«Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?»
Bella domanda. Come siamo messi in fatto di fede? Riusciamo a superare il significato di morte corporale, di dolore, di separazione, di privazione, nella prospettiva di un’altra vita, una vita di contemplazione beatifica di Dio, di unione eterna con Gesù? È questo il punto. Perché oggi, ultima tappa della nostra conversione quaresimale (tra 15 giorni saremo insieme al Cristo risorto, vincitore della morte), il vangelo ci parla proprio di morte, di vita, di amicizia, di commozione, di tristezza, di dolore, di “silenzio di Dio” di fronte alle nostre tragedie. Giovanni descrive, come al solito, con grande ricchezza di particolari, quanto è successo a Betania, ai suoi amici Marta, Maria, Lazzaro. Un testo chiaro, comprensibile, che offre via via anche la spiegazione di quello che Gesù fa e dice.
Accennavo più sopra alla “conversione”. Ed è proprio in questa chiave che dobbiamo fare una prima lettura del testo, perché non si può parlare di conversione, di una conversione duratura, se non si va alla radice, se non rivediamo il nostro modo di pensare, le nostre convinzioni, il nostro modo di porci di fronte alle realtà ultime dell’umana esistenza. Dobbiamo andare oltre alla paura che l’idea della morte corporale proietta nel nostro intimo: perché c’è un’altra morte, meno esteriore e appariscente, meno scenografica, ma altrettanto e forse più traumatica: una esperienza di morte che ci paralizza nell’anima, che la ingiallisce, che vanifica ogni nostro slancio di vita; una grande ubriacatura di “presente”, di mondo, di falsa libertà, di egoismo, di divertimento, che ci inocula “nausea” per il passato e fatua “esaltazione” per il futuro, portandoci ad un progressivo allontanamento da Dio; una grave disaffezione nei suoi confronti, una indifferenza che ci porta a disertare le chiese e a riempire piuttosto i centri commerciali, per saziarci esclusivamente di “avere”, di “ora e subito”, di immediato, di godibile, avendo ormai perso ogni percezione del nostro “essere” con Lui. Purtroppo, quando ce ne rendiamo conto, quando ci “convertiamo”, il nostro grido a Gesù ─ come nel vangelo ─ è quasi espressione di rabbia: “se tu fossi stato qui con me, non ci sarebbe stata morte!”. Un grido ad un Dio ritenuto assente, ad un Cristo considerato impotente ormai a soccorrerci. Capite a quali conseguenze ci porta la nostra cieca ingratitudine? Quanta prosopopea e quale ignoranza mettiamo nelle nostre recriminazioni!
Abbiamo calpestato i suoi consigli, abbiamo ignorato il suo amore, non abbiamo tenuto conto della sua Parola, che ci diceva: “Io sono la risurrezione e la vita”. Nel nostro delirio di perdizione e di disinteresse lamentiamo pretestuosamente un Dio lontano, un Dio assente, gettandogli quasi una sfida: condizionando il nostro ritorno a Lui, il nostro ripensamento, la nostra conversione, ad una sua “visibile” compartecipazione al nostro pianto: vogliamo vederlo piangere sul nostro pianto, vogliamo sentirlo dire: “togliete la pietra”, vogliamo sentirlo gridare: “vieni fuori!”.
È vero: Gesù davanti alla morte di Lazzaro si commuove, piange, si unisce al dolore e al lutto delle sorelle. Egli non può accettare tanto dolore e disperazione per la scomparsa dell'amico e compie il miracolo della risurrezione. Poteva dire a Marta ed a Maria: «Non piangete. Ritroverete vostro fratello nella vita eterna». Invece no. Lui che aveva il potere di farlo, lo risuscita. Certo, con lui al nostro fianco è tutto più facile. Veramente. Ma è “più facile” solo nella misura in cui noi rispondiamo alla sua domanda iniziale: “Credi questo?”. Quindi nessun diritto, come vorremmo noi; nessuna pretesa, nessun merito vantato; ma fede, tanta fede. Tutto il resto è fatua ebbrezza di personalismo.
La risurrezione di Lazzaro è un segnale forte per la nostra fede, per la nostra speranza. Anche noi risorgeremo, sicuramente. La vita che viviamo è un rapido passaggio, e la nostra stessa morte non è definitiva, in quanto destinati ad una vita che non tramonta, alla vita eterna. Nella Pasqua ormai imminente celebriamo infatti Gesù che risorge dalla morte e ci apre il passaggio a questa visione di eternità. Anche noi risorgeremo e saremo immortali, in seno al Padre, nel tripudio dell’amore.
