesù disse
loro di nuovo: “In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore.
Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore
non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà
salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (Gv 10,1-10).
Gesù,
per spiegare le grandi verità di Dio, e farsi capire, usa semplici immagini proprie
del suo tempo. Il “recinto” era una specie di muretto che circondava uno spazio
utilizzato da più pastori. Alla sera i pastori vi conducevano le pecore e di
notte bastava un solo guardiano. Al mattino, quando il pastore ritornava,
chiamava le sue pecore per nome e queste lo riconoscevano dalla voce. Ecco
perché le chiama “una ad una” e perché le pecore “conoscono la sua voce”: era una
cosa che tutti conoscevano e che succedeva continuamente. Le pecore conoscevano
la voce del loro pastore perché tutto il giorno stavano con lui: lui le
proteggeva, lui le difendeva, lui le portava al pascolo. Si creava tra di loro
un rapporto di conoscenza, di relazione.
Oggi l'immagine
del pastore a noi dice ben poco; la civiltà pastorizia è quasi completamente scomparsa,
ma a quel tempo essa era praticata da gran parte della popolazione.
Il
testo tuttavia, offre anche a noi numerosi spunti di riflessione.
Il
pastore è colui che ci ama, colui che ci conduce verso la vita, verso il
pascolo, verso il nutrimento; il pastore è colui che ci difende, che ci
protegge dagli attacchi nemici, che ci aiuta nei momenti difficili; il pastore
è il nostro sicuro riferimento per sapere dove andare, quale strada percorrere.
“State attenti” – ci mette in guardia Gesù – “perché molti vengono da voi in
nome di Dio e in nome dell'amore. Molti vengono dicendo di volere il vostro
bene. Voi però state attenti perché molto spesso si tratta di briganti e ladri!”.
Ma allora come individuarli? Semplice: il pastore (genitore, coniuge, amico,
prete o guida spirituale che sia) entra per la “nostra porta” solo per darci
vita, per farci crescere, fiorire, evolvere, per farci diventare migliori. Il
ladro invece viene per rubare, per sottrarci quello che abbiamo di più bello, per
distruggere i nostri sogni, per legarci alla sua volontà. Il pastore ci invita,
ci consiglia, ci persuade senza nulla imporci, non usa la forza, è sempre attento,
presente, disponibile. Il ladro è violento, prepotente, ci colpevolizza, vuole
sottometterci, rubando la vita che abbiamo dentro. Il pastore ci conduce alla
verità, il ladro ci trascina nell’inganno: ci fa giudicare vero quello che è
falso e falso quello che è vero.
Se una
persona ci umilia continuamente, ci disprezza, ci fa sentire in colpa su tutto
e sminuisce ogni nostra iniziativa, è un brigante; se una persona ci fa sentire
solo cattivi, sporchi, sbagliati, è un brigante; se una persona ci fa sentire comunque
degli idioti, dei cretini, degli stupidi, è un brigante. Se una persona ci usa
per soddisfare il suo piacere fisico o i suoi interessi, è un brigante; se una
persona pretende di starci troppo addosso, ripetendoci insistentemente che senza
di noi non può vivere, è un brigante. Se stare con una persona ci priva della
gioia di vivere, della nostra personalità, della nostra vitalità, quella
persona è un ladro. Se stare con una persona annienta la nostra creatività, la nostra
fantasia, la bellezza che abbiamo dentro di noi, la nostra espansività, quella persona
è un ladro. Se stare con una persona ci intristisce, ci spegne, ci soffoca, invece
di accenderci, di farci respirare, quella persona è un ladro.
La
vita è vivere. La vita è espandersi. La vita è dilatarsi. Noi siamo fatti per
crescere sempre di più, per realizzarci sempre più, per diventare quelli che nel
disegno di Dio dobbiamo essere, quelli cioè che nella loro vita realizzano tutto
ciò che Dio ha pensato per loro.
Allora
dobbiamo chiederci: se nella vita ci sono tanti ladri in azione, se i ladri ci
hanno portato via la vita, l'entusiasmo, la fantasia, la creatività, la voglia
di vivere, di combattere, di essere nuovi e diversi (quanta gente è rassegnata,
smorta, spenta!) perché non abbiamo fatto nulla per opporci? Perché non siamo
stati pastori di noi stessi? Perché abbiamo permesso loro di entrare nella nostra
anima?
