«Otto giorni dopo i discepoli
erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte
chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui
il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e
non essere incredulo, ma credente!» (Gv 20, 19-31).
Cristo
è risorto. Alleluja. Ma ne siamo veramente convinti? Quanti di noi vanno in
chiesa, anche in questo periodo di Pasqua, e pregano il Dio risorto, il Dio Vivo.
Un fatto concreto, ma poco credibile: perché? Perché Dio non è vivo per loro; è
e rimane morto. È un Dio che non entra nella loro vita, non li “tocca”, non li
cambia, non li coinvolge, non penetra nella loro esistenza, non si lasciano
entusiasmare da Lui. È un Dio morto! Non è il Dio di Gesù Cristo, perché Lui è
sì morto ma è anche risorto, è vivo, presente, operante. Molti vanno dunque in
chiesa ma non sono toccati da niente: escono freddi, piatti, vuoti. Come erano
entrati.
Non
vedono Dio. Sono assenti, come era successo a Tommaso; non percepiscono cosa
voglia dire che Lui è Vivo, che Lui ci incontra, che Lui è Vita.
Quando
leggiamo il vangelo e sentiamo le parole di Gesù, le facciamo nostre, le
interiorizziamo, esse sicuramente risuonano in noi, vibrano, sono creatrici di
vita. A volte ci possono creare anche dei problemi, perché non ammettono
compromessi, ma sempre e comunque ci fanno bene; sono sempre salutari perché ci
scuotono, perché ci aprono nuovi orizzonti, perché anche se le porte sono chiuse,
rinserrate, per lo meno qualche fessura inizia a crearsi. In quei momenti Dio è
veramente vivo in noi: agisce, lavora, sentiamo che ci plasma, ci modella, ci
crea. Allora ogni volta che andiamo in chiesa noi lo sentiamo, percepiamo che
Lui è Vivo: e questo non può lasciarci indifferenti.
Ci
dice: “Pace a te: che tu abbia la pace profonda, la pace dell’anima”. E noi la
percepiamo questa pace; sentiamo che possiamo vivere ancorati ad una pace
sovraumana, ad una pace che va oltre tutti i conflitti e le lotte. Avvertiamo
che, nonostante tutte le battaglie di ogni giorno, a volte senza risparmio di
colpi, c’è un luogo dove tutti gli spari della maldicenza, i colpi, le
cattiverie, le fucilate vendicative del mondo non arrivano: è il luogo della
Pace. Comprendiamo allora cosa vuol dire “La pace sia con voi!”, avere pace nel
bel mezzo dei nostri conflitti interiori, pur continuando ad avere problemi,
contrasti o incomprensioni.
Ci
dice: “Il Padre manda me e io mando te”. E sentiamo la nostra grandezza. Noi
abbiamo una missione, noi siamo gli “inviati di Dio”. È difficile crederci, a
volte dubitiamo perché dubitiamo di noi, non ci fidiamo, non possiamo credere
alla nostra grandezza. Ma sentire queste parole e fidarci di Lui ci aiuta a
credere alla nostra missione, alla nostra vocazione, al Suo disegno, al fatto
che noi siamo in questo mondo per un motivo ben preciso, che dobbiamo vivere per
compiere veramente qualcosa di “grande”.
Ci
dice: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la mano e credi”.
Sono parole forti. La mano per gli antichi era l’oggetto di conoscenza. Pilato
che si lava le mani con quel gesto dice: “Non voglio sapere. Preferisco il
buio, l’ignoranza, il non sapere”. Noi invece sentiamo il bisogno di conoscere,
non una conoscenza mentale ma affettiva, del cuore. Sentiamo il bisogno di
“toccare” e di essere toccati da ciò che tocchiamo e vediamo. Sentiamo il
bisogno di percepire nell’altro tutta la sua passione, la sua sofferenza e la
sua voglia di vivere perché dobbiamo farle nostre; perché la sua vita deve
essere la nostra vita. “Chi accoglie loro, accoglie me”, ci ricorda Gesù.
Allora,
fratelli, ogni volta che andiamo a messa, ci andremo non tanto per fare una
bella esperienza, per ricordare qualcosa, per piangere su Gesù. Ma andremo lì e
lo sentiremo vivere in noi; sentiremo che Lui è Risorto veramente; sentiremo
che Lui è vivo; sentiremo che Lui si rivolge a noi; sentiremo che ci chiama e
che ci parla.
Quando
Lo ascoltiamo nel vangelo e permettiamo alle Sue parole di superare le nostre
porte chiuse, blindate, per paura non dei “nemici”, ma dei cambiamenti, del non
sapere a cosa ci porteranno, della fatica e del dolore di metterci in
discussione per la paura di perdere le nostre false immagini, le nostre maschere
e impalcature; per la paura di vederci solo per quello che siamo. In tutte
queste situazioni, quando lo lasciamo entrare, sentiamo che qualcosa ci fa
sussultare, ci fa fremere, ci fa sentire che Lui c’è, che Lui è vivo. Anche noi
come Tommaso possiamo allora dire: “Mio Signore e mio Dio!”.
Il
problema di Tommaso non è stato tanto il dubbio, le domande bisognose di
risposte. Il problema di Tommaso è stata l’esperienza. Lui non laveva visto e non
ne aveva fatto esperienza. Non era stato toccato in profondità dal Signore
Risorto. Era l’amore che gli mancava.
La
fede cristiana è un incontro, un’esperienza, è una relazione personale. È un
innamoramento. Tutte le testimonianze dei fratelli ci aiutano, ci servono, ci
stimolano, ci invitano. Tutte le preghiere sono buone, utili, importanti. Tutti
i gruppi, le liturgie, gli incontri ci aiutano ma se noi non vediamo e non tocchiamo,
cioè non facciamo esperienza personale, la fede degli altri aiuta e serve agli
altri ma non a noi. Inutile farsi un sacco di domande su Dio, sulla vita, fare
infinite congetture e possibili implicazioni. Diamo l’idea di essere dei grandi
pensatori, dei profondi contemplativi, di essere persone che soffrono molto il
problema di Dio. Ma in definitiva abbiamo semplicemente paura di Lui. Non vogliamo
lasciarci coinvolgere, abbiamo paura: temiamo di dover mettere le nostre mani
sulle ferite e sul cuore trafitto. Temiamo l’incontro. Temiamo l’esperienza
bruciante di Dio.
Eppure,
anche noi come Tommaso, lo possiamo toccare realmente nell’Eucaristia. Perché celebrare
nell’eucarestia la morte e la resurrezione del Signore, vuol dire esattamente percepire
la sua presenza, incontrarlo, sentire che Lui è il Vivente, che Lui ci parla,
che Lui ci incontra. Sentire che non solo Lui ha vissuto, ma che Lui vive; che non
solo Lui è stato forza e passione, ma che Lui è Forza e Passione; che non solo Lui
ha chiamato e guarito, ma che Lui ci chiama e ci guarisce.
Quando
il Risorto appare, mostra agli apostoli le mani e il costato feriti. In ogni
eucaristia noi mostriamo e tendiamo a Lui le nostre mani ferite. Con le mani
lavoriamo e facciamo tante cose. Le nostre mani ferite sono il dolore e la
sofferenza che viviamo mentre lavoriamo, mentre facciamo il nostro dovere e veniamo
umiliati. Le mani ferite sono quelle mani che si aggrappano a noi, che non ci
lasciano liberi, che pretendono sempre e tutto da noi, che ci inchiodano ad
ogni minimo sbaglio, che ci trattengono e che ci feriscono. Sono quelle situazioni
e quei ruoli in cui tutti si aspettano tutto da noi.
Le nostre
mani sono ferite quando qualcuno che amavamo ritira improvvisamente la sua
mano, non ci appoggia più, ci toglie il suo sostegno, il suo amore, ci tradisce.
Le mani ferite sono quando ci rendiamo conto che anche noi abbiamo vissuto
male, che abbiamo anche noi ferito e umiliato; quando in certi giorni ci
vergogniamo di ciò che siamo. Allora abbiamo bisogno di un amore che ci risani
e che ci ridia dignità.
In
ogni eucaristia Gesù ci mostra le sue mani perché anche noi possiamo mostrargli
le nostre mani. Perché se gli mostriamo le nostre mani ferite, potremo
sperimentare immediatamente la forza risanante del Suo amore. Molti si tengono
dentro le ferite. Soffrono e non lo dicono a nessuno; non lasciano trasparire nulla.
Allora il dolore marcisce, diventa cancrena e porta alla morte. Se una ferita
non viene curata, medicata, infetta tutto l’organismo. Le mani di molte
persone, le loro vite, sono piene di dolore, di rabbia, di lacrime e di
umiliazioni. Ma temono di aprirle e mostrarle, si vergognano. Ma in questo modo
non può avvenire nessuna guarigione, niente può trasformarsi, niente può essere
risanato. Chi non si accorge di essere malato, come può guarire? Non si può
vivere senza essere feriti. Ma si può vivere, e bene, guarendo.
In
ogni eucaristia noi portiamo le nostre mani ferite. E facciamo un gesto piccolo
ma infinitamente grande. Con le nostre mani ferite ci accostiamo all’altare e
le apriamo, le stendiamo perché il Sacerdote vi deponga Cristo, con il suo
Corpo vivente; perché Lui si prenda cura di tutte le nostre ferite, e le
risani. Noi gli tendiamo tutte le nostre ferite e lui viene con il suo amore: nel
nostro dolore, entra il suo amore. Perché lì, dove c’era rifiuto, ci sia
accettazione. Dove c’era paura ci sia fiducia. Dove c’era esclusione ci sia
accoglienza.
In
ogni eucaristia noi mostriamo il nostro costato e il nostro cuore trafitto. Il nostro
cuore è ferito dal desiderio di amare e di non riuscirci, di farlo soltanto in
modo aggressivo, possessivo o avvinghiante. Vorremmo amare di più i fratelli;
vorremmo amarli meglio; vorremmo amarli più in profondità, ma spesso non ci
riusciamo. A volte non lo facciamo, per paura di essere lasciati, di essere
traditi; abbiamo paura di amare. Andiamo allora, fratelli; andiamo a messa e
mostriamo a Gesù le nostre mani sanguinanti, il nostro cuore trafitto, da cui
sgorga amore e dolore. In ogni eucaristia, mostriamogli il nostro cuore, il nostro
amore e chiediamogli di trasformare il nostro modo meschino di amare. In ogni
eucaristia mostriamogli il nostro bisogno vitale di amore. A volte pensiamo di
bastare a noi stessi, di non aver bisogno di nessuno, di arrangiarci da soli.
Ma sappiamo che non è così, e quando ammettiamo questo bisogno, siamo disposti
a prendere qualunque amore, anche di sottobanco, attraverso la gloria, l’imporci,
il comandare.
In
ogni eucaristia mettiamo allora nel Suo cuore il nostro bisogno di ricevere
amore, la nostra fatica di aprirci per riceverlo, la nostra paura di essere
vulnerabili, di essere nuovamente feriti. In ogni eucaristia mostriamogli il nostro
cuore trafitto, ferito nell’amore, ma bisognoso d’amore. E chiediamo a Dio di
darci la forza di poter continuare ad aprire continuamente il nostro cuore, di
non aver mai paura di fidarci dell’amore e di Dio. E Cristo Signore, risorto e
vivo, ci benedica sempre. Amen.
