Fino
al V secolo la festa della Resurrezione di Gesù, comprendeva anche l’Ascensione
e la Pentecoste. Solo successivamente sono nate tre feste: Gesù è vivo? Sì,
Gesù non è rimasto nella morte (Resurrezione);
e dov’è adesso Gesù? È salito al cielo, cioè è in Dio (Ascensione) e lascia a noi il compito di proseguire la sua opera.
E ci lascia soli? No, perché è presente in mezzo a noi con il suo Spirito (Pentecoste). Dunque «Andate in tutto il mondo e proclamate il
Vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto»
(Mc 16, 15-20).
La duplice
sottolineatura fatta dal vangelo dell’andare
e del predicare, non è casuale ma
voluta. All’ordine impartito, segue puntualmente il suo compimento. Viene cioè
rimarcata l’importanza della missione: non siamo invitati ad andare per “esibirci”,
per fare gli “uomini immagine”, ma per “predicare”, per far “conoscere” e testimoniare
il vangelo a tutti, ovunque.
Chi
c’era prima che andava dappertutto? Chi era prima il maestro e predicatore?
Gesù, ovvio. Ma adesso Lui non c’è più, è asceso in cielo, e manda noi suoi
discepoli. Noi dunque siamo i nuovi Gesù. E notiamo bene: “In tutto il mondo…
ad ogni creatura… dappertutto”: il vangelo, (eu-anghelion=buona/bella
notizia), l’annuncio, infatti, è per tutti, indistintamente; la chiamata alla
salvezza e alla santità è universale, fratelli, per cui dobbiamo essere noi a
renderla possibile a tutti, anche se sappiamo che salvezza e santità non sono riservate
automaticamente a “tutti”, ma soltanto a quei “molti” che liberamente
accetteranno il messaggio e lo vivranno fedelmente. Del resto cosa ha fatto
Gesù qui in terra? Mentre i religiosi ebrei dicevano: “Questi sì e quelli no;
questi sono buoni e quelli cattivi; questi sono degni e quelli no; questi in
paradiso perché puri, quelli all’inferno perché impuri (donne, peccatori,
pubblicani, pastori, pescatori, lebbrosi, ammalati, usurai, ecc.)”, Gesù invece
diceva: “Io vado da tutti. Io non guardo in faccia nessuno, non guardo la carta
d’identità, io guardo il cuore. Io ho un messaggio da proporre al vostro cuore,
un messaggio di luce, di vita, di amore, di riconciliazione, di pace, di
verità. E vengo da voi. Se mi accogliete bene; se non mi accogliete vado da
un’altra parte. Ma Dio è per voi e per tutti”. Una volta si leggevano queste
parole pensando: “Bisogna convertire il mondo. Bisogna cristianizzare il mondo
intero. Bisogna battezzare tutti”. Ma Gesù non vuole assolutamente fare
proseliti o seguaci “per forza”. Gesù vuole solo che il suo vangelo, il suo
messaggio d’amore arrivi proprio a tutti. In altre parole vuol dire: “Guardate
che Dio è già dentro di voi! Tiratelo fuori, vivetelo, esprimetelo. Se volete
la salvezza, dovete fare così. Non avete idea di quanta forza, di quanta
potenza, di quanta energia voi disponiate dentro di voi. Voi potenzialmente siete
già tutti di Dio: io non vengo per aggiungervi qualcosa dentro, ma solo per dimostrarvelo,
per farvelo capire bene, perché possiate toccare con mano, vedere e rendervi
conto, di ciò che siete e di ciò che con
me potrete essere”.
Non si
tratta dunque di convertire tutto il mondo, ma di annunciare che il Dio del
vangelo è veramente il Dio di tutti, di quelli che credono e di quelli che non
credono, di quelli vicini e di quelli lontani, dei buoni e dei non buoni, dei
giusti e dei non giusti. Non si tratta di mettere Dio “dentro”, ma di farlo tirar
fuori! Perché Dio è la possibilità di un incontro, di una esperienza che tutti
possiamo fare, di una semplice parola, perché Dio vive già dormiente in noi.
La
catechesi, la predicazione, gli esercizi spirituali, non servono per
“aggiungere”: devono soltanto far “emergere”, far risplendere la grandezza di
Dio che vive in noi, di quel Dio che vive “diverso” ma unico, in ogni creatura.
Dio è una presenza costante. Educare a Dio vuol dire quindi mettere ogni
creatura in collegamento, in relazione col Dio che già vive dentro di lei. Poi
sarà lei a decidere sul da farsi. Non noi. Non gli altri. Altrimenti diventa
imposizione, violenza: come se tutti dovessero avere la nostra stessa idea, condividere
la nostra medesima esperienza di Dio, privata e personale, senza accorgerci che
così facendo invece di avvicinare i nostri fratelli a Dio, semplicemente li allontaniamo
dal “loro” Dio, dal Dio che coabita in loro, dalla loro risposta personale, una
volta che noi glielo abbiamo indicato.
Siamo
dunque noi i chiamati ad essere nuovi Gesù. Lui non c’è più, ci siamo noi. Gesù ha
vissuto un tempo storico, circa trentatre anni. Poi se ne è andato. Ma adesso
ci siamo noi. Il vangelo è chiaro: «Essi
(cioè noi) partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava
insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano».
Sono
le ultime parole del vangelo di Marco: la storia di Gesù finisce qui; e da qui
inizia quella della Chiesa, la nostra storia. Lui non c’è più, anche se in
effetti c’è sempre; perché Lui vive in noi: Egli continua a vivere attraverso
le nostre mani, i nostri piedi e le nostre labbra, le nostre azioni. «Operava insieme con loro»: in greco è “sinergia”: noi agiamo e Lui è la nostra
forza; con l’Ascensione, come abbiamo detto, Dio non agisce più se non
attraverso di noi, solo ed esclusivamente attraverso di noi.
Purtroppo
il nostro cristianesimo è ancora troppo bambino: noi siamo interessati
soprattutto a chiedere; noi chiediamo tutto a Dio (che faccia questo, che ci
tolga il dolore, che ci cambi la vita, che cambi il mondo e gli altri, che ci
mandi il miracolo o quello che ci serve). Siamo come i bambini che chiedono,
chiedono, chiedono. Ma ora, fratelli, siamo diventati grandi, e il nostro
cristianesimo, la nostra fede, devono essere adulti: Dio c’è? No, se pensiamo
che Lui debba fare tutto ciò che dobbiamo fare noi, fare le cose al posto
nostro. Dio in questo modo non interviene più, non scende più. Non possiamo più
appellarci a Lui. Dio c’è? Sì, se finalmente siamo convinti che Lui è la forza
che c’è in noi, che Lui è la fiducia e la vita che abitano in noi, alle quali possiamo
liberamente e continuamente attingere. Da questo punto di vista Lui è sempre
con noi e lavora (sin-energia) con
noi e attraverso di noi.
Poi
c’è una frase da chiarire: «Chi crederà e
sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato». È la
conseguenza finale. Il concetto di salvezza implica purtroppo quello di
condanna: o ti salvi o sei condannato, perso, morto; o vai in paradiso
(salvezza) o vai all’inferno (condanna). Ma prima di arrivare a tanto, urliamo
a tutto il mondo cosa vuol dire “salvezza” nel vangelo di Gesù: “salvezza”, per
Gesù, è vivere alla luce del vangelo, cioè una vita vibrante, appassionata,
dove la gioia si esprime, l’amore fluisce e scorre, la tristezza e il pianto
escono, la voglia di cantare e di vivere si sprigionano, dove si va al di là di
se stessi, dove insomma ci si sente “vivi”. Questo per Gesù è “credere”: perché
quando incontri veramente Dio ti infiammi, bruci di vita. Prima eri freddo, di
ghiaccio, morto; improvvisamente ti riscaldi, ti sciogli e diventi meravigliosamente
vivo. “Salvarsi”, per Gesù, vuol dire salvarsi dal morire di ogni giorno,
dall’essere spenti, dall’essere come dei morti che vivono. “Condanna” è non
credere; cioè non poter pensare o non riuscire ad essere così vivi. Vuol dire chiudersi,
rifiutare l’annuncio, ignorarlo volutamente. Per questo è importantissimo che
tutti lo conoscano.
E quali
sono i segni che accompagneranno il nostro “andare”
e “predicare”? «… nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove,
prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro
danno…».
Quando
pensiamo alla vita dei Santi, diciamo: “Che uomini straordinari! Come hanno
fatto a fare tutto quello che hanno fatto?”. E rimaniamo stupiti, meravigliati,
come se fossero dei super-uomini, dei super-eroi. Invece è vero il contrario:
non sono loro che hanno vissuto da super-eroi, siamo noi che viviamo decisamente
al di sotto delle nostre possibilità. Quello che loro hanno fatto, è esattamente
ciò che tutti possiamo fare, ciò che tutti possiamo vivere.
«Parlare lingue nuove». Ma, fratelli, abbiamo mai ascoltato
i nostri discorsi? Di cosa parliamo noi? Del tempo, di ciò che ha fatto o detto
il vicino, il collega, il capoufficio; dell’ultimo gossip; con tante chiacchiere,
tante insinuazioni, tanti giudizi, con tante parole vuote, senz’anima. Per il
semplice fatto che parliamo, siamo convinti di comunicare, di trasmettere, di
esprimerci. Ma non è così. Però possiamo farlo con altri linguaggi, diversi dal
nostro; con quelle “lingue nuove” di cui parla il vangelo: come per esempio il “linguaggio del silenzio”: ti ascolto; faccio
silenzio e ti ascolto; ascolto le tue parole e il tuo cuore. Ascolto la natura,
il canto degli uccelli; ascolto il mio cuore che batte o il respiro della mia
anima. C’è il “linguaggio degli occhi”:
fermiamoci un momento e guardiamoci negli occhi. Perché gli occhi sono lo
specchio dell’anima; attraverso gli occhi raggiungiamo l’anima dei fratelli. Il
“linguaggio del corpo”: abbracci,
carezze, baci, coccole, contatto: con chi ci sta vicino, con chi amiamo e ci
ama, con i figli, è un linguaggio indispensabile. Il “linguaggio del cuore”: esprimere le nostre emozioni, le nostre
paure, i nostri bisogni e desideri. Il “linguaggio
dell’anima”: piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi,
essere felici; un linguaggio che unisce e rende compartecipi.
Ebbene,
fratelli, noi siamo troppo distratti: non ci rendiamo conto di quanta vita, di quanta
energia, di quanta forza, di quante vibrazioni noi possiamo comunicare con questi
linguaggi, con queste parole che non sono “parole”.
«Prendere in mano i serpenti». Il serpente è pericoloso, a
volte mortale. Lo sappiamo bene; quante volte infatti evitiamo le persone,
perché le giudichiamo “serpenti”; quante volte fuggiamo dai nostri doveri,
dalle cose che dobbiamo fare: ci fanno paura, siamo convinti di non farcela, sono
troppo grandi, troppo pericolose. Invece la nostra è solo paura. “Con me puoi
tutto”, dice il Signore. “Prendi in mano ciò che ti fa paura!”. Andare in
chiesa, vivere da cristiani, onestamente, non ci dice più nulla? Affrontiamo la
questione. Perché tirare avanti e fingere che tutto vada bene? Parliamone
umilmente con la nostra guida spirituale! C’è qualcosa che non va con i
fratelli? Qualcosa di segreto che ci turba? Prendiamo in mano la situazione. “È
difficile, mi vergogno!”: tranquilli, abbiamo dentro di noi tutta la forza per
farlo, perché Lui è con noi, Lui lavora (sinergia)
con noi. C’è una questione scottante, scabrosa, un problema veramente difficile,
che ci fa paura? Prendiamola in mano, Lui è con noi. Se, fratelli, ci fissiamo soltanto
sul problema, non abbiamo molte possibilità di risolverlo. Ma se guardiamo anche
alla Sua forza che è in noi, allora tutto sarà più semplice, tutto si potrà affrontare
e superare.
«Se berranno qualche veleno,
non recherà loro danno».