Ogni
volta che non ci difendiamo, che non ci proteggiamo, che non lottiamo per noi
stessi, che non combattiamo per la nostra vita (cosa c'è di più importante
della nostra vita?), che permettiamo agli altri di fare di noi quello che
vogliono, noi ci trattiamo come se non avessimo alcun valore, come se fossimo delle
nullità che tutti possono utilizzare a loro piacimento. Se ci amiamo, combattiamo
per noi!
Se noi
non proteggiamo (pastore) ciò che abbiamo di più caro e prezioso, perché lo
dovrebbero fare gli altri? Se non difendiamo la nostra parte migliore, i nostri
tesori, chi lo farà? Se non custodiamo i nostri tesori, ci verranno rubati. Se non
sappiamo custodire ciò che possediamo, tutti verranno e faranno di noi quello
che vorranno. Ma poi non dobbiamo lamentarci se ci derubano, perché siamo noi
che dobbiamo custodire ciò che ci è stato affidato, siamo noi che dobbiamo
custodirlo con ogni cura: noi e nessun altro!
Quante
persone invece permettono al partner di rubargli l'anima, la vita che hanno dentro,
la vitalità, la gioia, l’estroversione, la simpatia! E da persone vive,
diventano dei morti ambulanti, degli “zombies”.
Ma l’immagine
centrale del vangelo di oggi è sicuramente la “porta”: “Io sono la porta!” dice
Gesù. Ora, la porta è simbolo del passaggio da una sfera, da un luogo, da una
situazione ad un'altra.
Gesù è
quindi la porta di entrata verso noi stessi: Egli ci conduce nel nostro intimo,
nella nostra anima, nel nostro cuore per fare un bilancio della nostra vita. Ma
Gesù ci porta anche fuori di noi, all’esterno, fuori dal nostro io, verso gli
altri, verso i fratelli.
Ci
sono porte della nostra vita che sono perennemente chiuse a chiave, serrate con
tutti i lucchetti possibili, che mai vorremmo aprire. Ma prima o poi arriva il momento
in cui è necessario aprire quelle porte, anche se aprirle ci fa paura, anche se
siamo terrorizzati da ciò che troveremo, anche se faremmo di tutto per non
aprirle. Ci sono dei passaggi che dobbiamo fare ad ogni costo: ne va della
nostra vita. La vita ci mette di fronte a certe porte: se vogliamo andare
avanti dobbiamo passare di lì. Noi vorremmo evitarla, entrare da un'altra parte,
trovare una soluzione alternativa, ma non si può. Se vogliamo progredire dobbiamo
passare di lì. Altrimenti ci fermiamo., ci blocchiamo.
Ci
piacerebbe passare per altre vie per evitarci sofferenza e fatica: ma sono i
briganti che fanno così. Ma non abbiamo alternative: la porta ci sta davanti; dobbiamo
oltrepassarla e basta! Perché la porta – anche se la temiamo - ci conduce comunque
verso qualcosa di nuovo, di diverso: è un passaggio obbligato. Dio è un
passaggio obbligato. Magari ora non lo capiamo, ma un giorno i nostro occhi si
apriranno e capiremo!
Allora,
non fermiamoci, usciamo, cambiamo, progrediamo! Apriamo la porta al nuovo, abbiamo
il coraggio di ricominciare, di andare oltre, di cambiare.
Noi
siamo portati ad essere sempre gli stessi: ma la vita non è così. La vita è
sempre nuova, diversa, altra, in continua evoluzione. Dio è porta: se incontriamo
Dio, Dio ci fa diversi, ci trasforma, ci cambia, ci apre porte sconosciute;
apre tutte le stanze della nostra anima, e poi ci manda fuori,ci manda là dove
neppure immaginiamo. Più un uomo è ottuso, chiuso, pieno di pregiudizi, sempre sulla
difensiva, meno conosce Dio. Gesù è la porta: usciamo, andiamo, apriamoci,
incontriamo gli altri, impariamo, non fermiamoci, non temiamo.