«Allora entrò anche l’altro
discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non
avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai
morti». (Gv 20,1-9)
Pasqua:
una parola profonda, carica di significato. Vuol dire, passare, salvare, risparmiare. La parola ebraica pesah (da cui pasqua) indica appunto il grande passaggio del Mar Rosso. Ricordate? In Egitto gli Ebrei erano
schiavi del faraone; non hanno praticamente nulla; pane, cipolle e un lavoro
massacrante; ma, quel che è peggio, sono affetti da un male ancor più grave e terribile:
l’abitudine. Si sono cioè abituati a questa non-vita, si sono abituati a vivere
da schiavi, a vivere una vita che non è vita, che non ha nulla di “umano”, che
è decisamente morte.
Ecco,
fratelli, questo può diventare anche il nostro dramma: confondere cioè la “vita”
con la schiavitù. Di qualunque genere essa sia. E abituarci, affezionarci a
questa schiavitù.
Del
resto guardiamoci intorno: non è forse un dramma quello di pensare di vivere
da liberi, quando invece siamo schiavi, sottomessi, dominati dai nostri
istinti, dal nostro egoismo, dalle nostre passioni, dalla nostra cattiveria? Ebbene:
Pasqua deve costituire anche per noi un autentico “passaggio”: passare cioè da
uno stato di dipendenza negativa, dal male, dal mondo, da una mentalità “laica”,
ad una entusiasmante e rigenerante libertà. Certo, è un passaggio difficile, un
passaggio che può sembrare addirittura impossibile, un passaggio per il quale
dobbiamo necessariamente ricorrere all’aiuto di Qualcuno, di fidarci ciecamente
di Qualcuno. Ed è questo il messaggio che le parole di Cristo, nostra Pasqua, oggi
ci trasmettono in tono perentorio: “Vivi da uomo libero. Non buttarti via, non continuare ad illuderti, non vivere
più da schiavo. Io ti ho affrancato”.
Ascoltiamo
questo invito, fratelli, facciamo in modo che per noi la Pasqua significhi veramente
un punto fermo: se dobbiamo compiere questo passaggio,
facciamolo, non perdiamo altro tempo! Se ci viene chiesto di vivere la Pasqua, facciamolo,
con tutta la generosità del nostro cuore! Se dobbiamo affrontare questo passaggio, così determinante e
improrogabile, non rimandiamolo oltre, ma buttiamoci dentro con forza ed
entusiasmo! Perché questa è la nostra Pasqua!
Abbiamo
detto che pesah, pasqua, oltre che passare, vuol dire anche salvare, risparmiare: come ha fatto Dio
con gli Israeliti che, contrariamente agli Egiziani, sono stati risparmiati, hanno avuto salva la vita
di tutti i loro primogeniti. L’Egitto invece, succube di un faraone dal cuore
“duro”, testardo, irremovibile, è stato colpito da una serie di “segni” divini,
da una serie di “prove” della potenza divina. Nove, per l’esattezza, sono stati
questi segni. Esattamente come nove sono i mesi necessari ad una creatura per
nascere, per entrare nella vita, per “risorgere” ad una nuova realtà. In questo
frangente il cuore del faraone non si è sviluppato, non è nato, non è cresciuto: il faraone non è riuscito a formare dentro
di sé un “figlio”, un’anima, ed è morto. E questo è quanto succede anche a noi quando
non ci sviluppiamo dentro, quando non
ci curiamo di formare una nostra vita
interiore: automaticamente, con il nulla all’interno, moriamo anche
all’esterno, nella nostra vita di relazione. Se all’interno non abbiamo l’anima,
all’esterno costruiremo soltanto un arido guscio, un inutile apparire, ancorato
nel nulla; otterremmo un fallimento totale che ci porta inesorabilmente al
vuoto più assoluto, alla morte.
Pasqua
invece è vita: rinasciamo, risorgiamo con Cristo! L’unico invito che Gesù,
nostra Pasqua, ci ripete oggi, è “Vivi! Vivi per me! Vivi insieme a me!”. Certo,
fratelli, questa non è una vita che si improvvisi, non cade dal cielo; tutti siamo
chiamati a sacrificare il nostro agnello:
è un procedimento faticoso, a volte lacerante; ma se affronteremo con decisione
il cammino nel deserto, se attraverseremo coraggiosamente il nostro “mar
Rosso”, sicuramente, alla fine, anche noi conquisteremo la nostra terra della
libertà. Allora sì che vivremo per davvero, fratelli. Allora sì che saremo definitivamente
vittoriosi sulla “morte”; perché il segreto di Pasqua è il segreto di una Vita immortale,
in assoluto la più forte e invincibile.
Una
vita che se ascoltiamo l’invito di Gesù, se andiamo al massimo delle nostre
possibilità, se investiamo tutta l’estensione del nostro cuore, tutta la
ricchezza della nostra anima, tutta l’intensità del nostro amore, tutta la
passione di cui siamo capaci, sicuramente è alla nostra portata.
Può
capitarci a volte di chiedere a qualcuno come gli vada la vita: “Bene!”, ci sentiamo
rispondere. Ma, guardandolo, ci accorgiamo che questo suo “bene” non è altro che
un misero “tirare avanti”, un sopravvivere: non c’è “vita” nei suoi occhi, non
c’è energia nelle sue parole; il suo “Va bene” in realtà significa: “Non va per
niente bene, sono morto, mi sono spento; non ho più fiato, arranco, vado avanti
a tentoni; ormai mi sono abituato, e mi va bene così!”.
Ebbene,
che non succeda mai una cosa simile anche a noi, fratelli! Non contrabbandiamo
l’abitudine ad una non-vita, con la gioia di una vita vera, da liberi, da eredi!
Dovunque
andava, Gesù ci provava sempre: cercava cioè di risvegliare in tutti la scintilla
della loro vita; una scintilla vitale
magari assopita, addormentata, ma mai spenta; perché questa è la verità che Egli
ci ha voluto insegnare: la Vita, quella vera, non muore mai. E per quanto
sembriamo spenti, prosciugati di ogni energia, lontani dalla realtà, alienati
dalla paura, nonostante ciò il respiro della nostra anima, il sigillo di Dio, non
cessa; resiste sempre; magari è in letargo, è coperto di incrostazioni, oscurato,
ma, sotto sotto, vive tenacemente; anche se in forma minima, la nostra scintilla
di Dio sopravvive sempre e comunque. Si tratta di risvegliarla, di ravvivarla, di
stimolarla, di riaccenderla.
Noi viviamo
nel buio, è vero. Ma quel che è peggio, noi amiamo questo buio; dovremmo
guardare in faccia a qualcosa di molto importante e vitale, ma non vogliamo
farlo, non lo vogliamo di proposito: abbiamo paura, e chiudiamo gli occhi. Lo
so, vedere certe cose di noi, prenderne coscienza, ci fa paura. Ma nel buio,
fratelli, non c’è possibilità di Vita; c’è solo menzogna, illusione; significa vivere
non da “figli della luce”, ma da “figli delle tenebre” (Gv 1,5).
Ci rifiutiamo
di guardare, perché continuiamo a fare cose che la nostra anima non vuole fare,
continuiamo a vivere vite moribonde che il nostro cuore non accetta di vivere. Per
questo ci paralizziamo, abbiamo paura di scegliere, di sbagliare, di soffrire. Ci
blocchiamo perché, non ascoltando il nostro cuore, non troviamo nessun’altra
strada, temiamo di ritrovarci soli, e abbiamo paura di percorrere strade nuove,
sconosciute, mai percorse.
Ascoltiamo
invece Gesù che ci dice: “Amico, alzati, prendi il tuo lettuccio, fai la tua
strada con le tue gambe!”. Perché è vero. Tutti abbiamo le nostre gambe: dobbiamo
semplicemente rendercene conto, metterle in moto e camminare da soli, smettendo
di fare i falsi invalidi, di farci compatire, di affidarci alla pietà altrui.
Prendiamo in mano la nostra vita e percorriamola con decisione come Lui
suggerisce al nostro cuore. Perché per noi questo è Pasqua!
Ricordate
il Vangelo? Lebbrosi, figli morti, padri che si inginocchiano a pregare, madri
distrutte dal dolore, persone che sembrano perse nei loro peccati, persone
emarginate da tutti, gente insomma la cui vita sembra spenta, morta, persa. Bene:
Gesù avvicinava tutti e li guariva tutti. Il suo annuncio era: “Dio, la Vita, è
il più forte!”. Ne era convinto. Lo disse, lo visse, lo testimoniò.
Poi
però, un giorno, anche lui morì. E per i suoi fu la fine. Se ne tornarono a
casa delusi. Avevano creduto e puntato tutto su di Lui, ma la morte sembrava
averlo vinto. Sembrava, fratelli; semplicemente sembrava: perché, i pusillanimi, ben presto fecero la scoperta più
grande e più imprevedibile della loro vita: non è stata la morte ad avere l’ultima
parola. È Lui che ha vinto la morte, è Lui che vive. Lui è vivo. E, forti di questa
constatazione, improvvisamente agguerriti, nessuno più riuscì a fermarli; andarono
in tutto il mondo, testimoniando nient’altro che questo: “Lui è vivo. La Vita è
più forte della morte, di ogni morte. Tutto quello che ci aveva detto, è vero.
Lui è la Vita vera”.
Oggi
noi, quando sentiamo queste parole, pensiamo immediatamente all’altra vita, a quella
vera che viene dopo, al Paradiso. Ed è giusto. Ma se non fosse proprio così? Se
non fosse solo questo? E se la nostra vita attuale fosse, già da ora, una
pallida sembianza dell’altra vita, quella vera? E se la vita che viviamo
all’esterno, il nostro mondo, fosse lo specchio della nostra anima, del nostro
mondo interiore? Se il mondo reale fosse
non tanto quello che vediamo, che ci circonda, ma quello che abbiamo dentro?
Quando
noi diciamo: “Il mondo è proprio cattivo, è irriconoscibile: c’è violenza, c’è
odio, ci sono stupri e aggressioni, ci sono imbrogli e ruberie”, ci siamo mai
chiesto cosa nutriamo dentro il nostro cuore? E se fosse che il mondo esterno
va così proprio perché il mondo che è dentro di noi, va esattamente allo stesso
modo? Siamo certi di poter escludere che tutto il male che vediamo all’esterno,
non sia già presente dentro di noi? Non dimentichiamo che Gesù dice: “È dal di
dentro, cioè dal cuore degli uomini, che escono le intenzioni cattive!” (Mc 7,21).
Parole
sacrosante, fratelli, da meditare seriamente; perché, in verità, il male il più
delle volte non è fuori, ma dentro di noi! Non viviamo in due mondi
distinti, in due realtà completamente separate: ma quello che pensiamo di fare per
noi stessi, finiamo per farlo anche per i nostri fratelli, sia esso bene o male:
se ci amiamo, li amiamo. Se ci odiamo, li odiamo.
Pasqua
è la vittoria sulla morte. Un tema ostico, per noi, quello della morte: sappiamo
bene che un giorno dobbiamo morire, ma non ci pensiamo, è l’ultima delle nostre
preoccupazioni; anche perché se ci pensassimo seriamente, ci assalirebbe l’angoscia.
Chi però ci osserva, e non crede nella Pasqua, ha ragione di chiedersi che senso
ha fare ciò che facciamo, dal momento che poi tutti devono morire e tutto
finisce. In effetti, che senso avrebbe il nostro amare, il nostro cercare e
dare Amore, il nostro lottare contro il male, se poi tutto passasse e tutto
finisse? Ma la Pasqua ci dice che la vita non finisce qui: che è solo un passaggio; che Cristo, sconfiggendo la
morte “in un duello prodigioso”, ci ha riservato una esistenza eterna inimmaginabile.