Gli altri sparlano di noi, con cattiveria. È veleno. Veleno puro. Ma dobbiamo
essere “superiori”, sapere che questo è lo scotto che tutti prima o poi devono
pagare: del resto “se sei buono ti tirano le pietre”, come diceva una vecchia
canzone; e se sei cattivo anche. La maldicenza fa parte della natura umana: non
ci si può proteggere dal giudizio degli altri. Noi saremo sempre e
continuamente sottoposti a giudizio, critica, osservazione, disapprovazione: ma
possiamo imparare a disinteressarci e continuare per la nostra strada, al di là
di tutto questo. È chiaro che a nessuno piace non essere apprezzato, capito,
giudicato positivamente; anzi a tutti fa male il veleno della critica. Ma Dio,
che è dentro di noi, è più forte delle critiche di tutte le persone; se siamo
ancorati nella Vita, diventeranno innocue, sarà un gioco berle e mandarle giù.
E
concludo: Lui è dunque asceso al cielo: ma ora, fratelli, al suo posto qui
sulla terra ci siamo noi. Ascensione non significa “sottrazione” della persona
di Gesù al nostro contatto, ma “moltiplicazione” della sua presenza attraverso
noi. Beh, pensiamo, è un’impresa difficile, a volte disperata! Ma non è vero: dobbiamo
solo pensare che dentro di noi c’è Lui; Lui, che continua a vivere in noi con
tutta la sua forza. Quello che ha fatto Lui, lo possiamo fare anche noi. E se siamo
convinti di questo, niente ci sarà impossibile, nulla potrà abbatterci. Non a
caso Gesù disse: “Chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di
più grandi perché io vado al Padre” (Gv
14,12). Ecco, fratelli, questo ci dice l’Ascensione: e allora perché stiamo
ancora col naso all’insù, a “guardare il
cielo” (At 1,11)? Perché continuiamo a rimanere “imbambolati” e dubitiamo
ancora? Muoviamoci. Tutto dipende da noi, tutti ci stanno aspettando! Amen.
«Come il Padre ha amato me,
anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei
comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del
Padre mio e rimango nel suo amore»(Gv 15,9-17).
Se ci
guardiamo intorno, mentre ci vengono proclamate dall’ambone queste parole, la
reazione che notiamo è soltanto quella di una totale indifferenza. Non incidono
più, non colpiscono più, ci scivolano addosso, senza provocarci più alcuna
emozione. Del resto sono sempre le stesse parole, sentite e risentite in tutte
le salse; ci sono state bombardate nelle orecchie fin dal catechismo della
prima comunione, e riascoltate poi durante gli anni in migliaia di prediche e
di conferenze. Ma perché puntualmente ogni tanto ci viene riproposta questa
raccomandazione? Perché non ci viene detto qualcosa di diverso? Ebbene,
fratelli: non si può. Non c’è niente di diverso che sia altrettanto
fondamentale, altrettanto essenziale di questo comandamento di Gesù. È il punto
di partenza del cammino cristiano; è il testamento originale di Gesù; sono le
parole chiave di tutto il suo Vangelo. Dobbiamo amarci; i cristiani devono
amarsi. Punto.
Invece
pensiamo: “Noi siamo cristiani, e quindi questo lo facciamo già”. Mah!, è
davvero così scontato, così pacifico, che noi cristiani, gente che preghiamo,
che andiamo a messa, che facciamo pratiche di carità... ci amiamo veramente? Una
volta sicuramente: alludendo ai cristiani, la gente diceva: “Guardate come si
amano!”. Ma oggi? Anche oggi dicono di noi la stessa cosa? Scusate, ma ho dei
dubbi. Io perlomeno non l’ho mai sentita. Oggi ci definiscono semmai: “Quelli
che vanno in chiesa”, e quasi sempre lo dicono in un tono dispregiativo. Hanno
ragione? Beh, se noi prendessimo sul serio il comandamento dell’amore, questo
non succederebbe; questa sarebbe un’offesa bruciante, un giudizio superficiale
e limitativo, una grave carenza di obiettività: sicuramente non sarebbe un modo
corretto per identificarci. Succede però, fratelli miei, che proprio noi per
primi siamo convinti che, per essere buoni cristiani, sia sufficiente andare in
chiesa!
E allora
dobbiamo fare un piccolo esame di coscienza, dobbiamo chiederci seriamente: “In
che cosa si deve contraddistinguere un cristiano? Cosa lo identifica come tale?
Forse il fatto, come abbiamo detto, di andare a Messa? Il fatto di non
commettere peccati? Il fatto di pregare? Di destinare l’8x1000 alla Chiesa
Cattolica? Che cosa, dunque? Ebbene: la risposta ce la dà Gesù, dicendo
semplicemente: “vi riconosceranno dall’amore”. Ecco: è soltanto dall’amore che
si riconosce un cristiano; un vero cristiano
risalta subito per la passione, per l’entusiasmo con cui agisce, per la
discrezione e la riservatezza con cui tratta le persone e le cose: si distingue
cioè per l’amore che lo anima; solo per l’amore. Non dai vestiti, non dalle
croci d’oro appese al collo, non dalle messe domenicali o dalle scelte
politiche. Ma solo ed esclusivamente dall’amore. Non un amore qualunque, come potrebbe
essere inteso dal mondo, ma un amore identico a quello che ci ha insegnato
Cristo. Questo occorre ripeterlo e precisarlo, perché nulla di più ambiguo -
oggi – si nasconde sotto la parola “amore”.
Dietro
questa parola si celano una varietà infinita di significati: passione,
attrazione, erotismo, carità, benevolenza, interesse, coinvolgimento,
oblazione... Com’è, allora, l’amore cristiano che ci deve animare? Un amore dal
collo torto e lo sguardo melenso, riservato estaticamente ad una qualunque immagine
di Gesù e della Madonna? Nossignori: l’amore dei cristiani è un qualcosa di ben
più profondo: un amore che prima di essere donato agli altri, noi stessi lo
riceviamo dall’alto, lo accogliamo come un dono divino. È come in una fontana
dei villaggi di montagna: riceve l’acqua dalla sorgente fino a riempirsi
completamente; e, una volta piena fino
all’orlo, la lascia scorrere attraverso tanti rivoli, verso fiori, giardini,
colture secche e bisognose di vita. Ecco: il nostro amore è come quest’acqua
limpida e benefica; amare i fratelli, per il cristiano, non è uno sforzo, non è
un lavoro, non è una rappresentazione scenica; è una cosa naturale: significa riversare
spontaneamente e silenziosamente quello stesso amore che lui riceve
gratuitamente da Dio; quell’amore che, una volta saturato il suo cuore, si spande
a caduta sui fratelli. Noi infatti amiamo perché ci sentiamo fortemente amati.
Ci scopriamo scelti, pensati, calati in un progetto meraviglioso; ci sentiamo cercati
e svelati a noi stessi; ci scopriamo belli dentro, perché illuminati dal
Signore; capaci di amare oltre il possibile, perché riempiti dall’amore di Dio.
Scopriamo così che è l’amore, e solo l’amore, che riempie il mondo e regge
l’universo. Sentiamo che è possibile superare qualunque difficoltà, che
possiamo vincere qualunque rigurgito di egoismo che – talvolta – può distorcere
il nostro sorriso. Si, fratelli: noi possiamo amare ed accogliere gli altri,
perché Lui per primo ci ha amati e ci ama. Lo possiamo fare perché Egli, paziente
e misericordioso, ci ha dato la vita intera per poter restituire agli altri il
grande amore di cui ci ha privilegiati.
Certo,
non è sempre tutto rose e fiori; talvolta l’amore anche tra gli stessi fratelli
cristiani può essere sofferto e faticoso, può incontrare resistenze e contrasti,
imporre rinunce e privazioni.
Del
resto il nostro rapporto non si fonda sulla simpatia, ma sulla fraternità, e dobbiamo avere il coraggio di perdonare
presente ingratitudini, favorire sempre le ragioni dell’altro anche quando sono
sfavorevoli a noi. Dobbiamo imitare Gesù, nostro Maestro, che amò i “suoi” fino
alla fine, fino alle estreme conseguenze; dobbiamo amare fino al punto di
trasformare la nostra vita in un donarsi spontaneo e senza calcoli, sapendo
che, come dice Gesù, se uno perde la sua vita, la dona, la offre, la spende per
gli altri, in definitiva la guadagna. E dobbiamo farlo senza ricorrere a falsi
misticismi, senza ingenuità, ma vivendo la nostra quotidianità, disposti anche
a subire qualche incomprensione e qualche fregatura, pur di mantenere, quando
ci chiniamo sul prossimo, quello stesso sguardo benevolo che ebbe Gesù.
Questa
è la vita cristiana, fratelli: questo è il nostro programma; e penso che dovremo
tutti lavorare ancora sodo perché – almeno nelle nostre Pasque domenicali – si
respiri nella Chiesa vera accoglienza e carità, e non la noiosa fatica di dover
assolvere a un dovere...
Gesù è
stato chiaro: chi ama deve arrivare a sacrificare anche la vita per tutti i
propri fratelli. E sottolineo “per tutti”: anche per coloro che non conosciamo,
che non ci sono simpatici; anche per coloro che ci crocifiggono e che
preferiremmo evitare. L'amore che Gesù ci chiede è esattamente quello del
samaritano. Un amore che vede, si accorge, ha compassione, si fa vicino; un
amore che soprattutto interviene subito, in prima persona: fascia le ferite
all'uomo dopo averle pulite con olio e vino, lo carica sul somaro, lo porta al
pronto soccorso, sta con lui fino al giorno dopo. Un amore insomma che si
preoccupa della soluzione completa del problema. È questo, fratelli, il comportamento
che ci chiede Gesù. Non lo scarto, non le mezze misure, non i ritagli di tempo
tanto per…, ma il meglio, il tutto. Con tutti. Ogni giorno. Dovunque.
Perché?
perché l'amore è da Dio, l'amore è Dio stesso; e se vogliamo che Dio sia
presente in noi e intorno a noi, dove viviamo, lavoriamo, dove preghiamo, dove ci
muoviamo, dobbiamo semplicemente amare così. Le chiese, le pratiche di pietà,
le attività pastorali, i gruppi parrocchiali, servono soltanto se sono un mezzo
per praticare questo amore “speciale”. Se al contrario sono occasioni per
coltivare il nostro orgoglio, i nostri personalismi, se si riducono a fonti di maldicenze,
di critiche, di cattivi esempi, diamoci un taglio: facciamo una bella pulizia,
rovesciamo (come ha fatto Gesù all’ingresso del Tempio) qualche bel tavolino
con i suoi infedeli gestori, fosse pure quello della “Caritas”! Dobbiamo tener
sempre presente che il volontariato stesso è un corollario dell’amore, un
veicolo dell’amore, ma non è l’amore: dobbiamo noi trasformarlo in amore; né
più né meno come succede con l’automobile: è costruita per correre, per
muoversi velocemente, ma non lo farà mai se non saremo noi a metterci benzina e
a guidarla.
«Amatevi gli uni gli altri». Non è un consiglio, fratelli:
questo è un comandamento! È il comandamento! Per cui la messa, il volontariato,
le opere parrocchiali e tutto il resto, sono soltanto un dono, la possibilità
che ci viene offerta per riuscire a metterlo in pratica.
Può anche
sembrarci strano che l'amore, di sua natura oblativo, ci venga imposto, comandato.
Noi pensiamo infatti che non si possa coniugare imposizione e amore, obbligo e
spontaneità. Invece Gesù qui condiziona l’amore all’obbedienza: dobbiamo cioè
amare come risposta ad un suo ordine ben preciso.
Questo
comandamento però mette in gioco due elementi: forza e amore: ci impone cioè di
combattere con la forza dell'amore, l'amore per la forza. Perché, fratelli, l'amore
per la forza è l'ultimo amore che resta prima di raggiungere il nulla, prima cioè
della nostra autodistruzione. Invece la forza dell'amore, Gesù ce l'ha
dimostrata con la sua passione e morte, foriera di gloria e risurrezione. Così
adesso può dirci: «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati». Non si
tratta più quindi di un “comandamento” dall'esterno che ci impone
l'impossibile, bensì di una esperienza di amore donata dall'interno; un amore pertanto
che, per sua natura, deve essere ulteriormente partecipato ad altri. Si,
fratelli, perché l'amore cresce attraverso l'amore. L'amore è “divino” perché
viene da Dio e ci unisce a Dio; e mediante questo processo unificante, ci
trasforma in un “Noi” che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa
sola, fino a quando, alla fine, Dio sarà “tutto in tutti”.
