Ci siamo addentrati nella quaresima. La Parola di Dio continua a farci uscire dalla prigionia dell'amore per noi stessi per condurci più in alto, molto più in alto delle nostre banalità. La liturgia di questa seconda domenica è come dominata da due montagne che si stagliano alte, affascinati e terribili, di fronte alla banalità del nostro quotidiano: il monte Moria - che la tradizione posteriore identificherà simbolicamente con il colle del Tempio di Gerusalemme - e il monte Tabor; il monte della prova di Abramo e il monte della trasfigurazione di Gesù. Il libro della Genesi ci presenta quel terribile e silenzioso viaggio di tre giorni, affrontato con fede dal patriarca Abramo verso la vetta della prova: è il paradigma di ogni itinerario di fede, e dello stesso cammino quaresimale. E' un percorso difficile e combattuto, accompagnato solo da quel comando implacabile: "Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami e offrilo in olocausto!" Poi il silenzio. Silenzio di Dio, silenzio di Abramo, silenzio del giovane e ignaro Isacco che una sola volta, con ingenuità straziante, "si rivolse al padre e disse: Padre mio! - Eccomi, figlio mio. - Dov'è l'agnello per l'olocausto? - Dio stesso provvederà, figlio mio!" E' la fede al livello più alto o, se si vuole, a quello semplice e puro del bambino che si fida totalmente del padre senza alcun tentennamento ("se non ritornerete come bambini...", dirà Gesù). Abramo deve rinunciare alla sua paternità per appoggiarsi unicamente alla parola di Dio. E' la fede allo stato puro, si potrebbe dire. Non è il figlio Isacco ad assicurargli la posterità, ma solo la Parola del Signore. Sì, solo la Parola del Signore è la roccia su cui fondarsi, il bastone su cui appoggiarsi, il fondamento su cui costruire. Dio lo mette alla prova facendogli balenare la possibilità della distruzione della sua paternità. E così, dopo la prova, Abramo riceve Isacco non più come figlio della sua carne, ma come il figlio della promessa divina, il figlio della Parola. Egli, che pure aveva rinunciato alla vita di Isacco, lo ritrova colmo di gioia, così come quel padre misericordioso della parabola evangelica fu pieno di gioia nel ritrovare il figlio prodigo "che era morto ed era tornato in vita". Abramo che accoglie Isacco, ci offre un esempio altissimo di fede che lo farà venerare dalle generazioni future di ebrei, cristiani e musulmani, come "Padre di tutti i credenti". Su quella vetta, il credente si scopre figlio dell'amore assoluto, e per questo esigente, di Dio. La fede di Abramo ci accompagni nel nostro pellegrinare di ogni giorno!
La montagna della trasfigurazione, che la tradizione successiva identificherà con il Tabor, si pone come termine di questo viaggio, il viaggio di ogni settimana e dell'intera vita. Il Signore ci prende e ci conduce con sé sul monte, così come fece con i tre più amici perché vivessero con lui l'esperienza della comunione intima con il Padre; un'esperienza così profonda da trasfigurare il volto, il corpo e persino i vestiti; tutto, dentro e fuori. C'è chi suggerisce che il nucleo storico del racconto si basa su un'esperienza che ha colpito anzitutto Gesù: una visione celeste che ha prodotto una trasfigurazione in lui. E' un'ipotesi verosimile e comunque suggestiva perché ci permette di cogliere più al fondo la vita spirituale di Gesù. Talora si dimentica che anche Gesù ha avuto un suo itinerario spirituale, come il Vangelo suggerisce: Gesù "cresceva in sapienza, età e grazia". Senza dubbio non mancarono in lui le gioie per i frutti del suo ministero pastorale, come pure non furono assenti le ansie e le angosce (il Getsemani e la croce ne sono i momenti più drammatici). La salita sul monte ci fu anche per Gesù, come già per Abramo eppoi per Mosé, per Elia e per ogni credente. Gesù sentì il bisogno di salire sul monte; era il bisogno di incontrarsi con il Padre. E' vero che la comunione con il Padre era tutta la sua vita, il pane delle sue giornate, la sostanza della sua missione, il cuore di tutto ciò che era e che faceva; ma Gesù aveva bisogno di momenti in cui questo rapporto intimo emergesse nella sua pienezza. E' un esempio che interroga profondamente i credenti di oggi. Se ne ha avuto bisogno Gesù, quanto più noi! Il Tabor fu uno di questi momenti singolarissimi di comunione, che il Vangelo estende a tutta la vicenda storica del popolo d'Israele, come testimonia la presenza di Mosé ed Elia che "discorrevano con lui". Gesù, però, non visse da solo questa esperienza; volle coinvolgere anche i suoi tre amici più intimi. Fu un momento tra i più significativi per la vita personale di Gesù, e lo divenne anche per i tre discepoli e per tutti coloro che si lasciano coinvolgere in questa stessa salita.
Nella tradizione della Chiesa molte sono state le interpretazioni di questo brano evangelico. Tra le più costanti c'è quella che scorge nella vita monastica il riflesso della Trasfigurazione, a motivo della radicalità della scelta che comporta. E senza dubbio è necessario che nella vita della Chiesa di oggi si sottolinei con maggior coraggio la radicalità di questa scelta che mostra il primato assoluto di Dio sulla nostra vita. Penso però che si possa vedere nel monte della Trasfigurazione anche la Liturgia domenicale alla quale tutti siamo chiamati a partecipare per vivere, uniti a Gesù, il momento più alto della comunione con Dio. Ed è proprio durante la Santa Liturgia che potremmo anche noi ripetere le stesse parole di Pietro: "Maestro, è bello per noi stare qui, facciamo tre tende...". Da questo santo monte ch'è la Liturgia domenicale, nella quale ci troviamo in compagnia dei patriarchi e dei santi del Primo e del Nuovo Testamento, anche noi sentiamo risuonare la stessa voce di allora: "Questi è il figlio mio prediletto, ascoltatelo!" Immediatamente i tre discepoli si ritrovarono con "Gesù solo". Si guardano attorno stupiti, forse con un senso di smarrimento per essere tornati alla "normalità", e non videro nessun altro se non il solo Gesù. Iniziano di qui i giorni feriali che seguono la domenica; o, se si vuole, la discesa dal monte. I discepoli non erano più come prima. Tornarono nella vita quotidiana non più ricchi di se stessi, delle proprie idee, dei propri progetti, dei propri sogni o di altro ancora. Essi avevano davanti agli occhi la visione di Gesù trasfigurato, e questo gli bastava. Sì, alla comunità cristiana, ad ogni credente, non è dato altro che Gesù; solo Lui è il tesoro, la ricchezza, la ragione della vita personale e della vita della Chiesa. Quella tenda che Pietro voleva costruire con le sue mani, in realtà l'aveva costruita Dio stesso quando "il Verbo si fece carne e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi" (Gv 1,14). E con l'apostolo Paolo siamo lieti di poter ripetere che nessuno, né il dolore né la fatica né la morte ci separeranno da Cristo e dal suo amore.
venerdì 6 marzo 2009
venerdì 27 febbraio 2009
1° Marzo 2009 - I Domenica di Quaresima
La scena che precede il Vangelo di oggi ci ha mostrato Gesù mescolato alla folla che va da Giovanni il Battista, per farsi battezzare. Lui, senza peccato, assieme a coloro che si dichiarano peccatori e compiono un gesto di penitenza e di conversione. Lui, in cui risplende ogni bontà, accanto a coloro che hanno oscurato le tracce della bellezza di Dio, impresse nella loro vita.