A
questo punto la morte perde ogni sua prospettiva terrificante, non ha più alcun
valore per noi, perché è la Vita vera che ci attrae: ma allora, scusate, se è
la Vita infinita che ci attrae, perché continuiamo a vivere “da morti”? Possibile
mai? Non può essere! Eppure è vero, fratelli: cosa esprime infatti il nostro
volto perennemente incupito? Cosa dicono le nostre parole stizzite? Non siamo forse
noi quelli che serbano rancore per un nonnulla, quelli a cui non va bene mai
niente, quelli che sono sempre acidi e nervosi? E le nostre scelte? Non ne
facciamo; meglio non farne, piuttosto che sbagliare e venire criticati. Insomma,
se amiamo la Vita come diciamo, perché ci comportiamo “da morti”? È semplice: perché
nei fatti ancora non crediamo nella Vita; perché, tutto sommato, siamo ancora convinti
che solo questa sia la nostra vita, e quindi le siamo terribilmente attaccati, abbiamo
tanta paura di perderla. E viviamo nell’angoscia; anzi non viviamo proprio, perché
siamo sempre all’attacco, sempre ombrosi, sempre diffidenti. Non ci capacitiamo
della precarietà dell’oggi, non alziamo il nostro sguardo a Cristo risorto, a
Lui portatore di Vita immortale, a Lui nostra Pasqua di risurrezione.
Anche gli
apostoli, mentre andavano al sepolcro, non avevano ancora capito le Parole che
Gesù aveva detto loro: che cioè il Cristo “doveva risuscitare dai morti” (20,9). Per questo, morto Lui, se ne
tornarono a casa, nello sconforto più profondo. Pensavano: “Beh, è stata una
bella esperienza, peccato che ora sia tutto finito”. Anche per loro la morte
era la fine di tutto; era ancora impensabile e improponibile una morte come principio
di vittoria e di vita, una morte come ri-nascita. Fu lì, al sepolcro, che fecero
l’incredibile, l’irrazionale, l’indicibile scoperta: che le cose non erano così
come loro le pensavano. La realtà andava ben oltre: nella vita attuale si innesta
una Vita più grande, più bella, più intensa, che non ha mai fine.
Questo
fratelli è il miracolo della nostra Pasqua, il miracolo che ci deve contagiare,
che ci deve radicalmente cambiare: esattamente come è successo con il miracolo “storico”
della resurrezione, che riuscì a trasformare definitivamente, in maniera
inspiegabile, uomini pieni di paura, traditori (come Pietro), arrivisti (come Giacomo
e Giovanni), uomini grezzi, per niente acculturati o speciali. Prima (e anche
durante la vita di Gesù) vivevano nella paura e nella difesa; poi andarono
pieni di coraggio, di energia, di vitalità e passione in tutto il mondo, senza più
alcun timore, senza sottrarsi alle sfide e alle persecuzioni; e tutto questo lo
fecero in nome di Cristo.
Questo,
fratelli, fu il grande miracolo: capirono che Lui non era morto, che Lui era
vivo, così vivo da continuare a vederlo, a sentirlo al
loro fianco, da continuare ad accompagnarli. In conclusione, tutto ciò che ora noi viviamo, ci dice
la Pasqua, dobbiamo viverlo con tutta la forza del
cuore in funzione della Vita vera, quella eterna; come assaggio di quella nostra
Pasqua gloriosa, che vivremo sempre con Gesù e il Padre, immersi anche noi nell'estasi del loro
Amore. Amen.
«Mancavano due giorni alla
Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di
catturare Gesù con un inganno per farlo morire» (Mc 14,1-15,47).
Nel
racconto della Passione, riviviamo la storia di un uomo perdutamente innamorato
di Dio e degli uomini. Un amore “folle” che lo ha spinto fino ad accettare l’estrema
conseguenza: la morte. Tutta la vita di Gesù, uomo-Dio, è stata vissuta con passione, con
intensità, bruciando, amando, piangendo, commovendosi, non passando
indifferente vicino a niente, infuocato ora d’amore e ora di sdegno. Una vita
vibrante, appassionata, ricca di tutti i sentimenti che un uomo può provare. Una
vita di fedeltà. Gesù rimane fedele alla sua vita, al suo amore per l’uomo e
per tutto ciò che vive, e soprattutto alla sua unica e vera passione: Dio. E
quando tutto sembrò finire, concludersi; quando tutto sembrò chiudersi Dio non
lo tradì. La Passione è la storia di quest’uomo fedele a se stesso e al proprio
profondo, innamorato di questo Dio che non lo lasciò, ma che confermò con la
resurrezione che tutto ciò che Egli viveva era “Dio”.
Ripercorriamo
insieme alcune scene di questo straziante percorso di Gesù, così come ci
vengono proposte oggi dal vangelo: in Gesù possiamo anche noi ritrovare la
forza per compiere il nostro viaggio, fino in fondo, per vivere con passione la
nostra vita; possiamo rispecchiarci nelle varie situazioni, nei personaggi che vengono
coinvolti nel racconto, per capire come noi viviamo la vita di ogni giorno, con
quali atteggiamenti, con quale fiducia o paura. In loro possiamo rivederci,
ritrovarci; capire meglio, e più in profondità, la nostra vita. Sono dei
simboli profondi, delle icone stampate a fuoco, che vivono in ciascuno di noi e
in ogni uomo:
14, 3-9: l’unzione di Betania. Due giorni prima della
crocifissione Gesù partecipa ad una cena a Betania. Una donna gli si accosta e
gli unge il capo con unguento prezioso. Non era un gesto insolito, ma si usava,
in genere, solo in occasioni solenni. Il valore dell’unguento è molto elevato,
stimato quasi quanto il salario annuo di un lavoratore. È un gesto di assoluta
bontà. Del resto che cosa può fare questa donna per Gesù? Niente. In che modo
lo può aiutare? In nessun modo. Può togliergli la delusione, il senso di
fallimento, della fine, che Gesù vive? No. Questa donna non può fare niente,
non può cambiare o togliere niente dal corso preso dagli eventi. Non può fare
nulla. Ma può amarlo. E così le sue mani delicate e tenere, curano, accarezzano
e sollevano il capo di Gesù. “Lasciatela stare, lasciatela che mi ami, lasciate
che mi conforti, lasciate che si prenda cura di me”. È l’amore! Quando non si
può fare più niente, possiamo sempre amare, stare vicini, stare a fianco,
prenderci cura, stare silenziosamente presenti. Quando più nulla è possibile
fare, non ci resta che amare. E questo è tutto il nostro potere.
14, 10-21: Giuda. Come è stato possibile che
uno di quelli che seguivano, che amavano Gesù, lo abbia tradito? Come è stato
possibile che uno di quelli che per Lui avevano lasciato tutto, lo abbia
consegnato ai nemici? Rimane un mistero. Il Vangelo accenna al denaro. Cosa non
si fa per denaro! Per il denaro può succedere che siamo pronti a vendere quello
che abbiamo di più prezioso, di più caro, di più importante: il nostro cuore,
la nostra anima, l’affetto e il nostro tempo. E quando abbiamo perso tutto,
cosa ci rimane? Chi insegue il denaro finisce come Giuda, che disperato si impicca.
Il denaro è una illusione affascinante che conduce alla disperazione quando ci
si accorge che, credendo di avere tutto, di potere tutto, in realtà, non abbiamo
niente; non abbiamo amato, non abbiamo vissuto; abbiamo solo inseguito una illusione,
un’apparenza, un sogno. È la morte.
14, 22-25: l’eucarestia. Il sinedrio ha già deciso di
condannare Gesù. E Gesù, durante la cena pasquale, con l’immagine del pane e
del vino, fa della sua vita un dono. Gesù dice: “Sì, sono io quel pane che
viene spezzato. Desidero che la mia vita sia come il grano, che si dona e
diventa alimento, vita, per molte persone. Desidero che dal mio morire, che dal
mio andare fino in fondo, altri gustino la vita. Desidero che la passione della
mia vita, il mio vibrare e il mio sangue siano ebbrezza, gusto, fuoco per altre
persone. Vorrei essere per tutti voi un po’ di pane e un po’ di vino. Vorrei
che la mia vita, che sta per finire, diventasse per voi e per il mondo,
alimento, vita, sapore, gusto, senso e felicità”. Con queste parole Gesù
affronta la sua sofferenza. Non gli sarà tolta: niente esternamente cambierà.
Ma tutto sarà diverso, perché adesso c’è una preghiera, un senso su ciò che sta
per accadere. Nonostante tutto, al di là di tutti i motivi razionali, il nostro
dolore da oggi sarà qualcosa di buono. Sapremo, come nel pane e nel vino, che
ciò che è frantumato crea nuova vita. La nostra sofferenza diventerà nuova vita;
anche se perdiamo la vita non moriremo e, se ci lasceremo portare, dalla nostra
morte risorgeremo meravigliosamente a nuova vita. Cosa poteva donarci di più
Gesù? Gesù non ci ha donato solo delle belle parole, dei bei miracoli, dei bei
discorsi. Gesù si è donato lui stesso a noi. Questo è il vertice della vita. Perché
l’amore è donarsi. L’amore vuole darsi, e darsi del tutto, fino alla fine,
completamente. In ogni eucaristia noi celebriamo proprio questo: un amore
donato. E in ogni amore donato, noi celebriamo un’eucarestia.
14, 26-42: il Getsemani. Gesù prega: avrebbe potuto
fuggire, ma decide di andare fino in fondo alla sua missione. Non viene
descritto come abbandonato da Dio, sfiduciato, lontano da suo Padre. Anzi, Gesù
lo prega, il Padre. C’è molta comunicazione tra lui e suo Padre. Ma Gesù ha
paura; è terribilmente angosciato di fronte a ciò che sta per accadere. È
l’angoscia di finire nel nulla della lotta per la vita. È l’angoscia per un
supplizio che gli si prospetta terribile; l’angoscia per sentirsi tradito; la
paura del fallimento, del dubbio terribile: Gesù continua ad essere in
comunicazione con Dio, ma dall’altra parte tutte le paure, tutti i mostri
interiori si materializzano. Qui c’è, tutta la solitudine di Gesù. Nessuno dei
suoi amici, neanche i più intimi, Pietro, Giacomo e Giovanni, riescono a
stargli vicino. Dormono. Cioè, non capiscono, non colgono la profondità, il
dramma, cosa ci sia in questione. Vivono nella superficie, non si accorgono di
ciò che sta accadendo. Sono addormentati, anestetizzati, sono così presi dalle
loro cose e da tanto altro che non “vedono” la tragedia che si sta per
compiere. Ma come si fa a dormire, ad essere tranquilli in momenti simili? Gesù,
ed è qui così umano, chiede loro: “State con me; ho paura, so che non potete
far nulla, ma almeno vegliate, non lasciatemi solo”. Ma essi dormono. Gesù si
accorge che non può contare su nessuno. È solo. Nessuno gli è vicino; nessuno
lo comprende; nessuno lo consola. Non può contare su nessuno.
14, 26.-31. 66-72: il
tradimento di Pietro.