Accogliamo
quindi con obbedienza di figli questo amore che viene da Dio e ad esso
rispondiamo con l'adesione della nostra fede e con la pratica delle buone opere,
che Dio ci chiede, per essere i suoi fedeli testimoni. Torniamo alle origini,
fratelli miei. Torniamo al tempo in cui dicevano di noi: “Guardate come si
amano”. In questo modo, già fin d’ora, la gioia vera di Gesù sarà in noi, e questa
nostra gioia sarà piena. Amen.
«Rimanete in me e io in voi.
Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite,
così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi
rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete
far nulla». (Gv 15,1-8)
Fino a
domenica scorsa il vangelo si era preoccupato di descriverci gli eventi
accaduti immediatamente dopo la risurrezione di Gesù. Dalla quarta domenica di
Pasqua invece abbiamo fatto un brusco salto indietro: dalle apparizioni di Gesù
risorto ai suoi, siamo passati a meditare alcuni brani particolarmente
significativi, tratti dal discorso di addio pronunciato da Gesù nel
cenacolo dopo la cena del giovedì santo, immediatamente prima della sua cattura
e della sua morte. Un lungo discorso, che è un po’ il suo testamento spirituale (Gv 13-17), in cui Gesù apre il proprio cuore ai discepoli e parla di ciò che più gli preme;
parla di sé, di loro, di ciò che li aspetterà, dell’amore e dell’odio che
troveranno.
Abbiamo meditato domenica sull’immagine del buon pastore: un “pastore bello” che non
ci abbandonerà; qualunque cosa accada lui veglierà sulla nostra
sopravvivenza. Oggi invece ci viene proposta un’altra immagine, altrettanto
carica di significato, quella della vite e dei tralci: la sopravvivenza questa
volta è possibile solo se saremo noi a rimanere uniti a Lui, come tralci alla
vite-Vita.
Gli
apostoli e i primi cristiani concepivano in questo modo il loro rapporto con il
Signore: Lui la vite, loro i tralci. Il tralcio è indipendente, un'altra cosa rispetto alla
vite. Il tralcio non è la vite. Ma il tralcio, se unito alla vite, porta
frutto; lontano da lei, tagliato via, dissecca e non potrà mai più portare frutto. La vite è
per il tralcio la forza, il nutrimento, la vita, il suo tutto. E il tralcio,
pur essendo tralcio, diverso dalla vite, è un tutt'uno con la vite.
L’immagine,
molto chiara e accattivante, rende perfettamente ciò che dovrebbe essere la
comunità cristiana. Tutti uniti (un’unica vite) ma ciascuno nella sua grande
diversità (tralci diversi con una resa diversa). Sì perché, fratelli, pur nella
nostra unicità con la vite, siamo peraltro assolutamente “diversi” tra noi,
siamo tutti “entità autonome”. Guardiamoci attorno: c’è chi ama l’arte, chi il disegno, chi la
musica, chi la pittura, chi lo studio, chi la letteratura, chi lo sport, chi
viaggiare. Ma se non siamo per niente studiosi, o artisti, o musicisti, o sportivi,
non per questo siamo inferiori agli altri: siamo tutti tralci; ma “altri”. Ogni tralcio è se stesso, siamo
noi, sono io: nome e cognome.
Spesso
succede, invece, di pensarci tutti uguali: e pretendiamo non di uniformarci noi agli altri,
ma di uniformare gli altri a noi. Se non corrispondono al nostro modello, non
ci vanno bene, li critichiamo, li giudichiamo, li condanniamo. Non sappiamo
accettare la coesistenza con gli altri, l’unicità degli altri. E ci succede questo, fratelli, perché siamo noi stessi
che non ci conosciamo, non accettiamo la nostra unicità, perché non ne apprezziamo il valore e la potenzialità, e quindi non la viviamo.
Se invece noi
viviamo noi stessi, automaticamente accettiamo che anche gli altri vivano loro stessi, vivano cioè la loro realtà, le
loro aspirazioni. Ma se noi non riusciamo a farlo, al momento dell'inevitabile confronto con l'altro, la
nostra frustrazione esplode, ci provoca invidia, rabbia, malessere, cattiveria.
Ciò che
conta invece, fratelli, è che ognuno deve vivere se stesso, deve potersi esprimere al massimo delle
sue potenzialità, essere esattamente il tralcio che lui deve essere. Ciò che conta è che
ognuno deve portare frutto secondo le sue potenzialità. Ciò che unisce una
famiglia, una comunità, non è fare le stesse cose, ma è l’amore, la
circolazione della linfa, il dialogo, la condivisione, l’unione profonda che si
crea e che viene vissuta comunitariamente.
Molte
famiglie si credono unite perché, magari, si ritrovano insieme tutte le
domeniche. Ma non è questa l’unità. L’unità è essere uniti nell’anima, in
profondità, sentire che anche gli altri percepiscono il nostro profondo e che noi
sentiamo il loro. Come la vite con i suoi tralci. Questa è unità.
L’immagine
della vite, della vigna, era molto usata al tempo di Gesù. Israele era la vigna
di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nelle vigna, il luogo
dell’amore, dell’estasi, della gioia nuziale. Il vino, frutto della vite, per
gli antichi era il simbolo della felicità, dell’ebbrezza, dell’intensità del
piacere, della vita vera. Quando a Cana, alle nozze, manca il vino la festa sembra compromessa,
sembra finire; ma poi ci pensa Gesù e la festa e le danze ricominciano con
maggior entusiasmo perché il vino, quello migliore, improvvisamente è
ricomparso in abbondanza.
L’immagine
dei tralci uniti alla vite, proposta dal vangelo di oggi, ci dice quindi gioia,
felicità, frutto abbondante, vendemmia assicurata: e ciò grazie alla vita,
alla linfa che scorre continuamente al loro interno. Il riferimento a noi è
immediato: se perdiamo contatto con le nostre radici, con la vite, con la Vita,
nessuna gioia è più possibile. Noi infatti siamo come tanti tralci: per cui non separiamoci dalla
vite, dalla nostra unica fonte di Vita; non isoliamoci mai, non separiamo mai
il nostro cuore dalla nostra anima, non distruggiamo la comunione profonda che
li lega, non tagliamoci fuori dal nostro profondo, da ciò che abbiamo e
proviamo dentro di noi, perché, in quel preciso momento, noi ci perderemo; non avremo
più linfa e seccheremo, moriremo, diventeremo inutili sarmenti destinati a bruciare. È
la legge inesorabile della vita, della natura.
Gesù si
propone come la Vite-Vita vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto
della vita, io sono l’ebbrezza della vita, io sono l’elisir della vita, io sono
il vero piacere della vita”.
Ogni
volta che il sacerdote nell’eucaristia pronuncia sul vino: “Questo è il mio
calice, versato per voi”, ci suggerisce due cose importanti: che il sangue rappresenta la
sofferenza, l’aspetto difficile della vita, l’aspetto duro, ostico, doloroso (del
resto nel vangelo si parla di essere potati, purificati, tagliati); ma ci dice
anche che quel vino è Gesù stesso, quel vino è il nostro gusto, il nostro sapore, la
nostra gioia di vivere; è ciò che ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura.
Ecco perché la vita deve essere un piacere; vivere, deve essere bello, gustoso,
appassionante, altrimenti è una pena, un peso insopportabile. Gesù non è stato e
non sarà mai nemico del piacere, della gioia, del divertimento: lui è la vite, è l’origine stessa del piacere!
Gesù mangiava, beveva, faceva festa, e... guarda guarda, per dare felicità non rispettava neppure il sabato. Egli amava la
vita perché Lui era la vera Vita.
E allora,
fratelli, che aspettiamo? Coraggio: come il vino che gustiamo ci rallegra la vita e l’anima,
così non dobbiamo temere di accostarci anche ad altri piaceri della vita: come dare (e ricevere)
un bacio, una tenera effusione amorosa, un lungo e carezzevole abbraccio alla
persona che condivide la nostra quotidiana esistenza; non dobbiamo aver timore, farci scrupoli, di ricevere le sue tenerezze;
come pure non dobbiamo temere di concederci qualche giornata di svago con gli
amici, di farci una lunga passeggiata, un bel viaggio turistico, di andare al cinema o al teatro per assistere
ad uno spettacolo che valga. Gesù è
il vino, è il gusto, il sapore della vita; provare il piacere di vivere, gustare
la gioia della vita, è un modo giusto per esprimergli riconoscenza per la Sua bontà,
per prepararci a sperimentare con il poco di ora, la grande felicità eterna, il Suo gusto, il suo sapore eterno, il suo amore incontenibile e senza fine, nella visione beatifica di Dio.
Molte
persone straparlano di amore, di amore di Dio: sono convinte di essere loro gli
unici illuminati, gli unici destinatari, gli autentici depositari, gli esclusivi dispensatori dell'amore divino; e per essere degni di questa “alta” vocazione, conducono una vita triste,
sconsolata, inerte, con scelte volutamente cariche di sacrifici, di sofferenze,
di privazioni. Ma non è così, fratelli, che dimostriamo di “amare Dio”. Non è
questo l’amore che Dio vuole da noi. Dio ha creato il mondo, le persone, le
cose, il buon cibo, il sole, il vento, le stelle, i fiori e i colori, solo ed esclusivamente per
noi; perché noi li potessimo gustare, assaggiare e assaporare; perché noi potessimo
gioirne, riempiendoci il cuore e l’anima. Dio è buono, fratelli. Egli ci ama e ci vuole soddisfatti. Non
dobbiamo quindi aver paura di essere felici. Il Talmud dice in proposito:
“Saremo giudicati su tutti i piaceri legittimi a cui abbiamo rinunciato”. E
Gesù ci ripete: “Non assolutizzate mai il piacere, non siatene dipendenti, non siatene
succubi, non attaccatevi smodatamente alle cose terrene; ma gustate e godete di
tutto ciò che io ho creato per voi”. Sì, fratelli: tutto ciò che esiste, il
mondo intero, esiste per noi; ed esiste non perché lo possediamo, lo rapiniamo o pretendiamo di dominarlo egoisticamente, in maniera esclusiva; ma esiste perché lo godiamo serenamente, con le persone che amiamo.
Per
natura, invece, noi vogliamo possedere sempre tutto: vogliamo che tutto il
mondo esista soltanto per noi, sia esclusivamente al nostro servizio. E ci
comportiamo così anche con le persone: noi non le godiamo, non gustiamo la gioia
della loro presenza; siamo preoccupati soltanto di possederle, di sottometterle e basta. Succede un po’
anche quando guardiamo un bel paesaggio: non ci fermiamo ad ammirarlo, non ci
interessa di goderlo nella sua maestosità, ma siamo preoccupati solo di
fotografarlo in ogni particolare; vogliamo in qualche modo catturarlo, possederlo, tenerlo per sempre
con noi, piuttosto che assaporarlo serenamente lì, sul posto, dal vivo.
Godere
è lasciare che le cose esistano, che ci siano, nella loro splendida
bellezza. Godere e sentirle vibrare dentro di noi, assaporarle, ma lasciarle libere dove sono,
non volerle possedere, circuire, perché non sono nostre. L’amore, fratelli
miei, è gioia e dà vita, sempre; il possesso invece, anche se accattivante, se soddisfa al
momento, a lungo andare svilisce, perde la sua attrazione e intristisce l’anima.
L’immagine
della vite ci ricorda soprattutto la legge fondamentale della sopravvivenza: se
ci stacchiamo dalla linfa che ci nutre, moriamo. Ecco perché il vangelo dice: “Rimanete in me”. Lo ripete quasi
ossessivamente. Perché in questo “rimanere” c’è il segreto di ogni cosa. Se ci
stacchiamo dal nostro profondo per noi è la fine.