La manifestazione che accade al Giordano lo rivela come il Figlio, la discesa dello Spirito lo conferma nella missione che sta per affrontare.
Non ci sono sconti, però, né esenzioni, né privilegi: è chiamato ad essere uomo fino in fondo. Così anche lui conoscerà la tentazione, il tempo della prova, il dubbio, il rischio di allontanarsi dal progetto di Dio.
Marco non presenta le tentazioni in dettaglio. Perché? Perché rifugge dal fornirci particolari, così come fanno Matteo e Luca? Forse perché, proprio a partire da quel momento in cui dà inizio alla sua missione pubblica, la vita di Gesù sarà tutta una tentazione.
Sarà tentato dal potere, mentre è venuto come Messia umile e buono, che è venuto per servire e non per farsi servire.
Sarà tentato dalla popolarità che lo investe subito, appena compie i primi miracoli. Ma questi sono solo dei «segni»: l'importante è altrove, è quella Parola che sola può convertire e cambiare i cuori.
Sarà tentato dalla fuga di fronte al cumulo di sofferenza, di violenza, di abbandono e di fallimento, che sta per rovesciarsi su di lui. E invece gli viene chiesto di essere il Figlio che si mette completamente nelle mani del Padre e rinuncia a misurare la sua esistenza col criterio del successo, della riuscita, del consenso.
Il Messia povero, disarmato e disarmante, che osa pronunciare una parola misericordiosa, colma della tenerezza di Dio, ma anche scomoda, tagliente, senza compromessi, non avrà la vita facile. E la tentazione costante sarà quella di ammorbidire, smussare gli angoli, rendere più accettabile quel vangelo che è annuncio di gioia, annuncio di cambiamento, ma anche denuncia di tutto ciò che rovina la vita degli uomini.
Anche noi, come lui, conosciamo le tentazioni. Dopo duemila anni esse sono, stranamente, sempre le stesse. E di fatto intaccano, tutte, la nostra fiducia in Dio, ci gettano nel sospetto di trovare in lui non un Padre, che ci ama e vuole il nostro bene, ma un concorrente geloso delle nostre capacità, un padrone esoso che richiede obbedienza cieca.
Occorre guardare a Cristo, seguire il suo esempio, accoglierlo perché vinca in noi il maligno e le sue tentazioni e ci aiuti a realizzare il progetto e la volontà di Dio su di noi.
È così che accogliamo e viviamo il comando di Gesù: "Convertitevi e credete al vangelo".
Nei giorni che verranno accostiamoci a Gesù, e con lui viviamo e lottiamo nel deserto di questo mondo. I quaranta giorni della quaresima descrivono, in verità, il paradigma di tutta la vita di Gesù e quindi della vita di ogni credente. Non c'è bisogno di luoghi più o meno solitari per trovare il "deserto" ove ritirarsi. Le nostre città, ove è rara la vita solidale e frequente la solitudine, sono il vero deserto di oggi. Un deserto che è penetrato anche nei cuori sino a renderli freddi e duri. Si potrebbe parlare di un vero e proprio processo di desertificazione dei cuori che porta all'inaridimento e alla violenza. Come non accorgersi nella nostra vita quotidiana di essere sempre più spesso in compagnia di belve e dei demoni della divisione e dell'odio?
La manifestazione che accade al Giordano lo rivela come il Figlio, la discesa dello Spirito lo conferma nella missione che sta per affrontare.
Non ci sono sconti, però, né esenzioni, né privilegi: è chiamato ad essere uomo fino in fondo. Così anche lui conoscerà la tentazione, il tempo della prova, il dubbio, il rischio di allontanarsi dal progetto di Dio.
Marco non presenta le tentazioni in dettaglio. Perché? Perché rifugge dal fornirci particolari, così come fanno Matteo e Luca? Forse perché, proprio a partire da quel momento in cui dà inizio alla sua missione pubblica, la vita di Gesù sarà tutta una tentazione.
Sarà tentato dal potere, mentre è venuto come Messia umile e buono, che è venuto per servire e non per farsi servire.
Sarà tentato dalla popolarità che lo investe subito, appena compie i primi miracoli. Ma questi sono solo dei «segni»: l'importante è altrove, è quella Parola che sola può convertire e cambiare i cuori.
Sarà tentato dalla fuga di fronte al cumulo di sofferenza, di violenza, di abbandono e di fallimento, che sta per rovesciarsi su di lui. E invece gli viene chiesto di essere il Figlio che si mette completamente nelle mani del Padre e rinuncia a misurare la sua esistenza col criterio del successo, della riuscita, del consenso.
Il Messia povero, disarmato e disarmante, che osa pronunciare una parola misericordiosa, colma della tenerezza di Dio, ma anche scomoda, tagliente, senza compromessi, non avrà la vita facile. E la tentazione costante sarà quella di ammorbidire, smussare gli angoli, rendere più accettabile quel vangelo che è annuncio di gioia, annuncio di cambiamento, ma anche denuncia di tutto ciò che rovina la vita degli uomini.
Anche noi, come lui, conosciamo le tentazioni. Dopo duemila anni esse sono, stranamente, sempre le stesse. E di fatto intaccano, tutte, la nostra fiducia in Dio, ci gettano nel sospetto di trovare in lui non un Padre, che ci ama e vuole il nostro bene, ma un concorrente geloso delle nostre capacità, un padrone esoso che richiede obbedienza cieca.
Occorre guardare a Cristo, seguire il suo esempio, accoglierlo perché vinca in noi il maligno e le sue tentazioni e ci aiuti a realizzare il progetto e la volontà di Dio su di noi.
È così che accogliamo e viviamo il comando di Gesù: "Convertitevi e credete al vangelo".