A Gerusalemme, probabilmente, nessun gallo ha mai cantato! Ma non è questo il
punto! Pietro è la roccia (Cèfa, Pietro, roccia); è l’uomo che ostenta
sicurezza: “Anche se tutti saranno scandalizzati, io non lo sarò”. È l’uomo
istintivo, d’azione, un uomo che, dice lui, non ha paura. Pietro in questo rappresenta
la nostra “rettitudine” morale, religiosa, il nostro credere di essere fedeli,
la nostra esuberanza che ci fa pensare: “Capiteranno agli altri queste cose,
non certo a me!”. Pietro rappresenta la banalità con cui la gente si conosce,
un idealismo e una superficialità che si dissolve di fronte alla vita. Gesù
perdona Pietro, prima ancora che lo tradisca. Ma finché Pietro non si rende conto
di ciò che lui è, di ciò che ha potuto fare, non può percepire che l’amore di
Gesù e di Dio è più grande del nostro fallimento, del nostro errore. Dio non ci
chiede di essere perfetti; ci chiede solo di essere umani, consapevoli di ciò
che abbiamo dentro, dei nostri sentimenti, delle nostre paure e delle nostre
fragilità. Perché ogni volta che presumiamo di noi allora, anche noi, spinti
dalle nostre paure inconsce lo tradiremo, e non ci accorgeremo dei nostri
tradimenti! Pietro rappresenta qui la chiesa, noi cristiani. Di fronte al
pericolo ci defiliamo. Finché le cose vanno bene, sono facili, allora è
semplice seguire Gesù. Quanti lo hanno seguito finché predicava, finché guariva!
Qualche giorno prima era entrato a Gerusalemme tra canti, palme e ulivi. Ma
adesso? Quando c’è da mettersi in gioco, da mettere in gioco quello che si è,
da cambiare, da convertirsi, da trasformarsi, quando c’è il pericolo delle
proprie scelte, allora la chiesa, noi, ci comportiamo come Pietro: rinneghiamo
la verità, facciamo finta di niente, tradiamo la nostra chiamata. Quante volte imprechiamo,
spergiuriamo, quante volte ci difendiamo con tutte le forze e ci ribelliamo,
quando seguire Gesù è pericoloso, è compromettente, doloroso, controcorrente!
Quando Gesù ci chiama a testimoniare di persona, con la nostra vita, allora,
fratelli miei, con quanta facilità ci tiriamo indietro!
14, 43-52: l’arresto di Gesù. Osserviamo semplicemente come
si scagliano contro Gesù. Va da lui “una folla con bastoni e spade”. Giuda, uno
degli apostoli, lo bacia e lo tradisce. Gli mettono “le mani addosso e lo
arrestano”. “E tutti, poi, abbandonandolo, fuggirono”. È l’infamia, il
giudizio, della folla, della gente; del detto per sentito dire; di chi si
scaglia e attacca per cose riportate da altri; del perché sembra, del perché
qualcuno ha detto. È l’infamia di chi ci ferisce e ci bastona senza motivo. È
la falsità di chi ci sembrava amico. Di chi ci bacia (certi baci sono proprio
come quelli di Giuda!), di chi ci sorride, di chi ci incensa e poi ci tradisce.
È la meschinità di chi nel pericolo se ne va: “Si arrangi, non sono affari
miei”.
14, 53-65: Gesù davanti al
sinedrio. I
capi e i sacerdoti cercano, e non li trovano, motivi per metterlo a morte.
Molti attestano testimonianze contro di lui, ma sono così false e distorte
dalla verità che non concordano. Alla fine trovano qualcosa, un qualche motivo
per accusarlo. È la distorsione della verità. È quando l’odio, la rabbia e
tutto il sentimento interno scoppia e sfocia in un’aggressività che giudica,
che vuole ferire, che vuole punire. E non importa chi ci sia davanti; non importa
cosa l’altro abbia detto o fatto. Quando l’anima è piena di odio e di rabbia
allora bisogna trovare qualcuno da infangare. Allora non esiste più l’altro
nella sua verità, non esiste più l’obbiettività, esiste solo il nostro odio che
esce, giudica, uccide e si scaglia contro l’altro. Quante persone insultano,
schiaffeggiano, sputano addosso agli altri tutto il loro male! E non si
accorgono che non sono gli altri a fare il male: ma è il loro di male, il loro lato
negativo, il loro marcio. Combattono negli altri il loro male. E facendo così,
continuano ad uccidere, a crocifiggere in nome di una falsa verità.
15, 1-15: Pilato. Gesù è stato giustiziato dai
Romani. Difficile dire quanto Pilato abbia influito. Pilato coglie la forza, la
profondità dell’uomo che ha davanti e anche l’inganno che i giudei stanno per
tendergli. Pilato coglie “l’invidia”, l’odio con cui glielo hanno consegnato.
Potrebbe lasciarlo andare. Lui sì che potrebbe fare qualcosa. Lui decide, lui
può decidere per la vita o per la morte di Gesù. Ma l’unica cosa che gli
interessa è il potere, aver meno problemi possibili e non incrinare i rapporti
politici. Pilato sembra comandare, essere il potente; e, invece, è intrappolato
nel gioco del consenso, dell’approvazione, del successo, del possesso, del detenere
il potere. Sembra comandare, sembra essere il re e, invece, è l’impotente,
colui che non può agire, che non può deludere i suoi pari; che non può
manifestare il suo dissenso; che non ha il coraggio di prendere una posizione
chiara; cerca un compromesso, ma cede subito; è l’uomo che si omologa, che va
dove vanno tutti. E si crede il re. Si crede il governatore, si crede potente. Potente
di cosa?
15, 24-38: la crocifissione e
la morte. Guardiamo
la croce per capirne il senso profondo. Abbiamo bisogno di “sostare” per
entrare nel suo mistero. Dio viene appeso ad una croce. Con Gesù muoiono tutte
le speranze, chi aveva lottato con lui, chi aveva coltivato il desiderio e
l’attesa di qualcosa di nuovo, di diverso, di vero, per lui e per questo mondo.
Come avranno vissuto questo evento le persone che Gesù aveva guarito? Come l’avrà
vissuto la Maddalena? Come l’avrà vissuto Zaccheo, i sordi che tornavano a
sentire, i muti che tornavano a parlare, i ciechi che tornavano a vedere, i
morti che tornavano a vivere? Come l’avranno vissuto, cos’avranno provato nel
vedere che chi aveva dato loro la vita, adesso è appeso, attaccato come il
peggiore dei farabutti ad una croce? Sapere che quell’uomo che li ama è proprio
Dio, che quell’uomo viene in nome della verità, che quell’uomo parla perché
ispirato da Dio, e vederlo in croce: cosa si prova? Dove finiscono tutte le
nostre certezze? Cosa si prova nel vedere chi si ama appeso ad una croce? Chi è
il colpevole del numero impressionante di bambini che muoiono di fame? Nessuno.
Chi è colpevole delle tante nefandezze e miserie che colpiscono il mondo?
Nessuno. Di chi è la colpa della morte di Gesù? Di nessuno, è chiaro! Tutti
avevano buoni motivi: Caifa, “la necessità storica”; Pilato “la ragione
politica e il mantenimento dell’ordine”; Pietro “la mia semplice
sopravvivenza”; i sadducei “la legge”; i farisei “la religione”; le persone
rispettabili “la morale”; i soldati “l’obbedienza”. Ognuno aveva i suoi validi
motivi; ma erano sufficienti? O non erano solo tentativi di tranquillizzare la
propria coscienza? Di lavarsene le mani? La croce è l’abbandono totale di Gesù
nelle mani del Padre e della vita. È lo scontro fra due religioni: quella di
Gesù e quella degli ebrei. La religione dei farisei e degli scribi è la
religione della forma, della maschera. Qui contano i grandi numeri,
l’istituzione, l’ordinamento e l’obbedienza. Non importa se le leggi
distruggono le persone o le appesantiscono di sensi di colpa o di fardelli
insopportabili. Ciò che conta è la legge, il rispetto ossequioso alla norma.
Più cose fai e più sei bravo. Gesù, invece, amava la vita, non la sofferenza.
Gesù dava voce alle persone, le ascoltava, dava attenzioni ai bambini, alle
donne, a chi era escluso dalla società; nessuno era impuro per Gesù, lebbroso,
prostituta o pagano che fosse, perché tutti per lui erano figli dell’unico
Padre. Gesù non faceva molti sacrifici, non digiunava, non si comportava
scrupolosamente nei confronti delle regole. Era molto libero, mangiava,
banchettava, faceva spesso festa e amava la compagnia e la felicità. Perché sapeva
che il vero sacrificio, il vero digiuno, la vera croce non era fare qualcosa,
ma fare della propria vita qualcosa di vero, di importante e di significativo.
Non cercava sacrifici o sofferenze. Anzi le evitava. Gesù non reprimeva
l’amore, non evitava il contatto con le donne, come quelle che lo accarezzavano
o lo baciavano. Gesù piangeva. Gesù si arrabbiava. Com’era dentro, così era
fuori. Gesù si stupiva e si commuoveva. Gesù voleva che fossimo umani. Che in
noi non c’è niente che sia indegno agli occhi di Dio, da nasconderci. Che
davanti a Dio possiamo presentarci per quello che siamo, senza falsi teatrini o
belle maschere. Perché in croce tutto questo finisce. Questa era la religione
di Gesù. Questa è la religione che hanno tentato di crocifiggere, di eliminare,
di distruggere e di far morire. Ma la verità può essere nascosta, ignorata, ma
mai distrutta. E, infatti, non solo Gesù è risorto, ma con lui anche la sua
pretesa del regno dei cieli e di questa religione. E quando il venerdì santo
andremo a baciare la croce, noi baceremo questa religione, cioè, la religione
di Gesù, della vita, dell’amore, della verità. Andremo a baciare la croce
perché, nonostante tutto, la religione di Gesù non è stata sconfitta: Dio,
risorgendo il suo Figlio, ha dimostrato che questa è l’unica e vera religione.
Ciò che viene da Dio non muore mai. Può essere perseguitato, ucciso, deriso,
umiliato, annientato, ma non può morire. Dio è l’unica realtà. Ciò che viene da
Lui, chi si affida a Lui, non muore mai.
15, 38-41: il centurione e le
donne. Sotto
la croce c’è un centurione, un soldato, uno che ha obbedito agli ordini. È
l’uomo che ha sempre obbedito, che non ha riflettuto per conto suo. Ha eseguito
ciò che altri avevano stabilito. Fa quello che tutti fanno. È l’uomo che ha rinunciato
a pensare, che ha delegato le sue responsabilità alla tv, ai sistemi, agli
esperti. Ha appaltato il suo cervello ad altri. Non ha voluto faticare: si è
adattato, omologato, ha seguito il pensiero dei più, quello comune, quello già
digerito da altri. E adesso si rende conto di aver preso parte ad un dramma e
ad una tragedia di cui anche lui, senza saperlo, ne è stato la causa. “Davvero
quest’uomo era figlio di Dio”. Vivere senza pensarci, trascinati dagli altri,
senza consapevolezza, senza ragione critica, produce nuove crocifissioni.
Ognuno è responsabile della sua vita, delle sue scelte, e anche di non aver
scelto.
Vicino
alla croce ci sono inoltre delle donne. È un caso che ci siano solo delle donne
a seguire Gesù? Dove sono gli uomini? Dove sono gli apostoli, i suoi fedeli
amici? È un caso che le prime testimoni della resurrezione, in tutti i vangeli,
siano delle donne? O non è forse un messaggio forte per noi? È la donna, solo
la parte femminile di ogni persona, che può cogliere la resurrezione. Chi non
conosce la tenerezza, l’amore, l’affetto, lo stupore, il pianto, i sentimenti,
la disperazione, il dolore, l’impotenza, la paura, non può “vedere” nessun
Gesù. Solo chi conosce la vita, chi la vive, la sente; solo chi conosce
l’amore, chi sa provare qualcosa nel cuore e percepire l’altro, solo costui
potrà “vedere” il risorto, potrà constatare che la vita non ha fine, e che
l’amore è più forte. L’amore non si arrende, l’amore non può credere alla fine,
alla morte. Chi vive nell’amore conosce l’eternità. Anche quando tutto sembra
dire il contrario, anche quando tutto sembra finito, l’amore conosce
l’eternità. L’amore vuole il “per sempre”. Queste donne non si arrendono
all’evidenza dei fatti perché conoscono l’evidenza del cuore, dell’anima, della
vita e di Dio. E proprio per questo sperare al di là di ogni speranza; per
questo credere al di là di ogni dubbio; per questo amare al di là della fine;
ecco, saranno proprio loro le prime testimoni della resurrezione. Avevano visto
bene: l’amore è più forte e vince tutto. È eterno. Amen.