Perché
molti sono infelici? Credete veramente che se avessero più soldi sarebbero più
felici? Perché molti sono sempre arrabbiati? Credete che sia sempre colpa degli
altri? Perché molti sono continuamente annoiati? Credete veramente che non ci
sia nulla che li possa entusiasmare? No, fratelli. Purtroppo noi siamo convinti
che avendo quella determinata cosa, quando raggiungeremo quella certa meta:
quando avremo ottenuto la laurea o saremo sposati o avremo figli o la casa
nuova, allora sì che saremo felici. Invece ci stiamo illudendo. Se crediamo che
la felicità consista nell’avere, nel godere, nell’essere e basta, ci stiamo
illudendo, fratelli. Per tutta la vita continueremo invano a rincorrere questo
o quello, senza alcun risultato, perché ciò che noi cerchiamo non è all’esterno,
ma è dentro di noi. Se noi continuiamo a cercare lontano da noi, non vedremo
mai nulla di ciò che ci sta vicino. Se noi non “ci” sentiamo, non “ci” percepiamo,
non potremo mai sentire né percepire nulla.
Le
parole di Gesù sembrano astratte, teoriche, riservate ai grandi mistici:
“Rimanete in me; io in voi; voi in me”. Sembrano difficili, ma al contrario dicono
una cosa semplice e vera: l’intimità è data non da quanto facciamo, ma da
quanto in profondità noi andiamo.
Marito
e moglie stanno insieme da una vita; ma succede che tra loro non ci sia intimità: se due sposi non sanno parlarsi delle loro emozioni più intime, non
sanno dirsi le loro paure, i loro desideri, le loro ferite, se non condividono
ogni stato d’animo, se non si lasciano commuovere, se non piangono davanti all’altro,
ma che intimità c’è? Non basta abitare sotto lo stesso tetto per essere intimi.
E neanche andare a letto insieme. Intimità è incontrarsi in profondità, dentro
l’anima, nudi e spogli, con tutti i nostri difetti e le nostre miserie, i
nostri antiestetismi spirituali e corporali, e accoglierci e amarci lo stesso, per quello che siamo. Anche
senza ritocchi o interventi rigeneranti di chirurgia plastica!
Intimità
è dunque entrare dentro. Chi dice: “Di certe cose preferisco non parlare perché
poi mi commuovo”, rimane all’esterno. E quello che dice: “Io non voglio
raccontare niente di me perché mi fa star male”, rimane fuori. Come faranno ad
entrare in intimità con qualcuno, se hanno paura di scendere dentro loro stessi?
Non
basta venire in chiesa e riempire Dio di parole e preghiere. Molti parlano a Dio ma non con Dio. Molti, anche persone religiose e consacrate, non provano
nessuna vibrazione interiore, nessuna vitalità, nessuno slancio quando sono in
chiesa, quando pregano, quando cantano. Non si commuovono di fronte alle parole
del vangelo; non si lasciano mettere in seria discussione da ciò che sentono;
non provano l’ebbrezza del canto o l’intensità del silenzio. Insomma, non
parlano con Dio; lo riempiono semplicemente di parole.
Abbiamo
detto che la vita è fatta anche di cose esterne, di superficie, non solo di
austerità. E che a volte fare quattro risate, bere un bicchiere di vino in
compagnia, o chiacchierare “del più e del meno” (senza spettegolare!), fa
proprio bene, ci riconcilia con la vita. Ma la vera
felicità della vita, fratelli, il suo essere feconda e vitale, sta solo dentro,
all’interno, nell’anima delle cose. Essere felici significa raggiungere il
centro della vita: essere cioè “al centro”, nel luogo esatto dove palpita la vita, dove scorrono le emozioni, il pianto e le risa, il dolore e l’amore. Vuol
dire percepire la linfa che scorre nei nostri tessuti vitali, esserne riempiti,
saturati, sommersi. Se infatti andiamo al mare nel caldo torrido dell’estate, e non ci tuffiamo
completamente dentro l’acqua, non sentiremo refrigerio, non proveremo sollievo. Per
provarlo, dobbiamo andare sotto, immergerci dentro. Così anche vivere,
fratelli, è “stare sotto”. Essere vitali, portare frutto, significa vivere in profondità
con noi stessi, vuol dire “entrarci” dentro e conoscerci a fondo, vivere al
centro di noi, nella nostra anima. Se rimaniamo lì, allora veramente “ci” sentiamo;
allora veramente capiamo chi siamo, e percepiamo tutte le nostre potenzialità. Portare
frutto, ripeto, significa incontrare il mistero della vita che è nascosto in noi,
entrarci dentro; entrare in Lui che è Vita dentro di noi, e cercare di capirlo,
di goderlo, rimanendo incantati dalla Sua grandezza, dalla Sua bellezza, dalla
Sua immensità; e irradiare prepotentemente tutto questo, all’esterno; conviverlo con i fratelli nel loro intimo, nella loro anima. Portare
frutto nel nostro relazionarci quotidiano, significa infatti incontrare anche l’altro
nella sua parte più profonda, più interna, dove è più vero, dove è maggiormente
se stesso; lì dove possiamo scorgere anche in lui il volto di Gesù. Perché il nostro
prossimo, il nostro fratello, è Lui, sempre e soltanto Lui! Basta saperlo
vedere.
Ecco, fratelli miei; così c’è incontro. Solo così c’è unione tra i tralci e la vite;
solo così il frutto è assicurato! «Perché
senza di me, voi non potete far nulla». Parole sacrosante. Vere. Meditiamole! Amen.
«Io sono il buon pastore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce
me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che
non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la
mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore». (Gv 10,11-18)
Gesù
non poteva trovare una immagine più bella per indicarci la sollecitudine con
cui continua a seguirci anche dopo la sua risurrezione. Lui è il “buon Pastore”,
é poimÑn kalçv, il “pastore bello”, come dice
il testo greco. Il buon pastore è colui che segue le pecore, che si prende cura
di loro; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi, le cerca se si perdono,
le conosce una per una, per nome. Il buon pastore è colui che ha “cura” delle
pecore: e “avere cura” significa dedicare tanto tempo e lavoro in abbondanza. Lo
sa bene chi cerca di far germogliare, di far crescere e fiorire una pianticella:
ogni giorno deve darle acqua, deve esporla al sole, proteggerla da eventuali parassiti
e pericoli. Il buon pastore è soprattutto colui che trasmette sicurezza; è
colui che parla con le sue pecore; che a ciascuna sussurra dolcemente: “Sono io
che penso a te, io che mi prendo cura di te, che veglio su di te; perché tu mi
sei cara, mi sei preziosa, sei davvero unica per me. E anche se non sei sola,
perché di pecore ne ho altre 99, se ti dovessi perdere, io verrò a cercarti.
Qualunque cosa succeda, tu sarai sempre nel mio cuore”.
Ecco,
fratelli: questo è l’amore con cui Gesù ci tratta: questo è l’unico amore di
cui possiamo veramente fidarci. È questo l’unico amore di cui abbiamo bisogno. Ma
è anche l’amore che noi stessi siamo chiamati a offrire ai nostri fratelli.
Dobbiamo
essere anche noi pastori “buoni” per le persone che ci stanno vicine, per i nostri
figli, per gli amici, per i colleghi di lavoro. Dobbiamo imitare i primi
cristiani: il Signore era il loro unico pastore, il loro punto di riferimento.
Lo “sentivano” sempre vicino, lo “vivevano”. Era il loro compagno di viaggio, la
loro guida, colui che si prendeva “cura” di loro. E non temevano nulla e
nessuno.
Del
buon pastore il Vangelo dice tre cose molto importanti: prima di tutto che “offre
la sua vita per le pecore”. Al contrario del mercenario, che pensa soltanto a
svolgere un lavoro, che lo fa per soldi, per interesse, per avere un profitto
personale. Al mercenario non interessa nulla delle pecore, ma solo ciò che
dalle pecore può ricavare. Le utilizza per se stesso. Quanti mercenari abbiamo
incontrato anche noi nella nostra vita! Quanti sedicenti pastori ci hanno usato
e abusato a loro piacere! Quanti mercenari ci hanno illuso per farci fare
quello che volevano; quante promesse abbiamo ricevuto finché pensavamo come
loro, fino a quando non siamo diventati per loro un problema! E poi? Poi più
nulla. E delusi ci siamo chiesto: “Che amore era questo? Era amore o squallido interesse?”
E abbiamo pianto sulle nostre ferite. Ebbene, fratelli, queste esperienze dovrebbero
insegnarci molte cose. Dovrebbero farci guardare a Lui, al nostro vero Pastore,
con sempre maggior riconoscenza; a Lui che non ha mai ingannato nessuno, che
non è mai venuto meno alle sue promesse, che è sempre stato fedele con noi.
La
seconda cosa che il vangelo ci dice del buon pastore è che “conosce le sue
pecore e che le chiama ciascuna per nome”. Una prospettiva meravigliosa, non vi
pare? Chi ama, infatti, vuole conoscere per davvero. Non si ferma ad una
conoscenza superficiale, di comodo. Vuol sapere tutto, vuol essere coinvolto,
pende dalle labbra dell’amato, previene ogni suo desiderio. Allora chiediamoci:
come sono i nostri rapporti con gli altri?. Li ascoltiamo veramente quando ci
parlano? Abbiamo voglia di ascoltarli sul serio? Oppure il nostro è solo un bluff: non solo non li ascoltiamo, ma non
li lasciamo parlare, li interrompiamo continuamente, interpretiamo le loro
parole solo come piace a noi? Ascoltiamo il loro cuore, facciamo attenzione a quello
che provano dentro, oppure semplicemente fingiamo? Eppure fratelli, se amassimo
veramente le nostre “pecore”, per prima cosa le ascolteremmo, non vi pare? Non
le deluderemmo, dedicheremmo loro maggiore “cura” e attenzione. Impariamo da
Lui: Gesù ci ha mai deluso? Egli ci ama e ci ascolta, sempre. È sempre lì,
paziente e silenzioso, presente nel Tabernacolo con il suo corpo e sangue, e ci
aspetta. Aspetta fiducioso che qualche volta, durante il giorno, ci ricordiamo
di Lui. Ci ricordiamo che è Lui il nostro Pastore, che è Lui l’unico che può
aiutarci, consigliarci, lenire i nostri dolori; che solo Lui non ci deluderà
mai!
Terza
cosa che il vangelo oggi ci fa notare sul Pastore, è che il Risorto - è Lui il
nostro Pastore - non ha solo noi da accudire, ma ha tante “altre pecore”, di
altri ovili, forse non tutte fortunate come noi; quindi, Gesù non è soltanto a
nostro servizio: non è una nostra proprietà, il suo amore non è un nostro esclusivo
diritto: Egli è Pastore di tutti gli uomini di tutto il mondo; tutti sono suoi figli
e tutti sono dunque nostri fratelli.
Ebbene,
di fronte a queste realtà, cari fratelli, dobbiamo decidere seriamente come
vivere; dobbiamo finalmente prendere una decisione seria, dobbiamo scegliere se
stare con Lui, se stargli vicino, se ascoltare i suoi richiami, oppure lasciarci
trasportare dagli eventi, lasciarci condizionare da ciò che ci circonda, bearci
egoisticamente del presente. Dobbiamo quindi deciderci di nuotare
controcorrente, di imitarlo come pastore, combattendo l’indifferenza e l’apatia
di chi non crede, di seguirlo per quanto ci è possibile, anche nella gestione
del suo gregge, offrendogli il nostro piccolo contributo, la nostra “sofferta”
collaborazione. Sì, fratelli, perché in tal caso dobbiamo considerare anche la
fatica, le sofferenze, perché immedesimarci in Lui ha un suo costo, talvolta
anche alto, che implica sudore e sangue: essere come tutti, seguire l’andazzo
del mondo, è estremamente facile; invece essere “unici”, esattamente come Dio ci
ha pensati e voluti, ve lo assicuro, non è assolutamente una passeggiata; è un
cammino tutto in salita, una scelta piena di rinunce, di sacrifici. Lo dobbiamo
mettere in conto; ma in ogni caso dobbiamo scegliere, fratelli. Dobbiamo
prendere una decisione. Avete mai pensato che, forse, l’insoddisfazione e l’amarezza
che proviamo nel profondo il nostro cuore, può derivare proprio da questo nostro
continuo rimandare, dalla nostra perenne indecisione, dal lasciarci vivere così
come viene, dal non avere un ideale forte per cui combattere? Allora diventiamo
padroni della nostra vita, fratelli: non facciamoci trascinare dagli eventi, ma
viviamo come vogliamo noi, anzi meglio, come vuole Lui; mettiamoci nelle sue
mani, e vedrete che ogni inquietudine, ogni amarezza, ogni dubbio scomparirà!