Vangelo
vuol dire “buona nuova”. È buona, proprio perché è sempre nuova, non è mai la
stessa. Gesù fu ucciso non perché portò un messaggio buono, ma perché portò un
messaggio nuovo. Il nuovo ci terrorizza, ci fa paura. Il nuovo ci toglie le
sicurezze che avevamo prima. Ma se uno non diventa nuovo, non si rinnova, è già
vecchio, ha già smesso di vivere. “Tutto invecchia”, dice Il Qohelet: per cui o
ti rinnovi o muori. La gioventù non è un'età, ma una “dimensione” della vita.
Anche
una parrocchia, anche una chiesa, possono essere vecchie. E se una chiesa è vecchia,
diventa inutile, superflua, nessuno sa cosa farsene di lei. Per questo bisogna
saper cogliere il nuovo, le nuove esigenze e le nuove situazioni.
Bisogna
soprattutto mettersi in gioco, perché rinnovarsi (cioè entrare per la porta del
tempo presente) non vuol dire solo prendere qualcosa di nuovo ma anche avere il
coraggio di lasciare qualcosa di vecchio, qualcosa di inutile, qualche zavorra
alla quale siamo affezionati, ma che inevitabilmente ci rallenta la corsa. E
potremmo perdere il treno del nostro rinnovamento, potremmo perdere la corsa
verso una vita nuova, più splendida, più entusiasmante, più aperta, più ricca,
più traboccante e ricca: una vita che possiamo raggiungere attraversando la
porta di Cristo risorto, perché Lui solo è “vita vera e abbondante”. Amen.
«Mentre conversavano e
discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i
loro occhi erano impediti a riconoscerlo». (Lc 24, 13-35).
Il
vangelo di oggi racconta la delusione dei due discepoli che, abbandonata
Gerusalemme, si dirigono verso Emmaus. Camminano e parlano fra loro. È naturale
che i loro discorsi siano incentrati sulle ultime ore di vita del loro maestro,
la cui tragica fine è ancora impressa dolorosamente nella loro mente. Avevano
creduto in Gesù, avevano posto il lui grandi speranze; veramente quest'uomo li
aveva "presi", entusiasmati, contagiati. Ma adesso tutto è finito e
la loro delusione è grande, enorme, insopportabile, senza fine.
Sembra
vederli quei poveretti, quando al tramonto camminano assorti nei loro sconfortanti
ricordi: eppure quante volte ci ritroviamo anche noi nello stesso identico
stato d’animo: “Questo proprio non mi doveva succedere! Non me l'aspettavo! Non
ci voleva! Ed ora cosa faccio?”. E siamo delusi, abbattuti: “Pensavo che le
cose andassero diversamente, e invece...”. E siamo infuriati: “perché la vita
ce l’ha tanto con me? Che ho mai fatto a Dio di tanto male?”. Quante volte
siamo delusi anche noi da come va la nostra vita! Nutrivamo tante speranze, avevamo
delle attese, delle aspettative sui nostri rapporti, sul nostro matrimonio,
sulle amicizie, sul nostro futuro… e invece, poi, contro ogni logica, tutto è
andato storto!
Sì, siamo
giustamente e profondamente delusi: e non ci accorgiamo che, sempre nella
nostra vita, quando siamo in difficoltà, Gesù si mette al nostro fianco,
cammina con noi, percorre la nostra stessa strada. Come succede ai due
discepoli di Emmaus, non ci rendiamo conto della sua presenza, non lo
riconosciamo. Eppure quella di vederlo è un’esperienza meravigliosa che tutti
possiamo vivere, nessuno escluso: è sufficiente avere fede.
Purtroppo
però noi ci siamo fatti di Dio un’idea tutta nostra: quando cioè deve intervenire,
egli lo fa in maniera forte, straordinaria, si presenta in modo eccezionale, con
una presenza sovrumana, con metodi strabilianti: solo così noi lo potremmo
riconoscere; solo così potremmo accettare i suoi discorsi, i suoi consigli. Se
vuole avvicinarsi a noi, lo deve fare in certi modi, a certe condizioni: siamo
noi a dettare le condizioni, a stabilire come, dove, quando. Nella vita abbiamo
cose ben più importanti per la testa, che immaginare un Dio che improvvisamente
decide di calarsi nella nostra vita, nelle nostre giornate, camminare al nostro
fianco, rimanendo in incognito. Non siamo inclini agli indovinelli!