«Se uno mi vuole servire, mi
segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il
Padre lo onorerà» (Gv 12,20-33).
Il
vangelo di oggi ci introduce nel mistero della vita. Dapprima, con l’immagine
del seme che cade in terra, Gesù ci spiega le due grandi leggi dell’esistenza:
crescere è doloroso, faticoso, a volte è un po’ come morire. Per diventare
“grandi”, adulti, bisogna morire a tante idee romantiche, a tante illusioni, e
maturare. Poi ci ricorda che una vita ha senso solo se è donata, spesa,
impiegata per qualcosa di grande, altrimenti è sprecata, fallita. Infine Gesù
ci scopre la sua anima: anch’egli, uomo come noi, vive la fatica di essere
fedele alla sua vocazione, di andare fino in fondo alla sua missione; anch’egli
vive la paura della morte; egli stesso è quel seme che cade in terra.
Giunto
dunque a Gerusalemme, Gesù si trova di fronte al momento cruciale della sua
vita: deve decidere se fermarsi o andare fino in fondo. Finché ha predicato in
Galilea ha avuto scontri e nemici, ma la Galilea era lontana da Gerusalemme,
dal centro. Non gli aveva mai creato grossi problemi. Gesù sapeva che la sua
vita non era in pericolo finché predicava e agiva in periferia; i suoi nemici non
avevano motivo di perseguitarlo finché il suo messaggio non pizzicava
direttamente gli interessi religiosi e politici. Ora però deve decidere se continuare
la sua missione anche nel tempio di Gerusalemme, nella città “santa”, centro
della religione, centro del potere. E sa che è una scelta senza ritorno: non
sarà più come prima, mai più.
La
vita ci pone ogni giorno davanti a delle scelte: a volte semplici, a volte più
complesse. Ma prima o poi,inevitabilmente, arriverà anche per noi il momento delle
scelte difficili, delle scelte senza ritorno: scelte che non ci offrono alternative, che vanno fatte ora o mai più. Sono momenti decisivi
in cui noi diamo un senso alla nostra vita, le diamo una forma: la nostra personale
forma.
C’è un
termine che appare ripetutamente nel testo, il cui significato è duplice: è “glorificare”,
“gloria” (doxa). Quando noi lo leggiamo,
pensiamo immediatamente alla fama, all’essere famosi, allo stare sulla cresta
dell’onda, conosciuti, stimati, adulati, venerati. Pensiamo alla fama e agli
onori tributati ai vip, ai divi della
tv o ai campioni dello sport e della musica.
Ma Giovanni,
nel suo vangelo, quando parla di “gloria” allude al fatto che Dio, nella nostra
vita, si rende manifesto, visibile, trasparente. In questo senso la “gloria di
Dio” è in Gesù: Dio, infatti, in nessun’altra persona si è reso visibile come
in Gesù. Con il suo vivere, il suo agire, il suo morire, Gesù ci ha fatto costantemente
vedere chi è Dio: Egli fa apparire Dio – la
gloria – sia quando guarisce, quando accoglie i peccatori, quando resuscita
Lazzaro, quando vive la trasfigurazione o quando dice le beatitudini; ma lo fa
soprattutto nella croce, perché è nella croce che il Figlio di Dio, non sottraendosi
alla morte e a quel tipo di morte, raggiunge il culmine della “gloria”, amandoci fino in fondo, assicurandoci
la sua continua presenza, vivendo fino in fondo la sua missione.
Guardando
la croce, allora, qualunque croce si stagli sul nostro cammino, non dobbiamo
più temere: dobbiamo solo pensare alla “gloria”
di Dio, a quanto Dio ci ha amati, a quanto suo Figlio ha dovuto soffrire per
noi. È morto per amarci, non saremo mai più soli.
Ma “gloria”
è anche quando percepiamo improvvisamente qualcosa di soprannaturale,
quando qualcosa di divino si mostra nella nostra vita; “gloria” è ogni qualvolta un uomo segue la Voce di Dio che gli
risuona dentro, e la segue dovunque lo chiami.
E qui Gesù
ci fa un esempio che, oltre a descrivere un fenomeno della natura, rivela il
vero motivo della sua missione terrena: morire per amore, donare la propria
vita perché noi potessimo vivere: «Se il
“bar” (chicco di grano), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece
muore, porta molto frutto…»; “bar”
in ebraico, oltre che “chicco di grano”,
significa anche “figlio”: e quindi Gesù sapeva perfettamente che era Lui, il
“Figlio”, a dover morire per portare
molto frutto. E Lui, giorno dopo giorno, accetta questa sua missione,
dolorosissima ma inevitabile. In qualche momento è assalito dall’angoscia, tentenna;
Egli odia la morte, ma non arriva mai
a pensare di potersi sottrarre: perché Egli sa di dover dimostrare al mondo la “gloria”
del Padre.
Voler
morire è da stupidi: può succedere a volte, quando qualcuno si accorge di non
vivere, o di vivere una vita insulsa, senza senso, buttata via. Morire, per mettere
semplicemente “fine” alla propria vita non potrà mai essere un valore positivo,
un traguardo, una meta. Il “morire” ha un senso solo quando implica un fine più
grande, più alto, più nobile; quello cioè di “portare frutto”. Gesù infatti non
voleva morire: Gesù voleva essere vita e salvezza per tutti; voleva riscattarci
per il Padre; trasformarsi in pane e vino, frutto di vita immortale. Questo, e
solo questo, l’ha portato a morire.
Ma
quelle parole ci suggeriscono anche un’altra considerazione: il seme in
questione è la “gloria di Dio” in noi; è un seme che è stato posto a dimora col
Battesimo: una grande responsabilità ci attende lungo tutta la vita: non possiamo
infatti vivere ignorando la presenza di quel seme, o peggio, comportandoci in
modo che esso rimanga inefficace, soffocandolo, uccidendolo: pensiamoci bene,
fratelli, perché in questo caso siamo noi a soffocare Dio, ad ucciderlo.
Quando
invece il seme di Dio deve essere la molla, la spinta vitale che determina la
nostra evoluzione sia spirituale che umana: dobbiamo metabolizzarlo quel seme,
dobbiamo farlo crescere, svilupparsi. Con un gioco di parole, derivanti tutte
dalle stessa radice ebraica “bar”,
possiamo affermare che questa è la “buona
notizia” (basorah) di oggi: che cioè
possiamo far crescere in noi il figlio
(bar) di Dio, sviluppando cioè il seme
(bar) divino che c’è in noi. In altre parole, attraverso la nostra persona,
la nostra “carne” (bar), dobbiamo “dare vita” (barà), alla “Parola” (dabar)
di Dio.
È
chiaro che per poter fare ciò, deve morire il nostro io, il nostro narcisismo, il nostro egoismo; perché solo
così, giorno dopo giorno, potrà nascere il nostro vero io, il Dio che ci abita,
e che vuole trasformarci in vita, fecondità e frutto. Sì, fratelli: perché Dio
si manifesti in noi, perché si renda evidente, dobbiamo avere il coraggio di
morire; dobbiamo cioè affrontare i problemi della vita senza scappare; dobbiamo
lasciarci trasformare dalla vita, dobbiamo cambiare. Per vivere davvero, in
profondità, dobbiamo saper morire (soffrire).
Questa
è la grande legge della vita. E l’ironia è che chi non vuole morire (trasformarsi, cambiare, crescere
attraverso la sofferenza) morirà veramente. Non possiamo infatti pensare di
vivere senza mai soffrire, di evitare il dolore, i problemi, le tensioni, le
difficoltà, i conflitti. “Morire” significa “cadere
a terra”, scontrarsi con la realtà, con la dura realtà della vita,
ritornare con i piedi per terra, smettendo di volare sulle nuvole; e “cadere a terra” vuol dire scontrarsi
con le persone che non sempre sono come noi vorremmo; rinunciare ad essere
onnipotenti, di sapere tutto, di non aver bisogno di nessuno; vuol dire essere
vulnerabili, sofferenti, piangere; vuol dire sbagliare, commettere errori e
avere l’umiltà di riconoscerli.
Tutto
questo ci fa male. È come morire. Distrugge l’immagine di “persone brave e
buone” di cui noi andiamo molto fieri. Ma niente di nuovo, di buono, di
fruttuoso può nascere da noi, se non cadiamo
a terra!
Molti
vivono soltanto per loro stessi, sono semi
che inaridiscono senza portare frutto. La loro vita non è di aiuto a
nessuno, non si può imparare nulla da loro, non hanno maturato nulla. Non c’è in
loro nessuna saggezza, nessuna profondità, non hanno mai osato, mai “ruminato” le cose. Passano, ma non
lasciano traccia; vite inutili, senza significato; non danno niente: lasciano
solo rabbia, negatività, insofferenza, acidità. Hanno ricevuto la vita, ma non
hanno saputo donarla. Non hanno saputo fare della loro vita, ricevuta in dono,
un ulteriore dono. Impiegano tutto il loro tempo per inezie, per stupidaggini
senza alcuna vera importanza; per abbellire la loro immagine, per accrescere il
loro prestigio. Sono esclusivamente concentrati su di loro stessi: si credono
bravi, impegnati, coraggiosi, ma in realtà sono narcisisti, codardi, pieni di
paura. Moriranno tristi perché potevano essere alberi, carichi di frutti e di
vita, ma il gelo del loro egoismo li hanno intorpiditi; hanno avuto paura di
esporsi al sole dell’amore; non sono maturati e hanno rinunciato alla loro
potenzialità. Sono dei falliti.
Il
vero servizio, la vera carità, è poter mettere in circolo quello che noi siamo
dentro, quel seme che deve fiorire e diventare frutto per gli altri. Ma,
fratelli miei, se non abbiamo niente dentro, se la nostra anima è un deserto, cosa
possiamo donare?
Noi
siamo vita, la nostra fecondità è dare vita, far nascere la Vita. Solo così ci sentiremo
compiuti, solo così sentiremo la forza della nostra vita defluire da noi, e la vedremo
ri-nascere, crescere e fiorire negli altri; solo così ci sentiremo generatori
di altra Vita; solo così ci sentiremo parte di quel donare infinito che chiamiamo
Dio.
È come
nell’Eucarestia: riceviamo la Vita e ci sentiamo parte della Vita. Gesù si è
donato a noi con il suo Corpo; e noi ci sentiamo profondamente grati per questo
inestimabile dono. E come Lui lo è stato per noi, così noi dobbiamo essere a
nostra volta alimento, cibo per qualcun altro. Dobbiamo continuare all’infinito
questa catena, questo movimento, trasformandoci in “seme di Dio” per qualcun
altro; dalla Vita ci viene questo dono, alla Vita dobbiamo offrirlo. È un dono
ricevuto, è un dono che va donato. È naturale, vitale, ovvio!