Nei giorni che verranno accostiamoci a Gesù, e con lui viviamo e lottiamo nel deserto di questo mondo. I quaranta giorni della quaresima descrivono, in verità, il paradigma di tutta la vita di Gesù e quindi della vita di ogni credente. Non c'è bisogno di luoghi più o meno solitari per trovare il "deserto" ove ritirarsi. Le nostre città, ove è rara la vita solidale e frequente la solitudine, sono il vero deserto di oggi. Un deserto che è penetrato anche nei cuori sino a renderli freddi e duri. Si potrebbe parlare di un vero e proprio processo di desertificazione dei cuori che porta all'inaridimento e alla violenza. Come non accorgersi nella nostra vita quotidiana di essere sempre più spesso in compagnia di belve e dei demoni della divisione e dell'odio?
venerdì 20 febbraio 2009
22 Febbraio 2009 - VII Domenica del Tempo Ordinario
C'è tanta folla accanto a Gesù, non c'è più posto da nessuna parte. E Gesù annuncia la Parola di Dio. Gli portano un uomo paralizzato. Non riuscendo ad entrare lo calano dalla terrazza, dal tetto. Ci vuole della fede per cercare tutti i modi, per affrontare tante difficoltà, purché il malato possa arrivare davanti a Gesù. E' un gesto di grande fede ed è un gesto di carità vera. E Gesù, dice il testo, "vista la loro fede" si prepara dare a quel malato la sua salvezza, a compiere per lui i miracoli della sua potenza.Ma Gesù ricorda qual è il vero e primo bene.Quando si trova davanti quel paralitico esclama: "Uomo ti sono rimessi (cioè perdonati) i tuoi peccati". Il Signore ci esaudisce sempre a di là delle nostre richieste e delle nostre attese. Noi sperimentiamo alcune nostre necessità, Lui conosce i veri bisogni profondi della nostra vita. Ma essi volevano la guarigione fisica e forse si trova spiazzati o delusi.E soprattutto c'è la reazione degli scribi. "Perché costui parla così? Bestemmia. Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?"La guarigione del paralitico è presente nei tre vangeli sinottici; Marco la racconta in modo particolarmente vivace e drammatico. Nel piano del suo vangelo questo fatto rappresenta un momento culminante della rivelazione di Gesù come Messia e Salvatore, e l'inizio delle controversie che culmineranno nella condanna di Gesù come bestemmiatore della Legge e della religione del suo popolo.Solo Dio può perdonare i peccati. Ma Gesù è Dio che si è fatto uomo e salvatore. E' venuto a caricarsi di nostri peccati, a toglierli. E' l'Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. E proprio per dimostrare che è Dio compie il miracolo. "Ora perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati, ti ordino - disse al paralitico - alzati, prendi il tuo lettucci e và a casa tua". E così avvenne.Meraviglia, scandalo, ammirazione sono le reazioni dei presenti. Gesù compie un segno di potenza, un miracolo, uno dei numerosi miracoli che accompagnano l'inizio della sua missione e fanno scoprire con gioia e con speranza che Dio è vicino. Tutti si meravigliavano e lodavano Dio dicendo: "Non abbiamo mai visto niente di simile!"Per Gesù la guarigione dalla malattia è segno della guarigione del cuore. Egli compie le profezie che annunciano la restaurazione del suo popolo, il ritorno alla vita, qualcosa di radicalmente diverso. Così diceva il testo di Isaia nella prima lettura: "Ecco, faccio una cosa nuova∑ Io, cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati". Dio esprime la sua potenza nella misericordia, nel perdono.Prima la pace con Dio: i peccati sono distrutti, cancellati, non più ricordati. Poi la riconciliazione con se stessi e con gli altri e con le cose.E' la salvezza offerta da Dio mediante il suo Cristo, ma a cui deve corrispondere la fede. La fede porta ad affidarci a Dio perché colmi la nostra debolezza con il suo amore. "Dove è abbondato il peccato, è sovrabbondata la grazia". Dobbiamo imparare ad affidarci così a Dio e Lui ci guarisce come noi abbiamo bisogno di essere guariti.Il miracolo rivela la potenza e la missione di Gesù. "Il Figlio dell'uomo ha sulla terra il potere di rimettere i peccati". Questo perdono è affidato ancora oggi nelle mani di uomini: la Chiesa, corpo vivo di Cristo, lo esercita con il ministero dei sacerdoti; lo esercita nei "segni" sacramentali (battesimo, riconciliazione, eucaristia, unzione dei malati∑), in cui solo il credente sa riconoscere la forza di salvezza, pur nella semplicità e fragilità delle persone e dei mezzi.Ogni volta che accogliamo la grazia della riconciliazione, anche noi possiamo sperimentare la bellezza unica e la profondità delle parole di Gesù, rivolte a ciascuno di noi: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati": sono perdonati, non ci sono più; c'è solo l'amore di Dio e anche tu diventa amore. E' una cosa secondo verità coltivare il senso giusto del peccato, riconoscerci deboli, fragili, peccatori; che facciamo come dice S. Paolo "vedo il bene che voglio e faccio il male che non voglio". Se mi presento a Dio come sono, cioè malato, Lui potrà guarirmi. Ma se presumo di non aver bisogno di nulla, Lui non vedrà la mia fede, lui non potrà operare i suoi prodigi. Ma se sono sincero non farò fatica a scoprire tutte le mie mancanze nella fede, nell'amore al Signore, nell'amore al prossimo, nella mia pigrizia e nel mio egoismo, nell'attaccamento alle cose e agli interessi materiali, nella mentalità e nel comportamento mondano che mi prende da ogni parte. Davvero ho bisogno, tanto bisogno del perdono e della grazi di Dio: "Ti sono rimessi i tuoi peccati".Riconosciamo con gioia nell'Eucarestia di oggi l'amore misericordioso che ci è venuto incontro come forza creatrice di novità, che libera dalla paralisi del cuore e dello spirito."Alzati" dice Gesù al paralitico che "giaceva"; ed egli "si alzò":Il perdono e la guarigione sono un segno del mistero di morte e resurrezione che attraversa tutta la vita di Cristo e dei suoi fedeli: Egli che ha voluto giacere come noi nella morte, si è rialzato nella resurrezione perché anche noi ci rialzassimo e vivessimo da risorti.Peccatori perdonati, che non ricordano nevroticamente le loro colpe passate, ma gioiosamente "ricordano" la salvezza ricevuta, possiamo pregare il Padre animati dallo Spirito nuovo che Cristo ci ha donato. Uniti a Cristo "attraverso di Lui sale a Dio il nostro "Amen" (il nostro sì) per la sua gloria". Sale a Dio la nostra vita rinnovata, il nostro cammino spedito, come il cammino meraviglioso di colui che era stato paralitico.
giovedì 12 febbraio 2009
15 Febbraio 2009 - VI Domenica del Tempo Ordinario
Cos’è il dolore
Gesù esce dalla sinagoga e inizia a guarire la suocera di Pietro; poi evangelizza, scaccia i demoni e conclude la sua giornata pregando.
Noi, molto spesso, usciamo dalla chiesa e chiudiamo ben bene il cassetto del nostro ego religioso: se ne riparlerà tra una settimana; Dio ha avuto già abbastanza la sua razione di devozione.
Gesù trova nella preghiera la forza per cambiare, per lasciarsi consumare dagli altri, per rendere presente con la sua vita, il Regno di Dio, per raccontare non la "buona novella", ma diventando lui stesso buona novella, la buona notizia di un Dio che si è avvicinato a noi.
In questo percorso, in maniera brutale, inquietante, scomoda, Gesù fa esperienza del male nella sua forma più misteriosa: la malattia e il dolore che la accompagna.
Il dolore dell'innocente, non quello provocato dalla malvagità degli uomini (le guerre sono opera nostra: Dio non c'entra!), ma quello che tragicamente colpisce la vita di certe persone, è l'obiezione più radicale all'esistenza di Dio, e all'esistenza di un Dio buono, come Gesù pretende di annunciare.