Ecco perché non dobbiamo guardare alla morte, in tutta la sua tragicità, come all’unico motivo della nostra angoscia, del nostro pianto, delle nostre preoccupazioni, della nostra commozione. Gesù non si è commosso soltanto di fronte alla morte di un amico. Si è commosso anche per le folle che non avevano da mangiare: ed ha moltiplicato i pani ed i pesci. Si è commosso di fronte ai lebbrosi, ai paralitici, ai ciechi, ai sordi, agli zoppi, agli indemoniati: e li ha guariti. Si è commosso davanti alla donna adultera che stava per essere lapidata: e l'ha salvata. La morte fisica è pertanto soltanto il simbolo di numerose altre morti altrettanto dolorose che incombono anche oggi sull'uomo.
Di conseguenza, il nostro discorso cristiano di fronte a tante tragedie, non può limitarsi ad essere semplicemente consolatorio. Il Vangelo non ci dice: «Rassegnati, tanto non puoi farci nulla». Gesù si impegna a fondo per ogni sofferenza dell'uomo, né più né meno come per l'ultima e definitiva, la morte: Egli infatti comanda a Lazzaro di risorgere, per dimostrarci che, con l'aiuto di Dio, non esistono limiti al nostro impegno di solidarietà contro qualunque tipo di morte. C'è un dovere di compartecipazione: il dolore dei nostri fratelli non può lasciarci indifferenti. Dobbiamo avere «un cuore grande»: perché nulla di quanto succede nel mondo deve essere estraneo ai discepoli, a coloro che seguono le orme di Cristo. Soltanto se ci commuoviamo e facciamo quel che possiamo per gli affamati, i disoccupati, i malati, i sofferenti, i bambini abbandonati, le famiglie senza casa, solo allora potremo credere a buon diritto che anche noi risorgeremo dai morti. Altrimenti la nostra speranza è abusiva. È la fede che ci deve restituire in pieno all'uomo, ci deve porre sul sentiero delle sofferenze umane con maggiore solidarietà e speranza. Guai se la fede nella nostra risurrezione dai morti ci portasse ad avere minor compassione e solidarietà con i vivi. Non sarebbe più fede, non sarebbe la fede che aveva Gesù. Credere nella vita eterna, ci deve portare ad amare la vita, a lottare per la vita, affinché il diritto alla vita sia riconosciuto a tutti, ad ogni livello. Vivere, è un dono di Dio; e Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi. Cristo è la risurrezione e la vita. È la mia risurrezione, è la mia vita. È la forza della risurrezione per me e per tutti.
Questo vangelo, in definitiva, è un inno alla vita; ci dice che la vita è più forte di tutto. Perché la vita vuol vivere, vuole esprimersi, vuole espandersi, non si rassegna mai e non si dà mai per morta. Quando tutto sembra finito, la vita ci crede ancora; quando tutto sembra esaurito o morto, la vita è capace di nascere e di sbocciare nella maniera più incredibile o inaspettata. Gli alberi sono fatti per crescere per svilupparsi; le gemme sono fatte per germogliare e per fiorire; gli uomini sono fatti per crescere come persone, per esprimere tutto il loro potenziale interiore e l'amore che contengono. La vita vuole venire fuori, vuole uscire, vuole esplodere, “vuole vivere”. Quando ci sentiamo piegati dal peso del dolore, dell’affanno, delle colpe, dei giudizi taglienti delle persone; quando in certe giornate nere tutto ci sembra negativo, il malessere sembra dilagare, il tormento della malattia, della morte sembrano soffocarci, allora ascoltiamo quella voce, lontana ma autoritaria, che ci dice dentro di noi: “Vieni fuori, non lasciarti schiacciare”; “Vieni fuori, non permettere che ti impediscano di vivere”. “Vieni fuori dal sepolcro in cui ti hanno posto, vivi la vita”. Quando vediamo la primavera che ritorna dopo la morte dell'inverno, e la vita si riapre come per meraviglia e per incanto, e dove quello che era brullo torna a riempirsi di colori, noi ci rendiamo conto che la vita è più forte della morte. Quando percepiamo dentro di noi la vicinanza, la presenza protettiva e concreta delle persone care che sono già morte, noi comprendiamo che la vita è più forte. Quando vediamo le persone che cambiano, che diventano diverse, che evolvono, che diventano mature, che stanno in piedi sulle proprie gambe, che ritornano ad essere felici dopo esperienze tragiche, noi sentiamo che la vita è più forte. Si, fratelli, la vita è indistruttibile. Perché è l’amore che la dona, è l’amore che la alimenta.
Ma attenzione, dobbiamo stare molto attenti, perché se è vero che l’amore dà vita, è anche vero che c’è un “amore” che può dare morte, che può uccidere la “vita”. Dire sempre “Io lo faccio per amore”, talvolta può essere pericoloso: potrebbe non avere alcuna garanzia di amore. Perché? Perché per un presunto amore si può anche distruggere, picchiare, umiliare, prendere in giro, tormentare una persona; perché c'è un amore che fa vivere e uno che uccide, c'è un amore che rende liberi e autonomi e un amore che incatena.