«E io, quando sarò innalzato da
terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di quale morte doveva
morire». Gesù
ci anticipa quello che gli dovrà accadere; è uno spaccato della sua angoscia. Giovanni
non racconta il Getsemani, non descrive, durante il racconto della passione, l’angoscia
di Gesù come fanno gli altri evangelisti. Lo fa qui. Qui c’è tutto il
turbamento di Gesù; e sempre qui, c’è anche un angelo che lo consola. In questi
pochi versetti, il vangelo ci propone quella che è stata in sintesi la missione
del Figlio di Dio, e che è anche la nostra storia personale: Gesù è pronto ad annunciare
agli uomini il messaggio di un Dio, Padre misericordioso; ma ora si trova ad un
bivio: o tradire la sua missione e salvare la vita, oppure fare dono della
propria vita, affrontando una morte orrenda, e proseguire fino in fondo sulla
strada della fiducia in Dio. Eh sì, quanto costa essere fedeli alla propria
vocazione e a Dio! Ci costa più di ogni altra cosa. Perché tutto sembra finire,
tutto sembra cadere, tutto sembra essere illusorio; ma sentiamo che con noi c’è
Dio. E allora, fratelli, lasciamoci andare, abbandoniamoci nelle sue mani; Dio certo
non ci toglierà la sofferenza, le prove, la morte; ma ci darà la forza di
superarle; quando tutto ci crollerà intorno e tutto sembrerà finito, proprio allora
sperimenteremo che tutto ricomincerà, che per nostro mezzo nuove Vite
nasceranno. Ebbene, questa fiducia è il Regno di Dio. Se vivremo con fiducia,
con forza, con passione, con intensità, lottando e spendendoci, sentendoci ogni
giorno sostenuti e supportati dalla forza misteriosa del Dio in noi, ebbene, nulla
e nessuno potrà mai annientare la Vita che è in noi. Noi non moriremo. Perché il
nostro piccolo seme d’amore, donandosi,
sboccerà nell’altro. E vivremo eternamente nell’Altro. Amen.
«Dio infatti ha tanto amato il
mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada
perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel
mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui»
(Gv 3,14-21).
Il
brano del vangelo di oggi appartiene al lungo discorso che Gesù fa con un uomo
di nome Nicodemo. Chi era costui? Forse non tutti lo sapranno: e quindi ne
approfitto volentieri per spendere due parole su questo importante personaggio che
ha fornito a Gesù l’occasione per impartirci una fondamentale lezione di
teologia.
Nicodemo
è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, ed è un maestro. È cioè un
profondo conoscitore della Bibbia, della religione, è un saggio del tempo, un
maestro della Legge. Nicodemo ha una grande conoscenza, ma gli manca qualcosa.
Per questo va da Gesù. Ha una profonda nostalgia dentro al cuore, percepisce
che c’è qualcosa di più grande, di oltre. È un uomo che non si accontenta, che
vuole capire, che vuole vivere di più. E Gesù gli fa una proposta immensa: gli
dice appunto che bisogna rinascere. Sostanzialmente gli dice: “Quello che tu
chiami vita, io la chiamo morte, un non-vivere. Lascia questo tuo modo di
vivere e ti farò vedere che cos’è davvero la vita vera, quella eterna, quella
che non passa, quella che riempie, quella che ti sazia, che ti fa felice. Se
saprai lasciare questa tua vita, il tuo modo di pensare e di rapportarti, io ti
mostrerò per davvero la Vita”. Ebbene, fratelli: se abbiamo un cuore, se siamo
vivi, sono certo che queste parole non possono non emozionarci, entusiasmarci;
sono parole che ci stuzzicano, ci richiamano, ci attirano. Se non ci richiamano,
allora siamo già morti.
Purtroppo
ci sono dei concetti che ancora ci fanno paura: lasciare tutto, fidarsi,
abbandonarsi, credere a ciò che si ha dentro, seguirlo, cambiare, lasciare il
certo per ciò che ancora non conosciamo, tutto questo ci fa veramente tanta
paura, è vero!
Ma
Gesù era così, duemila anni fa come oggi. Gesù era un uomo che faceva proposte sconvolgenti,
che andavano contro tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini. Gesù apre
orizzonti nuovi e impensati. Gesù è davvero affascinante, attraente, perché ci
presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, da “ci manca il fiato”, tanto
è intenso. Gesù è per le anime grandi. Gesù non si concilia con chi ama il
quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: basta guardare
la vita dei santi, degli apostoli, dei martiri. A Nicodemo dice: “Se tu vuoi
capire chi sono io, devi lasciare stare la tua Legge, le tue regole, le tue
norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far morire un mondo di illusioni, di
falsità, di apparenze, di vuoto, di false maniere, e riaprire gli occhi sulla
realtà”.
Noi
siamo venuti a questo mondo, ma non è questa la nostra vera vita. Nessuno di
noi ha scelto di esserci: ma ci siamo; siamo stati catapultati in questo mondo
senza alcun nostro merito. Ci siamo, ci piaccia o no. Il primo atto della vita
non dipende da noi: e neppure le condizioni materiali in cui essa avviene dipendono
da noi: fanno parte di un bagaglio iniziale che dobbiamo accettare. Non abbiamo
possibilità di scelta. È inutile piangersi addosso o lamentarsi. È così punto e
basta!
Ma poi
arriva il momento in cui tocca a noi decidere cosa farne del nostro bagaglio! Tocca
a noi dare un senso, uno scopo alla nostra vita. E questo è rinascere.
Rinascere
vuol dire prima di tutto scegliere di vivere. Non solo siamo al mondo, ma vogliamo
esserci a questo mondo. Rinascere vuol dire acconsentire, “dire di sì”, al
fatto che ci siamo: “Io esisto, e voglio esistere” (“ex-sistere” vuol dire
appunto “e-mergere”, venire fuori dal niente o dall’indefinito). Ri-nascere
vuol dire: “Ci sono e voglio esserci”; vuol dire “partorirsi”. La prima volta
l’ha fatto nostra madre; ma questa volta vogliamo farlo noi.
Vogliamo,
cioè, costruirci secondo ciò che siamo; sviluppare le nostre risorse;
potenziare la nostra energia; lasciare un segno in questo mondo; essere felici
e vivere in maniera appassionata. In una parola “vogliamo esserci”. Non come un
soprammobile, un corollario, un accessorio; ma da protagonista. Vogliamo dare
la “forma” a noi stesso. Con il materiale di cui disponiamo, costruiremo
qualcosa. Realisticamente, senza volere ciò che non siamo, senza sognare ciò che
non potremo mai essere. È con quello che siamo, con il materiale che abbiamo, che
costruiremo qualcosa di importante.
Molte
persone continuano a sognare cosa farebbero se fossero così o colà; invidiano
chi ha questo o quell’altro; si lamentano e piagnucolano della sfortuna della
loro vita. Così intanto non fanno niente.
Rinascere
vuol dire: “Scegliamo noi come vivere la nostra vita e non accettiamo che altri
la vivano per noi o ci impongano come viverla. Siamo solo noi che abbiamo la
responsabilità delle nostre scelte”; vuol dire “viviamo il nostro destino e la nostra
missione, perché ci siamo per questo”. Rinascere: “Faremo di questo pezzo di
creta un vaso meraviglioso. E lo faremo perché, con le nostre mani, potremo
essere così”
La
nascita, la vita, è la creta, adesso tocca a noi modellarla; ricavarne un’opera
d’arte o un ammasso informe.
Rinascere
vuol dire rendersi conto che l’essenza della vita non è fuori, ma dentro. Cioè che
la felicità, l’amore, la fiducia, le cose grandi della vita non sono una fortuna,
una casualità, ma qualcosa che noi abbiamo nelle nostre mani se viviamo in un
certo modo, se viviamo a contatto con noi stessi, con la Vita, e con la Forza
della Vita.
Rinascere
vuol dire, insomma, essere protagonisti della propria vita. Protagonista è
colui che agisce direttamente, in prima persona; è lui che sceglie e che si
prende la responsabilità delle proprie scelte. Diciamo che ci è stata
consegnata un’automobile: adesso tocca a noi prendere il volante e guidarla, per
andare dove vogliamo noi. Certo farsi portare in taxi è più comodo, ma è lui,
il tassista e non noi, che decide le strade o le scorciatoie da prendere! Riprendiamo
invece il volante, percorriamo la strada che più ci piace, e decidiamo noi il
percorso del nostro cammino.
Gesù
mette dunque Nicodemo di fronte alla necessità di “rinascere” per arrivare alla salvezza: una rinascita voluta da Dio. E per farsi comprendere, per rassicurarlo che questo percorso di “rinascita” avverrà in “tutta sicurezza”, porta l’esempio dell’esperienza della
salvezza degli israeliti nel deserto (Nm 21,1-9).
Durante l’esodo il popolo ebreo si ribellò a Mosè e a
Dio, e venne punito da Dio con la piaga dei serpenti velenosi. Accortisi del
loro peccato, gli ebrei chiesero perdono a Dio, che accettò il loro
ravvedimento e disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta;
chiunque, dopo esser stato morso lo guarderà, resterà in vita”… E così avvenne.
Il
simbolismo è di facile intuizione: il serpente segno di pericolo, di morte, di
disperazione, di rovina diventa segno di vita se innalzato sulla croce: perché la
croce, segno di paura, di morte, di terrore, di fallimento, di sofferenza, una
volta nobilitata da Cristo, è diventata segno di vita.
La
croce indicava tutto ciò che faceva paura, che era pericoloso, che era mortale.
La croce era la peggiore delle torture e delle morti. Ma ciò che prima faceva
paura e terrore, da quando Gesù ha vinto questa paura, ha affrontato la croce
ed è stato risorto dal Padre, non fa più paura. Gesù “doveva” finire in croce
non per “pagare per noi” ma per mostrarci, per farci vedere, che non dobbiamo
aver paura di Dio, che Lui non ci abbandona, non ci lascia, che con Dio non possiamo
assolutamente perderci. La croce insomma è il faro che illumina la notte del
nostro “rinascere”.
Dio,
infatti, non ha mandato suo Figlio per condannarci, giudicarci, per vedere
quanto siamo stati bravi: se abbiamo “la sufficienza” (come a scuola), entriamo
nella vita eterna, altrimenti rimaniamo fuori, nell’inferno eterno. No,
fratelli: Dio ha mandato suo Figlio, quello che aveva di più caro, perché ci
ama, perché vuole che tutti vivano per sempre e senza fine. Tutto quello che
Dio fa', lo fa per noi e perché viviamo per sempre. Dio e suo Figlio sono
venuti per darci la vita: la vita vera, profonda, intensa, in questa vita; e
quella eterna nell’altra. Dio vuole che noi viviamo con tutto l’amore che possiamo
e che viviamo di tutta la felicità che ci abita.
Quindi
non è Dio che ci condanna o che ci giudica, fratelli: siamo noi stessi. Ogni
volta che non crediamo, noi ci condanniamo da soli. E credere non vuol dire
andare o non andare in chiesa. Credere vuol dire accettare la luce e rifiutare
il buio e le tenebre.
Credere
è, per Giovanni, fare luce: “Fai luce sulla tua vita; smettila di vivere
nascondendoti i problemi; smettila di non vedere le tue risorse, le tue
ricchezze e le tue potenzialità; smettila di non vedere che a volte ferisci,
fai soffrire e fai tanto del male; smettila di vivere nell’ignoranza e nel chi
si crede, tutto sommato, un buon cristiano; smettila di addossare agli altri,
alla società, a questo mondo, la colpa della tua infelicità”. “Porta la Luce
dentro di te e troverai che Lui è dentro di Te, che l’Infinito abita nel tuo finito”.
Allora
fratelli, guardiamo in faccia ciò che temiamo, ciò che ci fa paura. Non abbiamo
timore di guardare la croce o il serpente. Guardiamo sempre in alto; distogliamo
lo sguardo da terra. Purtroppo noi abbiamo lo sguardo puntato continuamente sul
basso e non ci accordiamo della realtà meravigliosa che ci circonda. Abbiamo purtroppo
una visione bassa, superficiale, ristretta, limitata, terrena delle situazioni.