Nella vita di ognuno di noi il dolore è presente: ognuno di noi ne deve fare in conti quasi quotidianamente.
La morte improvvisa di una sposa, la malattia di un bambino, il lutto che decima una famiglia, sono esperienze che, quando bussano alla porta, sminuzzano la fede con una lametta, facendola sanguinare e, spesso, spegnendola.
Le parole diventano vuote, il volto di Dio offuscato, le gestualità prive di significato e di forza consolatrice.
Quando si è giovani si pensa ingenuamente di essere dei privilegiati, ci si illude pensando che la sofferenza a noi sarà risparmiata o, almeno, ci arriverà ma in maniera molto attenuata.
Ma se Dio stesso è stato provato dal dolore, perché mai la mia vita dovrebbe esserne esente?
I ragionamenti che maldestramente tentiamo di opporre al non-senso del dolore rischiano di essere esercizi vuoti di retorica e di pietismo, dimenticando l'immensa lezione della Scrittura che rifiuta di dare una risposta univoca alla sofferenza del giusto.
Molti percorsi di sofferenza sono stati individuati, nel corso della propria esperienza religiosa, come una "punizione" di Dio per i peccati commessi, oppure come strumento di prova per raffinare la propria fede.
L’uomo soffre, come soffrono tutte le creature di questo mondo: ma l’uomo è anche l'unico essere vivente che si pone domande sul senso della vita, e soprattutto sul senso della morte, sul perché della sofferenza.
Troppo spesso però le sue risposte sono ben lontane dal dare una spiegazione, un significato valido della sofferenza, soprattutto quando, con allucinante convinzione, accusa Dio di essere la causa di ogni avversità, il dispensatore vendicativo di malattie, dolori, disgrazie di ogni genere.
«Dio ci mette alla prova, facendoci soffrire»; «Dio prende con sé sempre i migliori»; «Quand’è che Dio mi lascerà in pace»…
Sono modi di dire, è ovvio; espressioni che diamo per scontate, ma che negano il vero volto del Dio misericordioso di Gesù, fonte di ogni consolazione e pietà.
Nella nostra smania di voler dare una spiegazione razionale a tutto, cadiamo nel più irrazionale dei ragionamenti, senza accorgerci dell’assurdità delle nostre conclusioni.
La Parola di oggi cerca di illuminarci in qualche modo sul comportamento da tenere.
Gesù, dopo aver guarito il lebbroso, gli chiede il silenzio.
Certamente lo fa perché non vuol passare come un guaritore, come un santone, ma soprattutto perché vuole indicarci il silenzio come unica strada per riflettere sul dolore.
Dio tace, di fronte al dolore, e lo porta con sé, lo riscatta, lo salva, lo riempie di condivisione.
Gesù non dona nessuna risposta al dolore, ma lo condivide con passione.
Le nostre Bibbie non hanno avuto il coraggio della traduzione letterale, e noi troviamo un blando sentimento di "compassione" che Gesù rivolge al lebbroso.
No: Gesù, come letteralmente spiega il verbo greco, splag-cnšuw, prova rabbia, stizza irrefrenabile [letteralmente “si rode le viscere”, senso figurato tratto dall’atto di mangiare le viscere delle vittime dopo la loro offerta sacrificale] verso il male, perché vede in esso la vittoria del nemico.
La vita è dolore, un dolore inevitabile, concludono i vari pensatori di questo mondo.
La vita è dolore, concludeva anche il Buddha, indicando nel distacco dalle passioni l'unica soluzione per non soffrire.
Gesù invece propone, nella solidarietà condivisa, l'alternativa al dolore. Un dolore condiviso e redento ci rende autentici, dona forza e speranza, mantenendo intatto l'aspetto misterioso (misterico) del dolore del mondo.
Un esempio di dolore condiviso? Padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un'isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all'inumanità della malattia.
Padre Damiano morirà a Molokai, facendo rinascere la dignità di queste persona, dando loro fede, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo. Costretto a confessarsi urlando i propri peccati a un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai.
A ben riflettere però, siamo tutti dei lebbrosi: perché il peccato, sempre più espressione della vita di quanti sono lontani da Dio, è la lebbra più infettiva di oggi e si diffonde con una tale rapidità tra il genere umano, che è difficile arginarla.
È necessario pertanto fare ciò che ha fatto il lebbroso del Vangelo di oggi: inginocchiarsi davanti al Salvatore dell'umanità e chiedere la guarigione della mente e del cuore perversi.
Soprattutto di quelle menti diaboliche che pensano e concepiscono il male in ogni angolo della terra e poi lo portano a compimento.
Tali lebbrosi morali sono estremamente pericolosi perché possono, come di fatto sta succedendo, prendere piede nella società odierna e seminare odio e vendetta nel nome dello stesso Dio.
I fatti di questi giorni ai quali stiamo assistendo, con violenze di ogni genere, ci confermano che il Demonio si è insinuato nella vita di tanti esseri umani, al punto tale che il male passa per il bene ed il bene per il male.
A questo sistema di pensiero, infettante come la molteplicità dei virus che attaccano la vita umana, bisogna porre argine per far emergere il miracolo della guarigione che parte dalla compassione e dalla condivisione.
Spesso siamo quindi noi stessi più lebbrosi dei lebbrosi fisici e non ce ne accorgiamo, perché sappiamo nascondere talmente bene le nostre malattie dell'animo, che siamo sepolcri imbiancati, cioè belli esternamente, ma gravemente ammalati interiormente.
Queste malattie vanno curate con una forte terapia di amore verso Dio e verso i fratelli, perché solo chi mette al centro della propria esistenza Cristo e in Lui riconosce l'unico salvatore può trovare la via della sua guarigione.
Si tratta, come ci ricorda l'Apostolo Paolo nel brano della Lettera ai Corinzi di oggi, di imitare Gesù Cristo e di non essere di scandalo a nessuno con il proprio modo di agire:
«Fratelli, sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l'utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Argomenti di grande attualità che ci pongono davanti alle nostre responsabilità individuali e comunitarie, perché ci richiamano alla coerenza con le scelte di vita che abbiamo fatto in una visione cristiana dell'esistenza.
Coerenza che già di per sé è un invito a seguire le orme di Cristo e lasciarsi prendere totalmente da Lui, come avvenne per l'Apostolo delle Genti, quando si convertì al cristianesimo.
Gesù esce dalla sinagoga e inizia a guarire la suocera di Pietro; poi evangelizza, scaccia i demoni e conclude la sua giornata pregando.
Noi, molto spesso, usciamo dalla chiesa e chiudiamo ben bene il cassetto del nostro ego religioso: se ne riparlerà tra una settimana; Dio ha avuto già abbastanza la sua razione di devozione.
Gesù trova nella preghiera la forza per cambiare, per lasciarsi consumare dagli altri, per rendere presente con la sua vita, il Regno di Dio, per raccontare non la "buona novella", ma diventando lui stesso buona novella, la buona notizia di un Dio che si è avvicinato a noi.