Imitiamo
il nostro buon Pastore, la nostra guida: Egli ha sempre vissuto da uomo libero:
Lui ha offerto in dono per noi la sua vita, e lo ha fatto spontaneamente; ha
accettato una morte straziante e ignominiosa: nessuno l’ha costretto, né giudei
né romani. Lui è il padrone assoluto della sua vita: tant’è che appena morto,
se l’è immediatamente ripresa. Non sono stati gli scribi e i farisei a ucciderlo;
è Lui che ha accettato e deciso di vivere la sua missione fino alle estreme conseguenze.
Gesù “ha offerto la sua vita”, sapendo bene a cosa andava incontro. Ma lo ha comunque
fatto. E Dio con la risurrezione se lo è “ripreso”, ha confermato cioè la sua
libertà e la bontà delle sue scelte. Ecco, fratelli, è così che Egli ci ha
indicato la via della vera libertà: e noi saremo liberi solo quando decideremo di
vivere come Lui, prendendoci in pieno le nostre responsabilità e le conseguenze
delle nostre decisioni.
Da qui
nasce anche per noi, fratelli miei, il dovere di essere dei “buoni” pastori. Pastori
in qualche modo lo siamo già tutti: chi non ha infatti qualche ruolo di guida,
di responsabilità: il prete con i suoi fedeli; i genitori con i figli; i
dirigenti, i capireparto con i loro dipendenti; l’amico con gli altri amici; il
maestro con gli alunni, e via dicendo. Tutti in qualche modo siamo già
coinvolti, siamo dei pastori: ma il vangelo di oggi ci insegna soprattutto come
essere dei “buoni pastori”; ci sollecita cioè a prestare la massima attenzione alle
nostre “pecorelle”, a coloro cioè che per qualunque motivo sono affidati a noi.
Dobbiamo stare molto attenti a chi abbiamo di fronte. Non tutti siamo uguali,
ognuno ha la sua sensibilità; non dobbiamo quindi “gestirli”, come se fossero
della merce; non dobbiamo usarli; non dobbiamo umiliarli, non dobbiamo accentrarli
esclusivamente su di noi, creando una dipendenza negativa. Non possiamo
pretendere di occuparci noi di tutto, di sapere tutto, di intrometterci su
tutto. Massima sollecitudine e conoscenza, questo sì, ma dobbiamo lasciare alle
“pecore” il loro respiro, i loro margini. Altrimenti la nostra guida da dolce e
attenta, potrebbe diventare autoritaria e sprezzante. Non riconoscere la loro libertà
e dignità alle persone che ci seguono, significa soffocarle, umiliarle. Ricordiamoci
che chi pretende di controllare tutto, col tempo perderà il controllo di tutto.
La fiducia non è un diritto, si merita.
Essere
buoni pastori vuol dire anche “credere” nelle proprie pecore. Credere che in
ognuna di esse, pur se nascosto, c’è un fondamento di bontà. Dobbiamo credere
in loro, dare fiducia, coltivare il seme buono che c’è in loro: con grande discrezione
e umiltà.
Molti falsi
pastori (dirigenti, capi, preti, genitori, politici) abusano del loro potere. Non
sentono ragioni, comandano e basta. Spesso con disprezzo e cattiveria. Trattano
i loro fratelli come se fossero degli oggetti, degli strumenti utili solo per
il lavoro e basta; li fanno sentire privi di ogni dignità. Credere invece nelle
proprie pecore, conoscerle, averne rispetto, vuol dire valorizzarle, perché nessuna
è uguale all’altra. Guidare, essere pastori, significa stimolare, incoraggiare,
aiutare le persone a tirare fuori il meglio di sé. Il loro compito è quello di precedere,
di andare avanti, di affrontare per primi i pericoli, di prevenire, di condurre,
di servire. In questo sta l’amore, fratelli. Questo è servire gli altri. Questo
ci ha insegnato Gesù.
Pensate
all’amore con cui Dio ci tratta: è immenso e ci tocca il cuore: ci commuove
pensare che lui è sempre pronto, fedele, sollecito, misericordioso; che veglia continuamente
su di noi, i fortunati, e anche su quelli che nella loro vita vagano ancora in
cerca di un approdo, su quelli che non sanno ancora dove trovare il vero conforto,
sui tanti disperati sparsi sulla faccia della terra, su quelli, uomini e donne,
vicini e lontani, che aspettano angosciati una consolazione che non trovano.
Rileggiamo
allora con calma, cari fratelli, questo brano bellissimo del vangelo di oggi; convinciamoci
a prenderlo veramente sul serio. Lasciamoci toccare; diamo finalmente il loro nome
agli ideali, ai progetti, ai modelli di vita, che ispirano le nostre scelte, il
nostro cammino. A chi andiamo dietro noi? Di chi e di che cosa siamo ancora alla
ricerca? Verso chi sono diretti i nostri passi? In definitiva, a chi abbiamo
affidato la nostra vita? Al buon pastore che ci tratta da pecorelle o ai falsi
pastori, i mercenari, che ci trattano da caproni? È una verifica urgente del
nostro cammino di fede, che dobbiamo assolutamente affrontare.
Oggi tutta
la comunità cristiana è unita al suo Signore, a quel Gesù che ancora si
commuove sulle folle di questo mondo, per chiedergli con preoccupazione che non
manchino gli operai nella sua vigna. E anche noi, di fronte a Lui e “ai campi
che già biondeggiano per la mietitura” (Gv
4,35) nel profondo del nostro cuore, dobbiamo generosamente ripetere con il
profeta (Is 6,8): “Ecco, Signore,
manda me!”. Amen.
«Perché siete turbati, e perché
sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono
proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete
che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi»: (Lc 24,35-48).
I due di
Emmaus tornano a Gerusalemme e raccontano agli altri discepoli la loro
incredibile esperienza, di come cioè abbiano visto e riconosciuto Gesù; anche
Pietro racconta il suo incontro con il Signore, e tutti sono a conoscenza dell’incontro
che con Lui ha fatto la Maddalena, la mattina di Pasqua. Ma poi, quando Gesù appare
a tutto il gruppo riunito, essi rimangono senza parole; rimangono di stucco, sorpresi,
sconcertati, come se non sapessero nulla delle precedenti apparizioni, come se
nulla fosse mai accaduto. Beh, non ci sembra un po’ strano questo comportamento?
Cosa ci vuol dire Luca con questo particolare? Una cosa molto semplice: che l’esperienza
del Signore Risorto, cioè il sentirlo vivo, presente e palpitante nella propria
vita, è un’esperienza personale, privata, un’esperienza che ciascuno deve fare
per sé. Quello che provano gli altri non ci colpisce più di tanto. E infatti
Gesù dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”; toccatemi voi, uno
alla volta, rendetevi conto di persona. Si tratta cioè di toccare, di capire,
di percepire, di vedere con la mente e con il cuore, di rendersi conto che
davvero Lui è vivo, che Lui c’è, che è qui al nostro fianco, pronto ad intervenire.
E solo noi, ciascuno di noi, e nessun altro, può e deve fare questa esperienza.
Non possiamo delegare gli altri. Non basta che gli altri “ci raccontino”; non ci
basta sapere che delle persone, incontrando Dio, hanno rivoluzionato la loro
vita. Non ci basta vederlo con gli occhi di chi gli crede, di chi lo sente vivo
in sé; non ci basta sentirlo attraverso la passione di chi lo porta già nel
cuore e nell’anima. Non ci basta neppure assistere ai miracoli, vedere persone
guarite dalle loro malattie, solo per avergli dato piena fiducia. Niente
ci basta, se non abbiamo noi stessi il coraggio di toccare, di lasciarci
coinvolgere in prima persona, di metterci noi direttamente in gioco. Dobbiamo
essere sicuri di Lui, dobbiamo poter contare individualmente su di Lui, dobbiamo
credergli senza ombra di dubbio. Se dubitiamo di Lui, anche per un solo
momento, nessun “surrogato” ci potrà mai bastare. E quando nasce questa nostra
certezza? Solo quando lo avremo
toccato con mano; solo quando ci avrà cambiato la vita, quando avremo scoperto
la gioia dell’amore, della vera felicità; solo quando, dopo aver vissuto come morti
o come portatori di morte, torneremo a sentirci vivi, a risentire la vita pulsare
dentro di noi. Solo allora, fratelli, non avremo più dubbi; solo allora sapremo
per certo che “Lui è vivo”.
La
fede è un’esperienza, un incontro. Un incontro personale e diretto. Altrimenti la
nostra fede è teoria, ipotesi, possibilità; soprattutto rimane
dubbio. Un dubbio che non nasce per caso, ma che è radicato in noi, nelle
nostre paure ancestrali, nella nostra diffidenza. Credere è un po’ come trovarsi
per la prima volta di fronte al mare. Per capire cosa sia quella enorme distesa
d’acqua che si apre davanti a noi, dobbiamo buttarci dentro, dobbiamo
immergerci totalmente, sentirci “coperti”, avvolti dall’elemento acqua.
Soltanto così la “sentiremo”, sentiremo l’effetto che ci fa'; e allora scopriremo
che il mare è bello, scopriremo i suoi pericoli ma soprattutto il suo fascino e
le sue potenzialità; scopriremo insomma che ci piace: un po’ alla volta, sperimentandolo
di persona, passo dopo passo, ci diventerà familiare, amico. Ecco, credere è
un pò come questo: se vogliamo sapere cos’è il mare, dobbiamo immergerci, bagnarci; se vogliamo
sapere cos’è la vita, dobbiamo viverla attivamente, non trascinarla; se vogliamo
sapere chi è Dio, dobbiamo toccarlo, sperimentarlo, viverlo.
Altrimenti continueremo ad avere sempre e solo delle meravigliose idee su Dio,
sulla vita e sul mare. Ma solo semplici idee. Che non possono bastarci. L’idea
del cibo, fratelli, l’immagine di una tavola imbandita con opulenza, non ci potrà
mai saziare: se non mangiamo sul serio, moriamo di fame!
Il
dubbio non trascina, non coinvolge. Perché il dubbio è pigrizia, è paura. Al
contrario vivere, sperimentare, mettersi in gioco richiede fatica, coraggio, un
nostro personale volere; e forse per questo preferiamo dubitare. Perché,
fratelli, fino a quando dubitiamo, finché ci trastulliamo con le
più affascinanti “teorie” di questo mondo, non ci muoviamo, non facciamo
nulla, non facciamo fatica, soprattutto non ci compromettiamo. Dubitare vuol dire avere
tanti bei progetti, tante belle intuizioni, tanti pensieri nobili, per poi, al
dunque, lasciarli così come sono, delle semplici idee. E questo, fratelli, significa in
pratica non lasciarci “toccare”,
non voler “toccare” Gesù; è il nostro modo di esprimere la nostra indisponibilità ad aprire a Gesù il nostro cuore. Tanta teoria,
nessuna pratica. Comodo e indolore.