Siamo talmente presi dai nostri stupidi problemi, dai nostri fastidi personali,
che non sappiamo far altro che girare intorno a noi stessi.
Dobbiamo
invece guardare in alto, fratelli! Lasciamo da parte le nostre banalità (come
mi vesto, cosa mangio, che telefonino, che televisore, che computer, che auto mi
devo comprare…). Guardiamo in su, in alto: non angosciamoci per le
stupidaggini. Vale la pena rovinarci la vita per queste cose? Guardiamo in su:
guardiamo verso Dio e guardiamo alle vere tragedie della vita.
E
quando ci sentiamo angosciati, soli, depressi, disperati, guardiamo in alto e
ascoltiamo nel cuore le stupende parole di Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo
da dare il suo Figlio unigenito…”: “Dio ha tanto amato me in persona (Mario,
Giuseppe, Francesco…), da dare proprio per me il suo Figlio unigenito”. Proviamoci.
E sicuramente ci sentiremo più al sicuro, più protetti, più amati. Amen.
«Gesù salì a Gerusalemme. Trovò
nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i
cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del
tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne
rovesciò i banchi…»
(Gv 2,13-25).
Siamo
in prossimità della Pasqua, la festa ebraica per eccellenza. Tutti sono
invitati in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme. È quindi, soprattutto in
quei giorni, il luogo di maggior affluenza di popolo, tantissima gente si trova
a passare, e – come anche oggi accade davanti ai santuari – ciò comporta una concentrazione
di attività commerciali. Il pio ebreo sapeva bene che la legge in questi casi
gli prescriveva di non presentarsi davanti a Dio “con le mani vuote”. Doveva
cioè portargli, sacrificargli qualcosa: il sacrificio consisteva appunto
nell’offrire a Dio un “dono”, un oggetto, un animale, dei soldi, in segno di
amore e di gratitudine, riconoscendo che Lui è l’Assoluto, il Grande,
l’Onnipotente, che tutto viene da Lui.
La
gran confusione quindi di banchi, di venditori, di animali, di merce varia, che
vi regnava, oltre che legale, era anche naturale, ovvia. Come ovvia era anche la
presenza dei cambia valuta. Gli Ebrei che venivano da lontano, disponendo di monete
con le raffigurazioni pagane dell’imperatore o degli dei, dovevano necessariamente
cambiarle con le monete ebraiche, perché solo così era possibile versare al
Tempio la tassa in denaro.
Il
rischio però di tutto questo era che tutto si riducesse ad un gesto formale.
Un’azione che uno compiva meccanicamente, senza alcun coinvolgimento interno,
dell’anima.
Questo
episodio, raccontato da tutti gli evangelisti , è un episodio insolito e strano
nella vita di Gesù. Gesù è assalito dalla rabbia, dalla “passione di Dio”, e
inizia a menar colpi a destra e a sinistra. Se non fosse riportato nel vangelo,
non potremmo credere ad una cosa del genere. Una decisa e plateale opposizione
alle legge corrente: non dimentichiamo che tutto ciò contro cui Gesù si scaglia
era religioso, legale, ammesso per motivi rituali; gli animali e le offerte
erano i sacrifici per propiziarsi Dio.
Quindi
Gesù, agendo così, si scaglia contro la religione del tempo e del tempio, proprio
contro quel tipo di “legalità”. Gesù non accetta una religione formale,
esteriore, disumana, ingiusta. Sembra dire: “Qui Dio non c’è. Qui si parla di
Dio, su Dio, per Dio, ma non con Dio”. Non sopporta falsità.
Quando
noi pensiamo a Gesù ce lo immaginiamo buono, remissivo, pacifico, dolce e
tenero; ma, fratelli, Gesù non è solo così. Per esempio i vangeli ci dicono che
non è per nulla tenero con i sacerdoti, con gli scribi, con gli “addetti ai
lavori”, con i farisei, i puri, i “separati” (quelli cioè che si ritenevano
superiori agli altri). Gesù con loro è immediato, diretto; è furente perché
predicano bene ma razzolano male, opprimono e rapinano le vedove (Lc 20,47); conoscono benissimo la
Bibbia ma non la mettono in pratica (Mt
23,1-9); ai sadducei, ai nobili, ai ricchi del tempo, Gesù rinfaccia la loro
doppiezza, la loro ipocrisia. Ma neppure con la folla, con la gente comune sarà
tenero, quando si accorgerà che lo seguono solo per mangiare a sbafo (Gv 6,26).
Ma
allora Gesù fu un uomo tranquillo? Fu un uomo di pace? Certamente: ma non come lo
intendiamo noi.
Gesù
dice apertamente: “Non sono venuto a portare la pace sulla terra, ma la spada” (Mt 10,34). Gesù non è venuto a portare
la nostra “pace”: “Ma sì, lascia perdere!; che ti metti a discutere? è sempre
stato così; non puoi farci niente; tira a campare, non t’impicciare! Cge s’arrangino
da soli!”. Ma questa, fratelli, è la pace dei cimiteri, la pace del
compromesso, la pace dell’egoismo, della paura.
La
pace di Gesù è invece costruire il mondo così come Lui l’ha pensato: giusto,
bello, ospitale, caritatevole per tutti i suoi figli. La sua pace non è quella
di chi non vuole fastidi e rogne, di chi non si impiccia degli affari degli
altri, di chi non vede, non sente, non parla, non c’era; di chi del prossimo non
gli interessa proprio niente! È per questo preciso motivo che Gesù sa essere
anche aggressivo. Se non lo fosse stato, farisei e scribi avrebbero avuto la
meglio. Con il suo gesto invece Egli intende troncare un tipo di rapporto con
Dio che era fondato esclusivamente sul sangue e sulla macellazione degli
animali; non servono più vittime animali: il vero, autentico, unico agnello, destinato
ad essere immolato per la salvezza di tutti, è Lui; proprio Lui: per questo ha
assunto la natura umana. Con Gesù abbiamo la rottura definitiva e totale con il
vecchio sistema di fare culto a Dio e di fare religiosità. È Lui il nuovo
culto, il nuovo tempio. È Lui il luogo santo di Dio. Non serve più andare al
tempio, come una volta, per propiziarsi Dio; per ringraziare Dio, oggi si va da
Gesù. Dio lo si ama veramente non offrendogli degli animali, delle cose, dei
beni, delle offerte, ma offrendogli noi stessi, la nostra persona, la nostra
vita. Il vero culto non è più il tempio, ma è l’uomo nuovo.
Da qui,
anche il valore dei nostri luoghi di culto, delle nostre liturgie, viene
completamente stravolto. Andiamo pure in chiesa, fratelli; facciamo pure le nostre
offerte, offriamo pure i nostri digiuni, i nostri sacrifici; ma, come ho detto,
ricordiamoci che il vero culto a Dio passa soltanto attraverso il cambiamento
del nostro cuore e della nostra vita.
Non
abbiamo alternative con Gesù: o siamo “tempio di Dio” o “tempio di mercato”. Se
non ripuliremo la nostra anima, il nostro cuore, il nostro esistere, da tutti i
venditori e i cambiavalute di questo mondo corrotto, cui diamo ospitalità, saremo
inesorabilmente “rivoltati”, cancellati. Se non lo facciamo sarà il mondo ad impadronirsi
progressivamente della nostra fantasia, della nostra creatività, vitalità,
gioia, pienezza, spiritualità; tutto ciò che di meglio e santo abbiamo, sarà svilito,
svenduto per poche monete, calpestato senza riguardo.
È questo
il profondo messaggio della Parola di oggi, fratelli; è questa la grande scelta
che ci è chiesta: scegliere decisamente se essere “tempio di Dio” o “tempio di
mercato”.
Nel
tempio di Dio non possiamo “svendere” nulla, non esistono compromessi,
occasioni, affari; non ci sono idee, principi, valori, che la nostra coscienza può
barattare impunemente; non possiamo far finta di nulla e chiudere gli occhi.
Nel tempio di Dio non possiamo compromettere la nostra fede, diventando
possibilisti su tutto; non possiamo piegarci all’andazzo del mondo. Solo nel
tempio di Dio possiamo vivere la vita vera, quella giusta, quella che appaga,
nella giustizia e nella carità, ogni nostro desiderio.
Nel tempio
del mercato tutto invece “è possibile”, tutto si può accomodare; basta non voler
sentire, né vedere: ignorare sempre e tutto; l’importante è che ci sia sempre un
tornaconto: ci sono le lobbies da servire, da coltivare, ci sono i favori
clientelari, il servilismo, il doppio gioco. Siamo su un altro versante: nel “tempio
del mercato” l’anima non vive, ma entra in asfissia e muore.
Quante
persone, fratelli miei, sono all’esterno, di fronte al mondo, un tempio
meraviglioso, splendido, pieno di luce; mentre all’interno, nella loro anima, sono
soltanto mercato maleodorante, basso interesse, impostura. Gesù lo sa bene, ci
conosce tutti molto bene: «Ma lui, Gesù,
non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno
desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo»
(vv. 24-25). Come a dire: Vigilate, siate prudenti, perché è possibile che qualche
“tempio di mercato” si mascheri, si rivesta da “tempio di Dio”, portandovi all’inganno.
I
falsi dèi, gli idoli, tutte le menzogne, amano sempre indossare l’abito della
virtù: sanno mimetizzarsi alla perfezione: guardiamo perciò alla loro coerenza tra
il dire e il fare; diffidiamo di quelli che amano strombazzare ai quattro venti
le loro opere “buone”; di quelli che ti sussurrano: “lo faccio solo per te”; “sono
tuo amico”; “lo faccio solo per il tuo bene”.
Ogni “tempio
di mercato” ambisce mascherarsi da “tempio di Dio”. Non facciamoci ingannare!
E noi?
Se ci accorgessimo che la nostra vita, nonostante tutto, ha toccato il fondo, è
ormai già ridotta a “tempio di mercato”? Che dobbiamo fare? Dobbiamo disperarci
pensando di essere irrecuperabili e abbandonare tutto? Oppure dobbiamo rimboccarci
le maniche e buttare tutto all’aria come ha fatto Gesù? Ebbene sì, fratelli. Dobbiamo
proprio rovesciare fuori tutti i nostri banconi con quello che contengono. È duro
ammetterlo, ma è indispensabile.
Certo,
per fare questo, abbiamo bisogno di molta forza, di molta passione, di molta
decisione. Non possiamo abbandonarci alla deriva. Dobbiamo armarci di una buona
“ramazza” e fare letteralmente piazza pulita nel nostro cuore e nella nostra
mente: di tutti i venditori di false immagini, di false illusioni, di false
felicità; di tutti i cambiavalute, di tutta la gente del compromesso, di chi ci
assicura che “tutto è conciliabile”, che tutto è possibile, che “se è legale è anche
morale”, che “se lo si può fare, va bene”. Non confondiamo, fratelli, quello
che è “legale” con quello che è “giusto”. Se una cosa è legale, non sempre è
anche giusta. Quante cose oggi sono legali, ma non sono assolutamente “giuste”,
non sono condivisibili dalla nostra morale cristiana e cattolica. Ascoltiamo la
nostra coscienza. Tutti abbiamo una coscienza, no?: apprezziamo e valorizziamo i
suoi suggerimenti, non consideriamola fuori moda! Non riduciamoci a praticare
una religione puramente “esteriore”, ad uso esclusivamente dell’approvazione e
del plauso di chi ci guarda; non pensiamo di assolvere tutti i nostri doveri di
cristiani semplicemente firmando l’8 per mille destinato alla Chiesa cattolica,
o facendo un cospicuo versamento per il sostentamento del clero o per la
Caritas diocesana. In altre parole non viviamo il nostro cristianesimo accettando
acriticamente qualunque proposta “religiosa”, da chiunque ci venga fatta, solo
perché etichettata col nome “bontà”, “generosità”: Dio si aspetta ben altro da
noi! Per esempio di purificarci. Dove “purificare”,
significa rendere puro, riportare completamente a nuovo, eliminare qualunque imperfezione.