Eppure
dovremmo sapere che proprio quando non lo vediamo, proprio quando la nostra
vita è uno schifo, arida, quando abbiamo veramente bisogno di Lui, quando lo
chiamiamo a gran voce ma lui non si fa vivo, non è Lui che non viene da noi, ma
siamo noi che, schiavi dei nostri schemi mentali, non riusciamo a vederlo. E
nonostante ciò, Egli ripasserà ancora, correrà da noi ogniqualvolta ci troviamo
in difficoltà:ma se noi continuiamo a guardare sempre con il paraocchi, continueremo
sempre a non vederlo: questa purtroppo è la nostra grande sventura.
Sì,
perché Dio nella sua pazienza, nel suo immenso amore, continua a starci sempre
accanto, anche quando noi non lo vediamo, lo ignoriamo. Dio ci parla, ci guida,
ci indirizza anche se non ci accorgiamo che è veramente Lui.
Continuiamo
testardamente ad andare per la nostra strada, in senso contrario a quello in
cui dovremmo andare. Siamo al buio, senza Luce, senza Dio: continuiamo a fare ciò
che non dovremmo fare, proseguiamo a casaccio per la nostra cattiva strada, rincorsi
dalla paura, dall’angoscia, dal risentimento.
Gli
apostoli avevano abbandonato tutto per Gesù: casa, lavoro, famiglia, moglie,
figli; in una parola tutte le loro certezze: possiamo quindi capire bene la
delusione immensa che hanno provato alla sua morte.
Per
loro è stata veramente la “fine del mondo”. Ma, incredibilmente, è proprio in
questo “fallimento”, è all'interno di questa amara delusione, che incontrano
Gesù.
Quando
ci succede qualcosa di grave e il mondo sembra crollare intorno a noi, in realtà
è la fine di un nostro mondo, non “del” mondo. Quando ci sentiamo dei falliti,
abbiamo mancato solo un nostro obiettivo, un nostro modo di vederci, un modo di
pensare, di vivere, ma non siamo “noi” i falliti. È nel bel mezzo delle nostre delusioni,
dei nostri fallimenti, che possiamo scorgere Dio al nostro fianco; è proprio
allora che possiamo incontrarlo a tu per tu, ascoltarlo, parlargli apertamente.
È qui, una volta abbattuti i muri del nostro orgoglio, della nostra caparbietà,
delle nostre apparenti sicurezze, che lui può entrare in noi e noi in Lui. È questa
l’occasione in cui possiamo fare una esperienza vera e profonda di Dio: è proprio
nel nostro fallimento più totale, quando cioè nessuno più ci stima, quando il
lavoro, la vita, la famiglia, non ci danno più alcuna soddisfazione, quando ci
accorgiamo di aver perduto la nostra facciata, il nostro buon nome, la nostra
onorabilità, quando ci scopriamo colpiti da una malattia che non perdona: è
esattamente allora che possiamo sentire in pieno la forza e il conforto del suo
amore. È allora che Dio si avvicina a noi: e non perché abbiamo qualcosa di “bello”
da offrirgli, ma semplicemente perché lui cerca noi, in tutta la nostra nudità,
in tutte le nostre debolezze e miserie. Allora abbiamo la certezza che Lui ci
ama semplicemente perché siamo noi, così come siamo; ci chiama con il nostro
nome: noi e nessun altro. Allora lo “sentiamo” per davvero; allora conosciamo
veramente chi è Dio.
Ogni
volta che cadiamo, ogni volta che falliamo, dobbiamo chiederci: “Cosa mi sta
dicendo ora Dio? Cosa devo imparare?” E dobbiamo ascoltarlo, perché lui solo ci
guida alla salvezza, solo a lui noi interessiamo così come siamo, anche se
siamo caduti così in basso. E lui, quando si avvicina, ci fa parlare, ci fa
esprimere tutta la nostra amarezza, le nostre delusioni, la nostra tristezza,
il nostro malessere, tutti i disagi che abbiamo dentro.