Anche
gli apostoli del resto facevano fatica a credere: non credevano ai loro compagni
di missione, ai loro amici di sempre; ma quel che è peggio non credevano che Gesù
fosse risorto, pur avendolo lì davanti! Non gli credevano dopo aver visto le
sue ferite, dopo che egli aveva mangiato nuovamente con loro; non gli credevano
neppure quando Lui pazientemente cercava di spiegare loro il significato di quanto
era successo, il senso degli avvenimenti, del perché fosse necessario che
accadessero. Niente! La loro testa era chiusa ermeticamente. E, ripeto, loro lo
avevano lì, di fronte ai loro occhi! Noi almeno, che non abbiamo avuto una tale fortuna, possiamo anche avere qualche attenuante in più per la nostra
mancanza di fede; ma
non ne approfittiamo. Non nascondiamoci dietro ad un dito, non continuiamo a giustificare
la nostra indolenza e la nostra poca voglia di incontrarlo, di conoscerlo: scuotiamoci
invece, diamoci da fare, perché la fede richiede un cammino difficile; è una strada, un
itinerario a volte molto impegnativo, che prevede una gradualità, un passo dopo
l'altro, una lenta maturazione. Noi invece siamo quelli del “tutto e subito”, del
“detto e fatto”. Ma per le cose spirituali, dell’anima o del cuore, fratelli, non funziona
così. Vorremmo essere come il telecomando della tv o il pulsante che accende il
computer: basta schiacciarlo e in un secondo tutto si apre, tutto appare chiaro
e luminoso. Ma, dicevo, nella via della perfezione, della fede ardente, non funziona
così! Tutto avviene per gradi. Ed è importante che sia così. Che meriti, infatti, che stimoli
potremmo mai avere, se tutto si esaurisse in un attimo solo, automaticamente? Siamo degli “atleti”,
diceva Paolo: e come tali dobbiamo correre, superare gli ostacoli, faticare, se vogliamo arrivare alla fede e
conservarla. Perché è l'impegno, la gradualità, la perseveranza, che ci fanno capire quanto in verità noi desideriamo “toccare” Gesù, quanto
cioè siamo motivati a seguirlo. Sono le contrarietà, la fatica, gli
imprevisti che ci permettono di gustare giorno per giorno i nostri piccoli passi in questo cammino, che ci fanno constatare con gioia il progressivo avvicinamento a Lui.
Il
vangelo dice che “Gesù apparve in mezzo a loro”. Solo due volte, a Maria
Maddalena e a Pietro, Gesù, subito dopo la risurrezione, appare alla singola persona. Tutte le sue altre apparizioni avvengono
in un contesto comunitario. Alla presenza cioè, di due o più persone. Che vuol
dire? Abbiamo detto che l’esperienza di “toccare” Gesù deve essere personale,
individuale. È vero, ma è un’esperienza che deve avvenire in un ambito
comunitario. È importantissimo: queste parole ci indicano cioè che la nostra
esperienza personale ha motivo di esistere, di svilupparsi, soltanto in
determinati contesti: che nello specifico sono la Chiesa, le nostre comunità
religiose, le nostre parrocchie, le nostre famiglie. Incontrare Gesù a nostro esclusivo uso e consumo non ha senso, considerarlo un privilegio esclusivamente personale, non farne parte con i fratelli, significa escludersi dalla comunità, tagliarsi fuori dalla “Ecclesia”, unico organismo in cui Cristo ha assicurato la sua presenza nello Spirito fino alla fine dei tempi.
È qui che deve succedere, è qui che possiamo sicuramente incontrarLo; e perché ciò avvenga, il vangelo ci
suggerisce anche alcune strade preferenziali.
La
prima strada, come abbiamo detto domenica scorsa, è l’incontro con le proprie
ferite. Gesù mostra ai discepoli le mani, i piedi e il cuore trafitti. Sono
il segno della sofferenza. Le
mani rappresentano il nostro fare, il nostro agire, il costruire, il
realizzare. Molti sono convinti che nella loro vita non ci sia più
niente da fare, che ormai tutto sia compromesso. Ma non è vero! C’è sempre una
nuova via, una nuova situazione, un nuovo progetto da prendere in
considerazione. Le nostre mani devono diventare le “sue” mani, dobbiamo trasformarle
nelle “sue”, essere noi ad agire per Lui.
I
piedi feriti sono l’incapacità di camminare con le nostre gambe, di andare
avanti, di percorrere il nostro cammino, di diventare noi stessi, di progredire
nella via dello spirito. Per questo dobbiamo “risorgere” con Cristo: la “risurrezione” ci dice che tutto può cambiare, che possiamo farcela, che possiamo rivivere,
che possiamo riplasmare con gioia la nostra vita, che possiamo darle nuovi
impulsi, nuovi ideali, nuove direzioni. Ma che convergano sempre e solo “verso” di Lui, nella
“sua” direzione; accettando a priori di
fare sempre la sua volontà.
Il
cuore trafitto è l’amore che viene ferito. Molte persone si sentono aride, impotenti
di fronte alla loro situazione affettiva. C’è chi non vuole amare più: è talmente
deluso, da essere convinto della propria incapacità di amare, di essere ormai insensibile
e indifferente a tutto, di aver perso ogni fiducia nell’amore e nel prossimo.
C’è chi si sente travolto, imprigionato, condizionato dai fatti dolorosi della
vita. Ma c’è anche chi vuole lasciarsi andare, chi vuole amare ancora, chi vuole tornare ad essere vivo, innamorato, chi vuol rifare scelte importanti. Ma bisogna
essere convinti di questo, perché se continuiamo a considerare queste aspirazioni
al pari di inutili fantasie, di semplici progetti inattuabili, non approderemo mai a nulla:
arriveremo soltanto alla nostra condanna, alla nostra fine. Il Risorto invece vuole
che “tocchiamo” il suo cuore trafitto; perché solo così capiremo che il
nostro cuore trafitto dalla vita, può sicuramente guarire; che da esso può ancora
sgorgare vita vera, intensa, luminosa; e che quindi non possiamo tergiversare,
ma agire di conseguenza.
La
seconda strada è l’amicizia, la donazione. È creando legami di amicizia, di
confidenza, di intimità fra le persone, che noi possiamo sentire Cristo vivo e
chiaro, percepirlo in maniera forte. Solo se noi riusciremo ad aprirci al
prossimo, a far colloquiare reciprocamente i rispettivi cuori, ci sentiremo
accolti, amati; solo allora sentiremo nuovamente la gioia della vita pulsare
dentro di noi; e allora non ci vergogneremo più di quello che siamo, ma troveremo
nuova fiducia in noi e in ciò che facciamo, risentendoci nuovamente forti e
potenti interiormente. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in
mezzo a loro”: letteralmente è “dove due o tre cantano, sono in sintonia,
sono in mezzo a loro”. Di quale altra occasione disponiamo per sentirci “comunità”, per sentirci in perfetta sintonia con gli altri, al di fuori dell’Eucarestia domenicale? È lì, soprattutto,
che le nostre anime possono riconoscersi, unirsi, incontrarsi, per “incontralo”.
Nella partecipazione, nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento. È lì che
avremo la percezione chiara che Dio è presente; proprio lì, in mezzo a noi, con
noi e fra di noi. È questa, fratelli, la “comunità” del Risorto, quella in cui
Lui vuole incontrarci tutti di persona. E da qui poi usciremo fortificati a testimoniarlo ai fratelli. Approfittiamone, dunque!
La
terza strada per incontrare il Risorto è l’ascolto e la comprensione delle
Scritture. Gesù spiega agli apostoli le sue vicende, cos’è successo nei giorni
immediatamente precedenti e perché è successo. Essi devono capire che tutto “doveva”
succedere. Ebbene, fratelli, anche noi abbiamo bisogno di capire la “nostra”
storia, di capire il perché della nostra vita, di conoscere quel filo rosso che
lega le nostre giornate a Lui; perché c’è, e dobbiamo assolutamente trovarlo il
significato, il senso, il collegamento. C’è ed è evidente: il vivere nostro e
dei fratelli consiste nel fare esperienza del Signore Risorto: scoprire che nulla avviene
per caso, che tutto converge a Lui, che tutto ha un senso ben preciso in Lui,
che tutto avviene per un motivo che ci parla di Lui. E quando avremo questo
motivo per vivere, allora qualunque situazione, anche la più difficile, diventerà
superabile.
Abbiamo
bisogno, come gli Apostoli, di capire il profondo senso del vangelo e della
Bibbia. Siamo ancora molto ignoranti al riguardo, fratelli miei. S. Girolamo
diceva: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Ignorare le
Scritture, significa non aver capito nulla di Cristo, del suo messaggio, della
sua vita.
C’è
ancora chi crede all’esistenza storica di Adamo ed Eva, di Caino e di Abele o
dei patriarchi, esattamente come ci vengono proposti dalla Bibbia. C’e ancora
chi guarda alla Parola come ad una cronistoria, una raccolta di fatti realmente
accaduti e di personaggi storici realmente vissuti. C’è ancora chi crede che il
Vangelo sia un semplice documentario di quanto Gesù ha detto e fatto, una specie di film
girato da una troupe di qualche trasmissione televisiva o il resoconto di qualche
giornalista, inviato speciale in Palestina. Siamo ancora troppo lontani da
quello che realmente rappresenta la Parola per noi, fratelli miei. Abbiamo
ancora bisogno di conoscere, di capire, di cercare la verità. A tutti i
livelli.
Ecco
perché dobbiamo contribuire anche noi a “rassicurare”, a formare comunità fondate saldamente sul
Vangelo e non sulla creduloneria, sulla superficialità; a costruire comunità in cui la gente
creda grazie alla loro ricerca personale, aderendovi con la
propria anima e il proprio cuore; ecco perché dobbiamo annunciare e vivere per primi la persona di Gesù, e il
suo autentico messaggio di amore.
Solo
così “la verità ci farà liberi”. Anche se a volte potrà farci male, anche se a
volte ci svelerà un mondo completamente diverso da come noi lo pensiamo e da
come lo viviamo.
Tornare
al Vangelo e a Gesù: questo è fare esperienza del Risorto. Perché è il Gesù del
Vangelo, il Gesù risorto, che ci infiamma l’anima; sono le sue Parole che ci
appassionano nel profondo, che ci riscaldano il cuore. Il Vangelo di Gesù,
fratelli, non è un libro da leggere; ma è una Persona vera e autentica da
incontrare, da amare, da far entrare nel nostro cuore. Amen.
«Otto giorni dopo i discepoli
erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte
chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui
il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e
non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20, 19-31).
Cristo
è risorto. Alleluja. Ma ne siamo veramente convinti? Quanti di noi vanno in
chiesa, anche in questo periodo di Pasqua, e pregano il Dio risorto, il Dio Vivo.
Un fatto concreto, ma poco credibile: perché? Perché Dio non è vivo per loro; è
e rimane morto. È un Dio che non entra nella loro vita, non li “tocca”, non li
cambia, non li coinvolge, non penetra nella loro esistenza, non si lasciano
entusiasmare da Lui. È un Dio morto! Non è il Dio di Gesù Cristo, perché Lui è
sì morto ma è anche risorto, è vivo, presente, operante. Molti vanno dunque in
chiesa ma non sono toccati da niente: escono freddi, piatti, vuoti. Come erano
entrati.
Non
vedono Dio. Sono assenti, come era successo a Tommaso; non percepiscono cosa
voglia dire che Lui è Vivo, che Lui ci incontra, che Lui è Vita.
Quando
leggiamo il vangelo e sentiamo le parole di Gesù, le facciamo nostre, le
interiorizziamo, esse sicuramente risuonano in noi, vibrano, sono creatrici di
vita. A volte ci possono creare anche dei problemi, perché non ammettono
compromessi, ma sempre e comunque ci fanno bene; sono sempre salutari perché ci
scuotono, perché ci aprono nuovi orizzonti, perché anche se le porte sono chiuse,
rinserrate, per lo meno qualche fessura inizia a crearsi. In quei momenti Dio è
veramente vivo in noi: agisce, lavora, sentiamo che ci plasma, ci modella, ci
crea. Allora ogni volta che andiamo in chiesa noi lo sentiamo, percepiamo che
Lui è Vivo: e questo non può lasciarci indifferenti.
Ci
dice: “Pace a te: che tu abbia la pace profonda, la pace dell’anima”. E noi la
percepiamo questa pace; sentiamo che possiamo vivere ancorati ad una pace
sovraumana, ad una pace che va oltre tutti i conflitti e le lotte. Avvertiamo
che, nonostante tutte le battaglie di ogni giorno, a volte senza risparmio di
colpi, c’è un luogo dove tutti gli spari della maldicenza, i colpi, le
cattiverie, le fucilate vendicative del mondo non arrivano: è il luogo della
Pace. Comprendiamo allora cosa vuol dire “La pace sia con voi!”, avere pace nel
bel mezzo dei nostri conflitti interiori, pur continuando ad avere problemi,
contrasti o incomprensioni.