In questo percorso, in maniera brutale, inquietante, scomoda, Gesù fa esperienza del male nella sua forma più misteriosa: la malattia e il dolore che la accompagna.
Il dolore dell'innocente, non quello provocato dalla malvagità degli uomini (le guerre sono opera nostra: Dio non c'entra!), ma quello che tragicamente colpisce la vita di certe persone, è l'obiezione più radicale all'esistenza di Dio, e all'esistenza di un Dio buono, come Gesù pretende di annunciare.
Nella vita di ognuno di noi il dolore è presente: ognuno di noi ne deve fare in conti quasi quotidianamente.
La morte improvvisa di una sposa, la malattia di un bambino, il lutto che decima una famiglia, sono esperienze che, quando bussano alla porta, sminuzzano la fede con una lametta, facendola sanguinare e, spesso, spegnendola.
Le parole diventano vuote, il volto di Dio offuscato, le gestualità prive di significato e di forza consolatrice.
Quando si è giovani si pensa ingenuamente di essere dei privilegiati, ci si illude pensando che la sofferenza a noi sarà risparmiata o, almeno, ci arriverà ma in maniera molto attenuata.
Ma se Dio stesso è stato provato dal dolore, perché mai la mia vita dovrebbe esserne esente?
I ragionamenti che maldestramente tentiamo di opporre al non-senso del dolore rischiano di essere esercizi vuoti di retorica e di pietismo, dimenticando l'immensa lezione della Scrittura che rifiuta di dare una risposta univoca alla sofferenza del giusto.
Molti percorsi di sofferenza sono stati individuati, nel corso della propria esperienza religiosa, come una "punizione" di Dio per i peccati commessi, oppure come strumento di prova per raffinare la propria fede.
L’uomo soffre, come soffrono tutte le creature di questo mondo: ma l’uomo è anche l'unico essere vivente che si pone domande sul senso della vita, e soprattutto sul senso della morte, sul perché della sofferenza.
Troppo spesso però le sue risposte sono ben lontane dal dare una spiegazione, un significato valido della sofferenza, soprattutto quando, con allucinante convinzione, accusa Dio di essere la causa di ogni avversità, il dispensatore vendicativo di malattie, dolori, disgrazie di ogni genere.
«Dio ci mette alla prova, facendoci soffrire»; «Dio prende con sé sempre i migliori»; «Quand’è che Dio mi lascerà in pace»…
Sono modi di dire, è ovvio; espressioni che diamo per scontate, ma che negano il vero volto del Dio misericordioso di Gesù, fonte di ogni consolazione e pietà.
Nella nostra smania di voler dare una spiegazione razionale a tutto, cadiamo nel più irrazionale dei ragionamenti, senza accorgerci dell’assurdità delle nostre conclusioni.
La Parola di oggi cerca di illuminarci in qualche modo sul comportamento da tenere.
Gesù, dopo aver guarito il lebbroso, gli chiede il silenzio.
Certamente lo fa perché non vuol passare come un guaritore, come un santone, ma soprattutto perché vuole indicarci il silenzio come unica strada per riflettere sul dolore.
Dio tace, di fronte al dolore, e lo porta con sé, lo riscatta, lo salva, lo riempie di condivisione.
Gesù non dona nessuna risposta al dolore, ma lo condivide con passione.
Le nostre Bibbie non hanno avuto il coraggio della traduzione letterale, e noi troviamo un blando sentimento di "compassione" che Gesù rivolge al lebbroso.
No: Gesù, come letteralmente spiega il verbo greco, splag-cnšuw, prova rabbia, stizza irrefrenabile [letteralmente “si rode le viscere”, senso figurato tratto dall’atto di mangiare le viscere delle vittime dopo la loro offerta sacrificale] verso il male, perché vede in esso la vittoria del nemico.
La vita è dolore, un dolore inevitabile, concludono i vari pensatori di questo mondo.
La vita è dolore, concludeva anche il Buddha, indicando nel distacco dalle passioni l'unica soluzione per non soffrire.
Gesù invece propone, nella solidarietà condivisa, l'alternativa al dolore. Un dolore condiviso e redento ci rende autentici, dona forza e speranza, mantenendo intatto l'aspetto misterioso (misterico) del dolore del mondo.
Un esempio di dolore condiviso? Padre Damiano de Veuster che nel 1873 sbarcava a Molokai, vicino alle Hawaii, un'isola in cui venivano rinchiusi i lebbrosi (seicento!), isola in cui la violenza e la depravazione erano seconde solo all'inumanità della malattia.
Padre Damiano morirà a Molokai, facendo rinascere la dignità di queste persona, dando loro fede, feste, un cimitero, il canto (!), affetto, Cristo. Costretto a confessarsi urlando i propri peccati a un confratello che li ascoltava da una barca, guardato con fastidio dai suoi superiori che lo consideravano un eccentrico, padre Damiano morirà di lebbra dopo aver trascorso sedici anni a restituire dignità ai lebbrosi di Molokai.
A ben riflettere però, siamo tutti dei lebbrosi: perché il peccato, sempre più espressione della vita di quanti sono lontani da Dio, è la lebbra più infettiva di oggi e si diffonde con una tale rapidità tra il genere umano, che è difficile arginarla.
È necessario pertanto fare ciò che ha fatto il lebbroso del Vangelo di oggi: inginocchiarsi davanti al Salvatore dell'umanità e chiedere la guarigione della mente e del cuore perversi.
Soprattutto di quelle menti diaboliche che pensano e concepiscono il male in ogni angolo della terra e poi lo portano a compimento.
Tali lebbrosi morali sono estremamente pericolosi perché possono, come di fatto sta succedendo, prendere piede nella società odierna e seminare odio e vendetta nel nome dello stesso Dio.
I fatti di questi giorni ai quali stiamo assistendo, con violenze di ogni genere, ci confermano che il Demonio si è insinuato nella vita di tanti esseri umani, al punto tale che il male passa per il bene ed il bene per il male.
A questo sistema di pensiero, infettante come la molteplicità dei virus che attaccano la vita umana, bisogna porre argine per far emergere il miracolo della guarigione che parte dalla compassione e dalla condivisione.
Spesso siamo quindi noi stessi più lebbrosi dei lebbrosi fisici e non ce ne accorgiamo, perché sappiamo nascondere talmente bene le nostre malattie dell'animo, che siamo sepolcri imbiancati, cioè belli esternamente, ma gravemente ammalati interiormente.
Queste malattie vanno curate con una forte terapia di amore verso Dio e verso i fratelli, perché solo chi mette al centro della propria esistenza Cristo e in Lui riconosce l'unico salvatore può trovare la via della sua guarigione.
Si tratta, come ci ricorda l'Apostolo Paolo nel brano della Lettera ai Corinzi di oggi, di imitare Gesù Cristo e di non essere di scandalo a nessuno con il proprio modo di agire:
«Fratelli, sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio. Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare l'utile mio ma quello di molti, perché giungano alla salvezza. Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Argomenti di grande attualità che ci pongono davanti alle nostre responsabilità individuali e comunitarie, perché ci richiamano alla coerenza con le scelte di vita che abbiamo fatto in una visione cristiana dell'esistenza.