Noi
abbiamo bisogno di "tirare fuori" il nostro male, il nostro dolore,
tutto ciò che ci opprime. Il dolore è come un veleno: se non lo sputiamo fuori ci
uccide. Abbiamo bisogno di "tirare fuori" le nostre gioie, le nostre
speranze, la nostra vita, perché prenda forma, perché circoli, perché viva, perché
si espanda. Abbiamo bisogno di raccontare le nostre esperienze, il nostro
profondo perché raccontandolo lo facciamo esistere.
Chi ha
vissuto queste esperienze lo sa: quando i nostri cuori si sono aperti nella
preghiera, quando si sono rivelati umilmente in tutta la loro debolezza, quando
abbiamo abbassato tutte le nostre maschere, è allora che abbiamo sentito davvero
Dio. Chi non vuole aprirsi quando lui si avvicina, decide di non incontrare il Dio
della vita. E non capisce che senza la luce di Dio nulla ha un senso: perché è
lui che ci indica il filo conduttore che lega tutto ciò che ci succede: è così che
possiamo guardare la nostra vita con gli occhi di Gesù, con gli occhi della
fede. E la nostra vita acquista allora un senso profondo. Anche le cose
apparentemente più negative, come la malattia, le disgrazie più sconvolgenti, acquistano
un significato. Non è mai un caso se succedono e viviamo certe cose: e quando ci
accorgiamo che tutto accade per un senso, per un motivo, è allora che diventiamo
responsabili della nostra vita e di quella degli altri; è allora che non possiamo
più vivere con gli occhi chiusi; è allora che sentiamo la nostra vita veramente
nelle nostre mani e soprattutto nelle nostre scelte.
Gesù
si affianca ai discepoli e li ascolta. Non fa altro. Loro però non lo
riconoscono perché sono troppo presi dai loro problemi, dal loro dolore, dalla
loro delusione e dalla loro sofferenza. Avviene esattamente anche a noi quando siamo
troppo dentro ad una cosa: non vediamo altro che questa. Solamente dopo aver
"buttato fuori" tutta la nostra sofferenza potremo "vedere"
le cose diversamente. Solo allora potremo vedere Gesù.
E allora
quando ci rivolgiamo a Lui, preghiamolo non perché sia Lui a risolvere i nostri
problemi, ma perché aiuti noi a vederli e a risolverli. E dobbiamo essere
pronti ad accettare la sua risposta. Qualunque risposta.
Il
vangelo di oggi, poi, ci dice che tutto questo (Gesù che ci accompagna, Gesù che
vuole che ci confidiamo con lui, Gesù che ci spiega che tutto ha un senso positivo
nella vita, compresi i fallimenti e le sconfitte) lo possiamo trovare realmente
nell’Eucaristia: allo “spezzare del pane” sull’altare, anche i nostri occhi si
apriranno, e sentiremo il nostro cuore aprirsi e “ardere” di gioia.
Anche
i discepoli lo riconoscono in questo momento; e anche noi, in questo momento, capiremo
che Lui è sempre, continuamente, al nostro fianco; capiremo che Lui c’è sempre,
quando lo vediamo e anche quando non lo vediamo, quando lo sentiamo e anche quando
non lo sentiamo. È una certezza intima, quella che sentiremo, che ci consolerà,
ci ricaricherà, ci darà la forza di superare ogni asperità del nostro cammino.
In quel momento di grande intimità con Lui, sentiremo il nostro cuore ardere di
un fuoco che illumina, che riscalda, che brucia, che spiana ogni difficoltà: e
ci sentiremo pronti, nel nostro andare, ad essere anche noi fuoco di luce e di
calore per quanti incontriamo. Sì, perché quando abbiamo Dio dentro di noi, non
abbiamo più bisogno di trovarlo fuori; quando Dio è dentro di noi, ovunque
andiamo, lo porteremo sempre con noi e potremo condividerlo nell’amore e nella
carità con quanti incontriamo. Amen.