Quando amiamo troppo egoisticamente, in maniera esagerata, senza compostezza mentale, il più delle volte non amiamo affatto: perché inconsciamente siamo dominati dalla paura di rimanere soli, di non essere a nostra volta degni di amore, di non valere niente, di essere ignorati. Le nostre paure, in nome dell’amore, ci portano ad attaccarci morbosamente all'altro, ci convincono che senza di lui non potremmo vivere; e non ci accorgiamo che intanto l’altro soffoca. Quando per esempio il marito sorveglia strettamente la moglie ed è geloso all'inverosimile, non la fa vivere, ma morire. Quando il papà pretende in nome dell’amore di sostituirsi al figlio in tutto e per tutto, non fa sicuramente bene al figlio, perché lo rende insicuro. Quando una mamma dice: “Lo faccio io, ti preparo io, vengo io, ci sono io, ci penso io”, dimostra di non amare il figlio, perché lo rende un incapace, un disadattato. La mamma che vuole sapere per filo e per segno ogni passo della figlia, legge di nascosto il suo diario, fruga nei suoi cassetti, non la fa assolutamente vivere; la fa morire, perché le toglie la sua dignità di persona. Chi interviene continuamente dicendo cosa fare o non fare, cosa è bene o non bene, come va fatto o non fatto, non agisce per amore, ma uccide nell’altro qualunque possibilità di espressione personale. L’amore non consiste nel voler fare tutto, nel dare tutto, nell’imporre continuamente la nostra presenza: l’amore è amare, senza esibizionismi, in silenzio, sempre pronti a intervenire, senza imporre la nostra personalità, senza prevaricare sull’altro. Sempre solleciti, ma nella discrezione. Perché se il nostro amore lega, costringe, ingabbia, si sostituisce, imprigiona gli altri, non è amore vero, ma è un amore che uccide.
E concludo: a tutti i “Lazzari”, a tutte le vittime dell’ignoranza, della violenza, dell’odio, del peccato, dell’egoismo, delle proprie debolezze, delle proprie paure irrazionali, Gesù dice: “Uscite fuori”. Cioè: “Non siate rinunciatari passivi, non permettete a nessuno di ridurvi come morti, di costringervi in situazioni da sepolcro, in cui la vostra anima e la vostra vita possono soltanto marcire”. “Non vi accartocciate nelle vostre insicurezze, nei vostri fallimenti umani”.”Venite fuori”. “Dovete trovare il coraggio e la forza di sottrarvi a questo lento morire quotidiano, a questa rinuncia graduale ma inarrestabile che porta alla morte”. “Venite fuori... venite fuori... venite fuori...”.
Di fronte a tanto amore, a tanta sollecitudine, dobbiamo avere il coraggio di non nascondere le cose: se abbiamo sbagliato, riconosciamolo francamente, cambiamo rotta, modifichiamo i nostri atteggiamenti; se c'è qualcosa da portare a galla, facciamolo, con fiducia, senza paura, senza sentirci delle schifezze o essere distrutti dalla vergogna. Amare non è non sbagliare mai, essere sempre al top, irreprensibili, senza ombre di morte nei nostri cuori; amare è accorgersi e riconoscere che certi nostri stili di vita non portano vita, ma fanno morire la vita.
Lasciamo allora che questa nostra riflessione diventi preghiera:
«Gesù, noi sappiamo che sei il nostro Salvatore. Come già Lazzaro, vorremmo tanto anche noi sentire il tuo grido che ci invita a uscire dalle nostre tombe. Fa risorgere la nostra speranza che muore tutte le volte che non riusciamo ad affrontare il dolore e il sacrificio; fa risorgere la nostra fede, sempre troppo debole per capire la tua grandezza e il tuo amore. Fa che avvertiamo nitida la tua presenza quando siamo tentati di accusarti di essere assente e di lasciarci soli. Fa che udiamo distintamente le tue parole di risurrezione: “Vieni fuori dalla tua tomba, dalle tue tenebre, dalle tue insicurezze; vieni fuori dai tuoi pregiudizi, dai tuoi schemi mentali distorti, dai tuoi egoismi; vieni fuori dal peccato, vieni fuori da tutto ciò che di freddo e di buio abita in te, perché io sono la tua Luce, la tua Risurrezione, la tua via, la tua verità, la tua Vita”». Parole meravigliose, fratelli, che ci devono ridare nuovo slancio, nuovo vigore; parole che ci devono far rinascere a nuova speranza, a nuova vita: ascoltiamole queste parole, usciamo dalle nostre tombe, abbandoniamo le tenebre della morte e del peccato e torniamo a vivere nella luce di Cristo, nostra Pasqua”. Amen.