Coerenza che già di per sé è un invito a seguire le orme di Cristo e lasciarsi prendere totalmente da Lui, come avvenne per l'Apostolo delle Genti, quando si convertì al cristianesimo.
giovedì 5 febbraio 2009
8 Febbraio 2009 - V Domenica del Tempo Ordinario
Con i passi da gigante che ha fatto la medicina, potremmo dire che oggi Gesù sarebbe quasi disoccupato: la scienza ha camminato, ha vinto febbri e malattie.
Pietro stesso porterebbe sua suocera in ospedale o chiamerebbe un qualunque medico.
Già, ma noi non siamo semplicemente dei corpi con organi e tessuti.
Siamo creature impastate di sentimenti, di pensieri, di passioni.
Abbiamo un cuore, che spesso è malato d'infelicità.
Ecco, questa è la grande malattia di oggi, il nemico dell’umanità, il male interiore che solo Gesù sa curare: l’infelicità.
Tutta la scienza non ci regalerà mai un solo istante di felicità.
Gesù sì. Perché Lui, e solo Lui, è l’unico medico dell'anima.
Anche oggi Egli entra nella nostra casa, come in quella di Pietro, si accosta a noi, ci solleva prendendoci per mano. La febbre ci lascerà, e soprattutto ci abbandonerà quel nostro mormorare contro Dio a causa di qualche sofferenza che riteniamo senza senso!...
«Ricordati che sei fatto per il cielo - ci dice Gesù - tua è la vita eterna! Cammina, verso il cielo e non ti curare se i tuoi piedi sanguinano; cammina e guarda avanti; cammina e canta il mio amore per te; cammina e andando testimonia agli uomini la ragione della tua speranza, racconta come il tuo fardello è diventato leggero; cammina annunciando il mio Vangelo: e così facendo ti accorgerai che a camminare non sei solo ma, con me sempre al tuo fianco, una folla immensa ti accompagna: la folla di tutti gli uomini che io ho salvato, e che sono in marcia con te verso il Regno, dove non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno, ma solo un'immensa gioia e una pace perenne».
Una volta poi che il Signore ci avrà liberati dal nostro malessere spirituale, dalle nostre paure, dalle nostre angosce, dobbiamo metterci immediatamente al suo servizio, sull’esempio della suocera di Pietro, che immediatamente si mise a servire Gesù.
Anche noi dobbiamo servire , dobbiamo “dare una mano”: meglio, dobbiamo anche noi “prendere per mano” quei nostri fratelli che si trovano in particolari sofferenze morali, che hanno bisogno di una buona parola, di conforto, di amicizia, di comprensione, di aiuto.
Dobbiamo dir loro: «Vieni, ti do una mano!», un’espressione con cui intendiamo esprimere tutta la nostra solidarietà.
Penso che a tutti, almeno una volta nella vita, sarà capitato di sentirselo dire: ed è stato bello, perché ci ha rassicurato, ci ha confermato che qualcuno si interessava anche a noi. Una parola che ci ha aiutato a superare la gelida paura di essere soli, abbandonati.
Bene: il Signore non si stanca di ripeterci queste parole affettuose; perché vuole restituirci nuovo vigore, fresca vitalità, gioia di vivere.
Egli è sempre pronto, con il Sacramento della Riconciliazione, a stenderci una mano amica per rimetterci in piedi, dopo le nostre inevitabili cadute nel peccato.
Ecco perché anche il nostro servizio ai fratelli, il nostro “dare una mano”, deve essere la risposta operativa all’amore misericordioso che Cristo continuamente ci dimostra.
La guarigione della suocera di Pietro rappresenta dunque il miracolo del servizio. Può sembrare un miracolo insignificante. Ma i miracoli non sono spettacoli di potenza, ma segni della misericordia di Dio.
Il miracolo più grande che Gesù è venuto a compiere in terra, è infatti la capacità di amare, cioè di servire.
Chi ama serve, serve gratuitamente, serve continuamente, serve tutti indistintamente.
Il servizio è la guarigione dalla febbre mortale dell'uomo: l'egoismo, che lo uccide come immagine di Dio che è Amore. L'egoismo si esprime nel servirsi degli altri, che porta all'asservimento reciproco; l'amore si realizza nel servire, che porta alla libertà dell'altro.
Solo nel servizio reciproco saremo tutti finalmente liberi: "Alter alterius onera portate et sic adimplebitis legem Christi: Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo" (Gal 6,3).
Pietro stesso porterebbe sua suocera in ospedale o chiamerebbe un qualunque medico.
Già, ma noi non siamo semplicemente dei corpi con organi e tessuti.
Siamo creature impastate di sentimenti, di pensieri, di passioni.
Abbiamo un cuore, che spesso è malato d'infelicità.
Ecco, questa è la grande malattia di oggi, il nemico dell’umanità, il male interiore che solo Gesù sa curare: l’infelicità.
Tutta la scienza non ci regalerà mai un solo istante di felicità.
Gesù sì. Perché Lui, e solo Lui, è l’unico medico dell'anima.
Anche oggi Egli entra nella nostra casa, come in quella di Pietro, si accosta a noi, ci solleva prendendoci per mano. La febbre ci lascerà, e soprattutto ci abbandonerà quel nostro mormorare contro Dio a causa di qualche sofferenza che riteniamo senza senso!...
«Ricordati che sei fatto per il cielo - ci dice Gesù - tua è la vita eterna! Cammina, verso il cielo e non ti curare se i tuoi piedi sanguinano; cammina e guarda avanti; cammina e canta il mio amore per te; cammina e andando testimonia agli uomini la ragione della tua speranza, racconta come il tuo fardello è diventato leggero; cammina annunciando il mio Vangelo: e così facendo ti accorgerai che a camminare non sei solo ma, con me sempre al tuo fianco, una folla immensa ti accompagna: la folla di tutti gli uomini che io ho salvato, e che sono in marcia con te verso il Regno, dove non ci sarà più morte, né lutto, né lamento, né affanno, ma solo un'immensa gioia e una pace perenne».
Una volta poi che il Signore ci avrà liberati dal nostro malessere spirituale, dalle nostre paure, dalle nostre angosce, dobbiamo metterci immediatamente al suo servizio, sull’esempio della suocera di Pietro, che immediatamente si mise a servire Gesù.
Anche noi dobbiamo servire , dobbiamo “dare una mano”: meglio, dobbiamo anche noi “prendere per mano” quei nostri fratelli che si trovano in particolari sofferenze morali, che hanno bisogno di una buona parola, di conforto, di amicizia, di comprensione, di aiuto.
Dobbiamo dir loro: «Vieni, ti do una mano!», un’espressione con cui intendiamo esprimere tutta la nostra solidarietà.