Beh, non è che sia proprio una passeggiata; ci vuole invece molto amore, molta passione,
molta forza, molta preghiera.
Ma noi
dobbiamo ripulirlo, questo nostro tempio, dobbiamo metterlo in ordine; dobbiamo
purificarlo, restaurarlo, nella verità e nell’amore. Questo è il compito
importante che ci aspetta, fratelli; non perdiamo tempo, diamoci da fare. Amen.
«E fu
trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole…» (Mc 9,2-10).
Oggi il
Vangelo cambia radicalmente la sua ambientazione. Domenica scorsa eravamo nel
deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nella possibilità di
fare scelte sbagliate, di imboccare vie apparentemente facili, ma ingannevoli.
Oggi siamo invece in una situazione diametralmente opposta: lo scenario è
dominato dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza; è come “toccare
il cielo, toccare Dio, con un dito”. Domenica scorsa la solitudine, oggi un
gruppo di persone (Pietro, Giacomo, Giovanni). Lì la voce e la visione del maligno,
qui la voce e la visione di Dio. Allora la sofferenza, oggi la gioia e la
festa. Lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto luminoso di Gesù. A un
Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino
che si trasfigura. Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una
quaresima che noi ancora interpretiamo come triste, funerea, votata ai
sacrifici e alla preghiera continua? Cosa vuol dire? La spiegazione sta nell’insegnamento
che oggi Gesù vuol darci: ci offre in pratica, già su questa terra, un piccolo
assaggio di quella che sarà la felicità futura, quella paradisiaca, fatta di
luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice che la quaresima non è
tristezza, ma gioia, entusiasmo, un cammino di “con-versione” fatto con il
sorriso e la fiducia. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita può
diventare radiosa attraverso l’amore; ci dice in pratica che, attraverso
l’amore, possiamo pregustare un piccolo anticipo del nostro Tabor eterno. Sì,
fratelli, perché è l’amore, solo l’amore, che dà felicità all’uomo: è l’amore
che gli offre la possibilità di toccare con mano, già da subito, l’immensità
dell’amore che Dio nutre per lui.
La “trasfigurazione”,
la nostra “trasfigurazione”, è proprio questo: vedere e sperimentare con gli
occhi del cuore, con l’amore, quelle cose meravigliose che nessun occhio umano vide
mai e mai potrà percepire.
Trasfigurarsi:
ecco a cosa ci porta l’amore. Perché solo gli innamorati autentici, quelli che veramente
sono persi d’amore, possono apprezzare le cose più belle: il sole specchiarsi
sul volto della persona amata, ammirare la luce negli occhi di un bimbo, cogliere
l'universo intero nella faccia rugosa di un vecchio, estasiarsi dei cieli
stellati, dei soli, delle galassie intere, riflessi negli occhi premurosi di chi
ci vuol bene. Penso che a tutti noi sarà capitato di commuoversi davanti ad un
volto segnato dal dolore di una perdita, davanti a scene di altruismo e di
amore eroico, oppure semplicemente davanti ad un tramonto e ad un’alba
silenziosi: di sentirsi così pieni di gioia, di sensazioni così profonde, di commozioni
così intense, da non aver potuto trattenere le lacrime. Ecco: anche tutto
questo è “trasfigurarsi”. Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di
debolezza, di mancanza di virilità. Ma oggi so che vuol dire essere vivi, vuol
dire percepire ciò che siamo dentro, condividere con gli altri ciò che essi vivono
dentro; vuol dire lasciarsi toccare il cuore, vuol dire lasciarsi colpire e farsi
coinvolgere da ciò che succede intorno a noi; vuol dire non essere gelidi come
il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo inanimato.
In una parola vuol dire lasciarsi “trasfigurare”.
Sì,
fratelli, sono proprio questi i momenti della nostra “trasfigurazione”; sono i
momenti in cui ci rendiamo conto che vale la pena di vivere anche per un solo istante;
sono i momenti in cui ci sentiamo “speciali” per essere nel mondo, per esistere,
per poter amare, credere, donare. Sono i momenti che ci danno l'energia, la
forza e il coraggio di andare sempre avanti e di affrontare serenamente le “discese”
dal monte, le croci, le crocifissioni di ogni giorno. Senza queste ricariche di
gioia, di felicità, di vita, di infinito, di “Dio”, tutto rimarrebbe drammatico,
angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché dobbiamo permettere alla felicità
di entrarci dentro; dobbiamo lasciare che la vita ci immerga, che viva in noi,
che sussulti, che si muova, che nasca continuamente. Se ciò non ci accade,
dobbiamo preoccuparci, fratelli: se non ci succede, dobbiamo chiederci seriamente
se il nostro cuore pulsi ancora o sia già immobile, morto.
Ripeto:
questa è la Trasfigurazione, fratelli. Questa deve essere la nostra
trasfigurazione. Possiamo averne continue esperienze: basta saperle “vedere”. Per
esempio quando nel buio, nello smarrimento di una situazione difficile, veniamo
investiti improvvisamente da un raggio di luce e, già persi, ritroviamo Dio,
facciamo esperienza di trasfigurazione; quando scopriamo che la nostra vita,
così piccola e insignificante rispetto al mondo e ai sei miliardi di uomini che
lo abitano, ha un senso e uno scopo ben preciso, noi facciamo esperienza di
trasfigurazione; quando percepiamo la bellezza di una persona, la sua forza, la
sua sensibilità, anche se al di fuori non trapela nulla, questa è
trasfigurazione. Trasfigurazione poi è vedere le persone nella loro essenza; è cioè
vedere il loro volto, il loro “essere”, il loro vivere, esattamente come è stato
pensato da Dio, ancora “immacolato”, prima di venire inesorabilmente deformato
dai giorni, dalle paure, dal dolore, dalle angosce del quotidiano. Così se
piangiamo di gioia, se tocchiamo il cielo dalla felicità, se ci sentiamo ricchi,
pieni, immensi, caldi come il sole, scintillanti come la neve, potenti come le
onde del mare, beh, fratelli, tutto questo è trasfigurazione. Il mondo, nella
sua infelicità, dirà che siamo matti: e forse un po’ matti lo siamo anche, ma di
certo siamo tanto, tanto felici.
“Tabor”,
il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico significa “ombelico”
e anche “principio di luce”. Bene: la trasfigurazione ci invita a tagliare tutti i
cordoni ombelicali, tutte le dipendenze ormai inutili, per poter rinascere,
crescere, rivivere ogni giorno: se non tagliamo questi cordoni ombelicali, se
non recidiamo energicamente certi legami, certe condizioni di vita, convinti di
poterle cambiare, modificare, trasformare, non arriveremo mai ad avere vita
piena, anzi la nostra esistenza è destinata a cadere inesorabilmente nel nulla,
nella morte. Insistere nel voler conservare in noi situazioni negative,
esperienze che ci hanno traumatizzato, che ci hanno procurato dolore e
disperazione, sperando in una loro catarsi, in una loro rigenerazione, trasformazione,
sublimazione, significa solo rimandare una fine già annunciata, una ricaduta
ancor più implacabile e devastante.
Per
poter crescere, per poter procedere spediti nel nostro cammino verso la Luce,
senza esitazioni, senza tentennamenti, senza rallentamenti o impedimenti,
dobbiamo pertanto essere decisi, dobbiamo recidere senza esitazioni questi “cordoni
paralizzanti”.
Uno
solo è il cordone ombelicale che non deve essere mai tagliato. È quello che ci
tiene legati a Dio. Il Tabor, l'ombelico del mondo, ci dice infatti: “Se sei legato,
attaccato a Dio (“religione” da “re-ligo”,
significa essere legati a doppio filo); se respiri con Dio e ti nutri di Lui, allora
sei al sicuro, sei nella Luce calda e sfolgorante. Questo legame deve durare in
eterno, perché vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo vuol
dire lontananza, condanna, perdizione. È l’unico canale attraverso cui Dio può colmare
il tuo cuore di amore. Per quanto in basso tu cada o vada, questo cordone ti
terrà sempre unito a Lui, e non correrai mai il pericolo di perderti nel vuoto”.
Allora
potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le inevitabili
“prove”; allora potremo affrontare i momenti più duri e difficili; allora
potremo affrontare qualunque difficoltà perché dentro di noi abbiamo energia,
forza, entusiasmo: abbiamo Dio nel cuore.
Giunti
sulla vetta del nostro Tabor, abituati alle ricorrenti esperienze di “trasfigurazione”,
chiediamoci umilmente: “È sempre bello per noi stare qui con il Signore?” “È ancora
bello stare con Lui nei momenti di preghiera e di meditazione, nella Messa, in
Chiesa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?”. Diamoci una
risposta sincera in questa quaresima, una risposta come quella di Pietro, piena
di entusiasmo e di felicità: «Signore, è proprio bello stare qui con te». È
vero, fratelli, è veramente bello stare con Gesù: e tutti, tutti noi che
abbiamo sperimentato il suo amore, tutti indistintamente, siamo chiamati a urlare
al mondo intero quanto sia bello stare con Dio.
Per
farlo però dobbiamo ritagliarci degli spazi di silenzio, dobbiamo dedicarGli
tempo, metterci in sintonia con Lui. E per farlo, come suggerisce il Padre,
dobbiamo “ascoltare”. Ascoltare il Figlio, ascoltare la Parola, ascoltare noi
stessi, ascoltare ciò che di bello, di Dio, hanno da dire ogni uomo, ogni
nostro fratello. La bellezza è esperienza che scaturisce dall'ascolto. Per
questo dobbiamo ascoltare: perché solo ascoltando riusciremo a recuperare nella
nostra vita cristiana il concetto della bellezza di Dio. Si, fratelli: perché è
da questo che dobbiamo ripartire: noi viviamo in orrende città, orrende sono le
nostre periferie, orribili le proposte martellanti e sguaiate della nostra
pubblicità, orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono dal mondo
della politica, dello spettacolo, dell’informazione. È proprio vero: abbiamo
urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità, vita, amore.
Quella
bellezza di Dio che rende bella la nostra anima: la nostra vera bellezza,
fratelli, non è quella esteriore, quella che rispetta tutti i canoni estetici! Tutti
i più bravi chirurghi estetici di questo mondo, non riusciranno mai a trasformarci
in “belle” persone! Perché senza la bellezza interiore, la bellezza della nostra
immagine di Dio, noi assomigliamo soltanto a fredde, dure e infelici bambole; non
certo a “belle” persone!
Riappropriamoci
allora, a tutti i costi, di quel senso di stupore e di bellezza che ci porta in
alto, lassù, sul monte Tabor, per poter ammirare con sguardo estatico il Cristo
trasfigurato. Rigenerati dalla Sua luce, trasformiamo le nostre chiese in altrettanti
Tabor, in altrettanti luoghi di “bellezza”: il silenzio, il canto, la fede, i
momenti di preghiera e di carità, devono riportare nelle nostre quotidianità un
briciolo della bellezza di Dio: una bellezza fatta di gratuità, di gentilezza,
di attenzione, di compassione, di amore, di verità e di tenerezza.
Allora
la nostra vita sarà bella, fratelli! Sarà veramente bella, perché avremo finalmente
imparato a viverla e a donarla. Amen.