Ci
dice: “Il Padre manda me e io mando te”. E sentiamo la nostra grandezza. Noi
abbiamo una missione, noi siamo gli “inviati di Dio”. È difficile crederci, a
volte dubitiamo perché dubitiamo di noi, non ci fidiamo, non possiamo credere
alla nostra grandezza. Ma sentire queste parole e fidarci di Lui ci aiuta a
credere alla nostra missione, alla nostra vocazione, al Suo disegno, al fatto
che noi siamo in questo mondo per un motivo ben preciso, che dobbiamo vivere per
compiere veramente qualcosa di “grande”.
Ci
dice: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e credi”.
Sono parole forti. La mano per gli antichi era l’oggetto di conoscenza. Pilato
che si lava le mani con quel gesto dice: “Non voglio sapere. Preferisco il
buio, l’ignoranza, il non sapere”. Noi invece sentiamo il bisogno di conoscere,
non una conoscenza mentale ma affettiva, del cuore. Sentiamo il bisogno di
“toccare” e di essere toccati da ciò che tocchiamo e vediamo. Sentiamo il
bisogno di percepire nell’altro tutta la sua passione, la sua sofferenza e la
sua voglia di vivere perché dobbiamo farle nostre; perché la sua vita deve
essere la nostra vita. “Chi accoglie loro, accoglie me”, ci ricorda Gesù.
Allora,
fratelli, ogni volta che andiamo a messa, ci andremo non tanto per fare una
bella esperienza, per ricordare qualcosa, per piangere su Gesù. Ma andremo lì e
lo sentiremo vivere in noi; sentiremo che Lui è Risorto veramente; sentiremo
che Lui è vivo; sentiremo che Lui si rivolge a noi; sentiremo che ci chiama e
che ci parla.
Quando
Lo ascoltiamo nel vangelo e permettiamo alle Sue parole di superare le nostre
porte chiuse, blindate, per paura non dei “nemici”, ma dei cambiamenti, del non
sapere a cosa ci porteranno, della fatica e del dolore di metterci in
discussione per la paura di perdere le nostre false immagini, le nostre maschere
e impalcature; per la paura di vederci solo per quello che siamo. In tutte
queste situazioni, quando lo lasciamo entrare, sentiamo che qualcosa ci fa
sussultare, ci fa fremere, ci fa sentire che Lui c’è, che Lui è vivo. Anche noi
come Tommaso possiamo allora dire: “Mio Signore e mio Dio!”.
Il
problema di Tommaso non è stato tanto il dubbio, le domande bisognose di
risposte. Il problema di Tommaso è stata l’esperienza. Lui non laveva visto e non
ne aveva fatto esperienza. Non era stato toccato in profondità dal Signore
Risorto. Era l’amore che gli mancava.
La
fede cristiana è un incontro, un’esperienza, è una relazione personale. È un
innamoramento. Tutte le testimonianze dei fratelli ci aiutano, ci servono, ci
stimolano, ci invitano. Tutte le preghiere sono buone, utili, importanti. Tutti
i gruppi, le liturgie, gli incontri ci aiutano ma se noi non vediamo e non tocchiamo,
cioè non facciamo esperienza personale, la fede degli altri aiuta e serve agli
altri ma non a noi. Inutile farsi un sacco di domande su Dio, sulla vita, fare
infinite congetture e possibili implicazioni. Diamo l’idea di essere dei grandi
pensatori, dei profondi contemplativi, di essere persone che soffrono molto il
problema di Dio. Ma in definitiva abbiamo semplicemente paura di Lui. Non vogliamo
lasciarci coinvolgere, abbiamo paura: temiamo di dover mettere le nostre mani
sulle ferite e sul cuore trafitto. Temiamo l’incontro. Temiamo l’esperienza
bruciante di Dio.
Eppure,
anche noi come Tommaso, lo possiamo toccare realmente nell’Eucaristia. Perché celebrare
nell’eucarestia la morte e la resurrezione del Signore, vuol dire esattamente percepire
la sua presenza, incontrarlo, sentire che Lui è il Vivente, che Lui ci parla,
che Lui ci incontra. Sentire che non solo Lui ha vissuto, ma che Lui vive; che non
solo Lui è stato forza e passione, ma che Lui è Forza e Passione; che non solo Lui
ha chiamato e guarito, ma che Lui ci chiama e ci guarisce.
Quando
il Risorto appare, mostra agli apostoli le mani e il costato feriti. In ogni
eucaristia noi mostriamo e tendiamo a Lui le nostre mani ferite. Con le mani
lavoriamo e facciamo tante cose. Le nostre mani ferite sono il dolore e la
sofferenza che viviamo mentre lavoriamo, mentre facciamo il nostro dovere e veniamo
umiliati. Le mani ferite sono quelle mani che si aggrappano a noi, che non ci
lasciano liberi, che pretendono sempre e tutto da noi, che ci inchiodano ad
ogni minimo sbaglio, che ci trattengono e che ci feriscono. Sono quelle situazioni
e quei ruoli in cui tutti si aspettano tutto da noi.
Le nostre
mani sono ferite quando qualcuno che amavamo ritira improvvisamente la sua
mano, non ci appoggia più, ci toglie il suo sostegno, il suo amore, ci tradisce.
Le mani ferite sono quando ci rendiamo conto che anche noi abbiamo vissuto
male, che abbiamo anche noi ferito e umiliato; quando in certi giorni ci
vergogniamo di ciò che siamo. Allora abbiamo bisogno di un amore che ci risani
e che ci ridia dignità.
In
ogni eucaristia Gesù ci mostra le sue mani perché anche noi possiamo mostrargli
le nostre mani. Perché se gli mostriamo le nostre mani ferite, potremo
sperimentare immediatamente la forza risanante del Suo amore. Molti si tengono
dentro le ferite. Soffrono e non lo dicono a nessuno; non lasciano trasparire nulla.
Allora il dolore marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Se una ferita
non viene curata, medicata, infetta tutto l’organismo. Le mani di molte
persone, le loro vite, sono piene di dolore, di rabbia, di lacrime e di
umiliazioni. Ma temono di aprirle e mostrarle, si vergognano. Ma in questo modo
non può avvenire nessuna guarigione, niente può trasformarsi, niente può essere
risanato. Chi non si accorge di essere malato, come può guarire? Non si può
vivere senza essere feriti. Ma si può vivere, e bene, guarendo.
In
ogni eucaristia noi portiamo le nostre mani ferite. E facciamo un gesto piccolo
ma infinitamente grande. Con le nostre mani ferite ci accostiamo all’altare e
le apriamo, le stendiamo perché il Sacerdote vi deponga Cristo, con il suo
Corpo vivente; perché Lui si prenda cura di tutte le nostre ferite, e le
risani. Noi gli tendiamo tutte le nostre ferite e lui viene con il suo amore: nel
nostro dolore, entra il suo amore. Perché lì, dove c’era rifiuto, ci sia
accettazione. Dove c’era paura ci sia fiducia. Dove c’era esclusione ci sia
accoglienza.
In
ogni eucaristia noi mostriamo il nostro costato e il nostro cuore trafitto. Il nostro
cuore è ferito dal desiderio di amare e di non riuscirci, di farlo soltanto in
modo aggressivo, possessivo o avvinghiante. Vorremmo amare di più i fratelli;
vorremmo amarli meglio; vorremmo amarli più in profondità, ma spesso non ci
riusciamo. A volte non lo facciamo, per paura di essere lasciati, di essere
traditi; abbiamo paura di amare. Andiamo allora, fratelli; andiamo a messa e
mostriamo a Gesù le nostre mani sanguinanti, il nostro cuore trafitto, da cui
sgorga amore e dolore. In ogni eucaristia, mostriamogli il nostro cuore, il nostro
amore e chiediamogli di trasformare il nostro modo meschino di amare. In ogni
eucaristia mostriamogli il nostro bisogno vitale di amore. A volte pensiamo di
bastare a noi stessi, di non aver bisogno di nessuno, di arrangiarci da soli.
Ma sappiamo che non è così, e quando ammettiamo questo bisogno, siamo disposti
a prendere qualunque amore, anche di sottobanco, attraverso la gloria, l’imporci,
il comandare.
In
ogni eucaristia mettiamo allora nel Suo cuore il nostro bisogno di ricevere
amore, la nostra fatica di aprirci per riceverlo, la nostra paura di essere
vulnerabili, di essere nuovamente feriti. In ogni eucaristia mostriamogli il nostro
cuore trafitto, ferito nell’amore, ma bisognoso d’amore. E chiediamo a Dio di
darci la forza di poter continuare ad aprire continuamente il nostro cuore, di
non aver mai paura di fidarci dell’amore e di Dio. E Cristo Signore, risorto e
vivo, ci benedica sempre. Amen.
«Allora entrò anche l’altro
discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non
avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai
morti». (Gv 20,1-9)
Pasqua:
una parola profonda, carica di significato. Vuol dire, passare, salvare, risparmiare. La parola ebraica pesah (da cui pasqua) indica appunto il grande passaggio del Mar Rosso. Ricordate? In Egitto gli Ebrei erano
schiavi del faraone; non hanno praticamente nulla; pane, cipolle e un lavoro
massacrante; ma, quel che è peggio, sono affetti da un male ancor più grave e terribile:
l’abitudine. Si sono cioè abituati a questa non-vita, si sono abituati a vivere
da schiavi, a vivere una vita che non è vita, che non ha nulla di “umano”, che
è decisamente morte.
Ecco,
fratelli, questo può diventare anche il nostro dramma: confondere cioè la “vita”
con la schiavitù. Di qualunque genere essa sia. E abituarci, affezionarci a
questa schiavitù.
Del
resto guardiamoci intorno: non è forse un dramma quello di pensare di vivere
da liberi, quando invece siamo schiavi, sottomessi, dominati dai nostri
istinti, dal nostro egoismo, dalle nostre passioni, dalla nostra cattiveria? Ebbene:
Pasqua deve costituire anche per noi un autentico “passaggio”: passare cioè da
uno stato di dipendenza negativa, dal male, dal mondo, da una mentalità “laica”,
ad una entusiasmante e rigenerante libertà. Certo, è un passaggio difficile, un
passaggio che può sembrare addirittura impossibile, un passaggio per il quale
dobbiamo necessariamente ricorrere all’aiuto di Qualcuno, di fidarci ciecamente
di Qualcuno. Ed è questo il messaggio che le parole di Cristo, nostra Pasqua, oggi
ci trasmettono in tono perentorio: “Vivi da uomo libero. Non buttarti via, non continuare ad illuderti, non vivere
più da schiavo. Io ti ho affrancato”.
Ascoltiamo
questo invito, fratelli, facciamo in modo che per noi la Pasqua significhi veramente
un punto fermo: se dobbiamo compiere questo passaggio,
facciamolo, non perdiamo altro tempo! Se ci viene chiesto di vivere la Pasqua, facciamolo,
con tutta la generosità del nostro cuore! Se dobbiamo affrontare questo passaggio, così determinante e
improrogabile, non rimandiamolo oltre, ma buttiamoci dentro con forza ed
entusiasmo! Perché questa è la nostra Pasqua!