Penso che a tutti, almeno una volta nella vita, sarà capitato di sentirselo dire: ed è stato bello, perché ci ha rassicurato, ci ha confermato che qualcuno si interessava anche a noi. Una parola che ci ha aiutato a superare la gelida paura di essere soli, abbandonati.
Bene: il Signore non si stanca di ripeterci queste parole affettuose; perché vuole restituirci nuovo vigore, fresca vitalità, gioia di vivere.
Egli è sempre pronto, con il Sacramento della Riconciliazione, a stenderci una mano amica per rimetterci in piedi, dopo le nostre inevitabili cadute nel peccato.
Ecco perché anche il nostro servizio ai fratelli, il nostro “dare una mano”, deve essere la risposta operativa all’amore misericordioso che Cristo continuamente ci dimostra.
La guarigione della suocera di Pietro rappresenta dunque il miracolo del servizio. Può sembrare un miracolo insignificante. Ma i miracoli non sono spettacoli di potenza, ma segni della misericordia di Dio.
Il miracolo più grande che Gesù è venuto a compiere in terra, è infatti la capacità di amare, cioè di servire.
Chi ama serve, serve gratuitamente, serve continuamente, serve tutti indistintamente.
Il servizio è la guarigione dalla febbre mortale dell'uomo: l'egoismo, che lo uccide come immagine di Dio che è Amore. L'egoismo si esprime nel servirsi degli altri, che porta all'asservimento reciproco; l'amore si realizza nel servire, che porta alla libertà dell'altro.
Solo nel servizio reciproco saremo tutti finalmente liberi: "Alter alterius onera portate et sic adimplebitis legem Christi: Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo" (Gal 6,3).
venerdì 30 gennaio 2009
1 Febbraio 2009 – IV Domenica del Tempo Ordinario
Nel vangelo di questa domenica, Gesù viene descritto da Marco con due pennellate incisive: Gesù è il "maestro" che insegna; Gesù è il "liberatore" che guarisce, perché la sua parola è efficace. Ci troviamo davvero davanti a una "dottrina nuova", dove "nuova", nel linguaggio biblico, non significa originale, inedita, ma perfetta e definitiva. Gesù insegna con autorità e comanda con efficacia; egli proclama ed agisce, dice e fa', predica e guarisce. Il profeta è colui che parla "in nome di Dio". Gesù è il vero grande profeta. Egli insegna con autorità, attraverso parole e opere.
Con i quattro ex pescatori, ora suoi discepoli, è a Cafarnao. Di sabato entra e parla nella sinagoga. C'è molta gente. La sua parola provoca un ascolto eccezionale. Tutti stanno a orecchi aperti. Non si sente nemmeno il movimento del respiro. In tutti c'è un grande stupore: avvertono di trovarsi davanti a un uomo fuori del comune. Lui non conosce che l'aramaico, la lingua dialettale; non ha studiato la Scrittura presso alcuna scuola rabbinica; è un illustre sconosciuto. Eppure parla con autorità. Gli scribi e i rabbì del tempo sono dei 'ripetitori'; Gesù no. La sua è una parola che genera meraviglia, perché è novità assoluta, parla di Dio come uno che 'ci vive dentrò, da sempre. Leggendo i vangeli si nota come questo sia il suo stile costante. Possiamo davvero chiamarlo l'uomo che stupisce. Il 'maligno' è molto più acuto della gente: non è preso dallo stupore, ma dalla rabbia e dall'odio. Egli sa che quell'uomo di Nazaret è venuto a sbancarlo dal suo trono. Il suo dominio indiscusso sull'uomo è finito. È scoccata l'ora di fare i conti con «il Cristo di Dio». E Gesù davanti a lui non si piega, perché ha qualcosa in più degli altri uomini: egli è «il Santo di Dio» e il maligno lo sa. Nello scontro è Cristo che vince, ma non con la forza dialettica, Gesù non discute con il demonio. Gli impone addirittura di «tacere e di andarsene». Cristo non scende a patti con lui. Può discutere con il peccatore pentito, mai con colui che compie il male con piacere. Il pasticcio in cui l'uomo d'oggi è impantanato è proprio questo: andare a braccetto con Dio e con il diavolo. Non esiste più distinzione: bene e male, onestà e disonestà, fedeltà e adulterio, purezza e lussuria, danaro pubblico e danaro sporco sono realtà così intrecciate da non essere più riconoscibili. L'arte del doppio gioco, della doppia morale, della doppia coscienza, è pane quotidiano. Gesù ha una parola che taglia come una spada, che fa male, che invita a scegliere, che scuote, che libera e salva. Questa pagina di vangelo ci mette con le spalle al muro e ci invita a fare delle scelte precise, che abbiano il sapore di una libertà interiore ritrovata. A costo di apparire di un altro mondo. Infatti, noi cristiani siamo «nel mondo, ma non del mondo». Di fronte a Gesù che insegna, qual è il nostro atteggiamento? Di fronte a Gesù che ingaggia la sua lotta contro il male, quali comportamenti ci sono richiesti? "Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?" Anche nelle nostre "possessioni", nei nostri limiti, compromessi... abbiamo bisogno di essere "rovinati". La parola di Dio scuote e toglie la "tranquillità" di chi la predica e a chi l'ascolta. A volte essa fa male, ma è un male, come nel caso dell'ossesso del vangelo, che si converte nel nostro vero bene. Gesù è venuto per accendere una speranza nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. E tutti subito percepiscono che la sua parola non è come quella degli scribi. Perché Gesù non si limita a commentare quello che Dio ha detto, magari con dotti riferimenti. No, la sua parola nasce da un'esperienza di Dio, da una comunione con lui che è del tutto unica. È questa la fonte della sua «autorità».
Un annuncio, però, per quanto consolante, non può bastare. Una buona notizia può riscaldare il cuore, può ridare fiducia a chi ormai si è rassegnato, può risollevare da terra chi non ce la faceva più ad andare avanti... Ma viene il momento in cui c'è bisogno di vedere dei segni concreti, di quel cambiamento che è stato annunciato. Ed è proprio quello che Gesù fa', in giorno di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Mostra come Dio provi compassione per le nostre infermità e si impegni, in prima persona, nella lotta contro il male: il male fisico e quello, più profondo, che intacca l'anima, il male che coincide con la cattiveria del cuore e quello che ha i connotati di una prigionia, da cui non si riesce più ad uscire con le proprie forze. Marco, nel suo racconto, è abbastanza sobrio e quasi avaro di particolari: ci presenta un uomo, «posseduto da uno spirito immondo» che è lì, nella sinagoga. E mette sotto i nostri occhi l'azione di Gesù che libera questa persona dalla sua sofferenza, dalla sua lacerazione, dalla sua schiavitù. È bene, tutto sommato, che la descrizione di quell'uomo e della sua malattia sia generica. È bene perché ognuno di noi può vedere nel gesto di Gesù un compito che è affidato anche a lui. In fondo il gesto della liberazione non ha nulla di strano: è un'ingiunzione allo spirito del male ad uscire da quella creatura, è una parola forte che si propone di portare liberazione e speranza in una vita oscurata dalla presenza mortificante del male. E in quel male ci è lecito ravvisare ogni male di cui soffrono i nostri fratelli, ogni situazione di disagio, di abbandono, di strazio, di scoraggiamento. In Gesù ci viene offerto un segno chiaro, senza alcuna ambiguità: Dio non esita ad ingaggiare una lotta senza quartiere contro ciò che ci tiene in schiavitù, Dio impegna se stesso fino in fondo per la nostra felicità. Per questo il suo Figlio si è fatto uomo. Per questo non esiterà a lottare a mani nude contro ogni cattiveria e contro ogni odio, contro ogni brutalità e contro ogni menzogna. Fino a ferirsi. Fino a venir condannato alla morte di croce. Fino a versare il suo sangue. Storia di un amore che non sopporta l'umiliazione, l'abbruttimento, il sopruso, l'emarginazione. Storia di un amore che non si manifesta attraverso proclami, ma con gesti precisi, costosi, audaci, in cui la liberazione dell'uomo comporta rischi e costi molto alti. Storia di un amore che possiamo annunciare solo se siamo disposti a compiere gli stessi gesti, a fare le stesse scelte.