Abbiamo
detto che pesah, pasqua, oltre che passare, vuol dire anche salvare, risparmiare: come ha fatto Dio
con gli Israeliti che, contrariamente agli Egiziani, sono stati risparmiati, hanno avuto salva la vita
di tutti i loro primogeniti. L’Egitto invece, succube di un faraone dal cuore
“duro”, testardo, irremovibile, è stato colpito da una serie di “segni” divini,
da una serie di “prove” della potenza divina. Nove, per l’esattezza, sono stati
questi segni. Esattamente come nove sono i mesi necessari ad una creatura per
nascere, per entrare nella vita, per “risorgere” ad una nuova realtà. In questo
frangente il cuore del faraone non si è sviluppato, non è nato, non è cresciuto: il faraone non è riuscito a formare dentro
di sé un “figlio”, un’anima, ed è morto. E questo è quanto succede anche a noi quando
non ci sviluppiamo dentro, quando non
ci curiamo di formare una nostra vita
interiore: automaticamente, con il nulla all’interno, moriamo anche
all’esterno, nella nostra vita di relazione. Se all’interno non abbiamo l’anima,
all’esterno costruiremo soltanto un arido guscio, un inutile apparire, ancorato
nel nulla; otterremmo un fallimento totale che ci porta inesorabilmente al
vuoto più assoluto, alla morte.
Pasqua
invece è vita: rinasciamo, risorgiamo con Cristo! L’unico invito che Gesù,
nostra Pasqua, ci ripete oggi, è “Vivi! Vivi per me! Vivi insieme a me!”. Certo,
fratelli, questa non è una vita che si improvvisi, non cade dal cielo; tutti siamo
chiamati a sacrificare il nostro agnello:
è un procedimento faticoso, a volte lacerante; ma se affronteremo con decisione
il cammino nel deserto, se attraverseremo coraggiosamente il nostro “mar
Rosso”, sicuramente, alla fine, anche noi conquisteremo la nostra terra della
libertà. Allora sì che vivremo per davvero, fratelli. Allora sì che saremo definitivamente
vittoriosi sulla “morte”; perché il segreto di Pasqua è il segreto di una Vita immortale,
in assoluto la più forte e invincibile.
Una
vita che se ascoltiamo l’invito di Gesù, se andiamo al massimo delle nostre
possibilità, se investiamo tutta l’estensione del nostro cuore, tutta la
ricchezza della nostra anima, tutta l’intensità del nostro amore, tutta la
passione di cui siamo capaci, sicuramente è alla nostra portata.
Può
capitarci a volte di chiedere a qualcuno come gli vada la vita: “Bene!”, ci sentiamo
rispondere. Ma, guardandolo, ci accorgiamo che questo suo “bene” non è altro che
un misero “tirare avanti”, un sopravvivere: non c’è “vita” nei suoi occhi, non
c’è energia nelle sue parole; il suo “Va bene” in realtà significa: “Non va per
niente bene, sono morto, mi sono spento; non ho più fiato, arranco, vado avanti
a tentoni; ormai mi sono abituato, e mi va bene così!”.
Ebbene,
che non succeda mai una cosa simile anche a noi, fratelli! Non contrabbandiamo
l’abitudine ad una non-vita, con la gioia di una vita vera, da liberi, da eredi!
Dovunque
andava, Gesù ci provava sempre: cercava cioè di risvegliare in tutti la scintilla
della loro vita; una scintilla vitale
magari assopita, addormentata, ma mai spenta; perché questa è la verità che Egli
ci ha voluto insegnare: la Vita, quella vera, non muore mai. E per quanto
sembriamo spenti, prosciugati di ogni energia, lontani dalla realtà, alienati
dalla paura, nonostante ciò il respiro della nostra anima, il sigillo di Dio, non
cessa; resiste sempre; magari è in letargo, è coperto di incrostazioni, oscurato,
ma, sotto sotto, vive tenacemente; anche se in forma minima, la nostra scintilla
di Dio sopravvive sempre e comunque. Si tratta di risvegliarla, di ravvivarla, di
stimolarla, di riaccenderla.
Noi viviamo
nel buio, è vero. Ma quel che è peggio, noi amiamo questo buio; dovremmo
guardare in faccia a qualcosa di molto importante e vitale, ma non vogliamo
farlo, non lo vogliamo di proposito: abbiamo paura, e chiudiamo gli occhi. Lo
so, vedere certe cose di noi, prenderne coscienza, ci fa paura. Ma nel buio,
fratelli, non c’è possibilità di Vita; c’è solo menzogna, illusione; significa vivere
non da “figli della luce”, ma da “figli delle tenebre” (Gv 1,5).
Ci rifiutiamo
di guardare, perché continuiamo a fare cose che la nostra anima non vuole fare,
continuiamo a vivere vite moribonde che il nostro cuore non accetta di vivere. Per
questo ci paralizziamo, abbiamo paura di scegliere, di sbagliare, di soffrire. Ci
blocchiamo perché, non ascoltando il nostro cuore, non troviamo nessun’altra
strada, temiamo di ritrovarci soli, e abbiamo paura di percorrere strade nuove,
sconosciute, mai percorse.
Ascoltiamo
invece Gesù che ci dice: “Amico, alzati, prendi il tuo lettuccio, fai la tua
strada con le tue gambe!”. Perché è vero. Tutti abbiamo le nostre gambe: dobbiamo
semplicemente rendercene conto, metterle in moto e camminare da soli, smettendo
di fare i falsi invalidi, di farci compatire, di affidarci alla pietà altrui.
Prendiamo in mano la nostra vita e percorriamola con decisione come Lui
suggerisce al nostro cuore. Perché per noi questo è Pasqua!
Ricordate
il Vangelo? Lebbrosi, figli morti, padri che si inginocchiano a pregare, madri
distrutte dal dolore, persone che sembrano perse nei loro peccati, persone
emarginate da tutti, gente insomma la cui vita sembra spenta, morta, persa. Bene:
Gesù avvicinava tutti e li guariva tutti. Il suo annuncio era: “Dio, la Vita, è
il più forte!”. Ne era convinto. Lo disse, lo visse, lo testimoniò.
Poi
però, un giorno, anche lui morì. E per i suoi fu la fine. Se ne tornarono a
casa delusi. Avevano creduto e puntato tutto su di Lui, ma la morte sembrava
averlo vinto. Sembrava, fratelli; semplicemente sembrava: perché, i pusillanimi, ben presto fecero la scoperta più
grande e più imprevedibile della loro vita: non è stata la morte ad avere l’ultima
parola. È Lui che ha vinto la morte, è Lui che vive. Lui è vivo. E, forti di questa
constatazione, improvvisamente agguerriti, nessuno più riuscì a fermarli; andarono
in tutto il mondo, testimoniando nient’altro che questo: “Lui è vivo. La Vita è
più forte della morte, di ogni morte. Tutto quello che ci aveva detto, è vero.
Lui è la Vita vera”.
Oggi
noi, quando sentiamo queste parole, pensiamo immediatamente all’altra vita, a quella
vera che viene dopo, al Paradiso. Ed è giusto. Ma se non fosse proprio così? Se
non fosse solo questo? E se la nostra vita attuale fosse, già da ora, una
pallida sembianza dell’altra vita, quella vera? E se la vita che viviamo
all’esterno, il nostro mondo, fosse lo specchio della nostra anima, del nostro
mondo interiore? Se il mondo reale fosse
non tanto quello che vediamo, che ci circonda, ma quello che abbiamo dentro?
Quando
noi diciamo: “Il mondo è proprio cattivo, è irriconoscibile: c’è violenza, c’è
odio, ci sono stupri e aggressioni, ci sono imbrogli e ruberie”, ci siamo mai
chiesto cosa nutriamo dentro il nostro cuore? E se fosse che il mondo esterno
va così proprio perché il mondo che è dentro di noi, va esattamente allo stesso
modo? Siamo certi di poter escludere che tutto il male che vediamo all’esterno,
non sia già presente dentro di noi? Non dimentichiamo che Gesù dice: “È dal di
dentro, cioè dal cuore degli uomini, che escono le intenzioni cattive!” (Mc 7,21).
Parole
sacrosante, fratelli, da meditare seriamente; perché, in verità, il male il più
delle volte non è fuori, ma dentro di noi! Non viviamo in due mondi
distinti, in due realtà completamente separate: ma quello che pensiamo di fare per
noi stessi, finiamo per farlo anche per i nostri fratelli, sia esso bene o male:
se ci amiamo, li amiamo. Se ci odiamo, li odiamo.
Pasqua
è la vittoria sulla morte. Un tema ostico, per noi, quello della morte: sappiamo
bene che un giorno dobbiamo morire, ma non ci pensiamo, è l’ultima delle nostre
preoccupazioni; anche perché se ci pensassimo seriamente, ci assalirebbe l’angoscia.
Chi però ci osserva, e non crede nella Pasqua, ha ragione di chiedersi che senso
ha fare ciò che facciamo, dal momento che poi tutti devono morire e tutto
finisce. In effetti, che senso avrebbe il nostro amare, il nostro cercare e
dare Amore, il nostro lottare contro il male, se poi tutto passasse e tutto
finisse? Ma la Pasqua ci dice che la vita non finisce qui: che è solo un passaggio; che Cristo, sconfiggendo la
morte “in un duello prodigioso”, ci ha riservato una esistenza eterna inimmaginabile.
A
questo punto la morte perde ogni sua prospettiva terrificante, non ha più alcun
valore per noi, perché è la Vita vera che ci attrae: ma allora, scusate, se è
la Vita infinita che ci attrae, perché continuiamo a vivere “da morti”? Possibile
mai? Non può essere! Eppure è vero, fratelli: cosa esprime infatti il nostro
volto perennemente incupito? Cosa dicono le nostre parole stizzite? Non siamo forse
noi quelli che serbano rancore per un nonnulla, quelli a cui non va bene mai
niente, quelli che sono sempre acidi e nervosi? E le nostre scelte? Non ne
facciamo; meglio non farne, piuttosto che sbagliare e venire criticati. Insomma,
se amiamo la Vita come diciamo, perché ci comportiamo “da morti”? È semplice: perché
nei fatti ancora non crediamo nella Vita; perché, tutto sommato, siamo ancora convinti
che solo questa sia la nostra vita, e quindi le siamo terribilmente attaccati, abbiamo
tanta paura di perderla. E viviamo nell’angoscia; anzi non viviamo proprio, perché
siamo sempre all’attacco, sempre ombrosi, sempre diffidenti. Non ci capacitiamo
della precarietà dell’oggi, non alziamo il nostro sguardo a Cristo risorto, a
Lui portatore di Vita immortale, a Lui nostra Pasqua di risurrezione.
Anche gli
apostoli, mentre andavano al sepolcro, non avevano ancora capito le Parole che
Gesù aveva detto loro: che cioè il Cristo “doveva risuscitare dai morti” (20,9). Per questo, morto Lui, se ne
tornarono a casa, nello sconforto più profondo. Pensavano: “Beh, è stata una
bella esperienza, peccato che ora sia tutto finito”. Anche per loro la morte
era la fine di tutto; era ancora impensabile e improponibile una morte come principio
di vittoria e di vita, una morte come ri-nascita. Fu lì, al sepolcro, che fecero
l’incredibile, l’irrazionale, l’indicibile scoperta: che le cose non erano così
come loro le pensavano. La realtà andava ben oltre: nella vita attuale si innesta
una Vita più grande, più bella, più intensa, che non ha mai fine.
Questo
fratelli è il miracolo della nostra Pasqua, il miracolo che ci deve contagiare,
che ci deve radicalmente cambiare: esattamente come è successo con il miracolo “storico”
della resurrezione, che riuscì a trasformare definitivamente, in maniera
inspiegabile, uomini pieni di paura, traditori (come Pietro), arrivisti (come Giacomo
e Giovanni), uomini grezzi, per niente acculturati o speciali. Prima (e anche
durante la vita di Gesù) vivevano nella paura e nella difesa; poi andarono
pieni di coraggio, di energia, di vitalità e passione in tutto il mondo, senza più
alcun timore, senza sottrarsi alle sfide e alle persecuzioni; e tutto questo lo
fecero in nome di Cristo.
Questo,
fratelli, fu il grande miracolo: capirono che Lui non era morto, che Lui era
vivo, così vivo da continuare a vederlo, a sentirlo al
loro fianco, da continuare ad accompagnarli. In conclusione, tutto ciò che ora noi viviamo, ci dice
la Pasqua, dobbiamo viverlo con tutta la forza del
cuore in funzione della Vita vera, quella eterna; come assaggio di quella nostra
Pasqua gloriosa, che vivremo sempre con Gesù e il Padre, immersi anche noi nell'estasi del loro
Amore. Amen.