Con i quattro ex pescatori, ora suoi discepoli, è a Cafarnao. Di sabato entra e parla nella sinagoga. C'è molta gente. La sua parola provoca un ascolto eccezionale. Tutti stanno a orecchi aperti. Non si sente nemmeno il movimento del respiro. In tutti c'è un grande stupore: avvertono di trovarsi davanti a un uomo fuori del comune. Lui non conosce che l'aramaico, la lingua dialettale; non ha studiato la Scrittura presso alcuna scuola rabbinica; è un illustre sconosciuto. Eppure parla con autorità. Gli scribi e i rabbì del tempo sono dei 'ripetitori'; Gesù no. La sua è una parola che genera meraviglia, perché è novità assoluta, parla di Dio come uno che 'ci vive dentrò, da sempre. Leggendo i vangeli si nota come questo sia il suo stile costante. Possiamo davvero chiamarlo l'uomo che stupisce. Il 'maligno' è molto più acuto della gente: non è preso dallo stupore, ma dalla rabbia e dall'odio. Egli sa che quell'uomo di Nazaret è venuto a sbancarlo dal suo trono. Il suo dominio indiscusso sull'uomo è finito. È scoccata l'ora di fare i conti con «il Cristo di Dio». E Gesù davanti a lui non si piega, perché ha qualcosa in più degli altri uomini: egli è «il Santo di Dio» e il maligno lo sa. Nello scontro è Cristo che vince, ma non con la forza dialettica, Gesù non discute con il demonio. Gli impone addirittura di «tacere e di andarsene». Cristo non scende a patti con lui. Può discutere con il peccatore pentito, mai con colui che compie il male con piacere. Il pasticcio in cui l'uomo d'oggi è impantanato è proprio questo: andare a braccetto con Dio e con il diavolo. Non esiste più distinzione: bene e male, onestà e disonestà, fedeltà e adulterio, purezza e lussuria, danaro pubblico e danaro sporco sono realtà così intrecciate da non essere più riconoscibili. L'arte del doppio gioco, della doppia morale, della doppia coscienza, è pane quotidiano. Gesù ha una parola che taglia come una spada, che fa male, che invita a scegliere, che scuote, che libera e salva. Questa pagina di vangelo ci mette con le spalle al muro e ci invita a fare delle scelte precise, che abbiano il sapore di una libertà interiore ritrovata. A costo di apparire di un altro mondo. Infatti, noi cristiani siamo «nel mondo, ma non del mondo». Di fronte a Gesù che insegna, qual è il nostro atteggiamento? Di fronte a Gesù che ingaggia la sua lotta contro il male, quali comportamenti ci sono richiesti? "Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci?" Anche nelle nostre "possessioni", nei nostri limiti, compromessi... abbiamo bisogno di essere "rovinati". La parola di Dio scuote e toglie la "tranquillità" di chi la predica e a chi l'ascolta. A volte essa fa male, ma è un male, come nel caso dell'ossesso del vangelo, che si converte nel nostro vero bene. Gesù è venuto per accendere una speranza nel cuore di ogni uomo e di ogni donna. E tutti subito percepiscono che la sua parola non è come quella degli scribi. Perché Gesù non si limita a commentare quello che Dio ha detto, magari con dotti riferimenti. No, la sua parola nasce da un'esperienza di Dio, da una comunione con lui che è del tutto unica. È questa la fonte della sua «autorità».
Un annuncio, però, per quanto consolante, non può bastare. Una buona notizia può riscaldare il cuore, può ridare fiducia a chi ormai si è rassegnato, può risollevare da terra chi non ce la faceva più ad andare avanti... Ma viene il momento in cui c'è bisogno di vedere dei segni concreti, di quel cambiamento che è stato annunciato. Ed è proprio quello che Gesù fa', in giorno di sabato, nella sinagoga di Cafarnao. Mostra come Dio provi compassione per le nostre infermità e si impegni, in prima persona, nella lotta contro il male: il male fisico e quello, più profondo, che intacca l'anima, il male che coincide con la cattiveria del cuore e quello che ha i connotati di una prigionia, da cui non si riesce più ad uscire con le proprie forze. Marco, nel suo racconto, è abbastanza sobrio e quasi avaro di particolari: ci presenta un uomo, «posseduto da uno spirito immondo» che è lì, nella sinagoga. E mette sotto i nostri occhi l'azione di Gesù che libera questa persona dalla sua sofferenza, dalla sua lacerazione, dalla sua schiavitù. È bene, tutto sommato, che la descrizione di quell'uomo e della sua malattia sia generica. È bene perché ognuno di noi può vedere nel gesto di Gesù un compito che è affidato anche a lui. In fondo il gesto della liberazione non ha nulla di strano: è un'ingiunzione allo spirito del male ad uscire da quella creatura, è una parola forte che si propone di portare liberazione e speranza in una vita oscurata dalla presenza mortificante del male. E in quel male ci è lecito ravvisare ogni male di cui soffrono i nostri fratelli, ogni situazione di disagio, di abbandono, di strazio, di scoraggiamento. In Gesù ci viene offerto un segno chiaro, senza alcuna ambiguità: Dio non esita ad ingaggiare una lotta senza quartiere contro ciò che ci tiene in schiavitù, Dio impegna se stesso fino in fondo per la nostra felicità. Per questo il suo Figlio si è fatto uomo. Per questo non esiterà a lottare a mani nude contro ogni cattiveria e contro ogni odio, contro ogni brutalità e contro ogni menzogna. Fino a ferirsi. Fino a venir condannato alla morte di croce. Fino a versare il suo sangue. Storia di un amore che non sopporta l'umiliazione, l'abbruttimento, il sopruso, l'emarginazione. Storia di un amore che non si manifesta attraverso proclami, ma con gesti precisi, costosi, audaci, in cui la liberazione dell'uomo comporta rischi e costi molto alti. Storia di un amore che possiamo annunciare solo se siamo disposti a compiere gli stessi gesti, a fare le stesse scelte.
venerdì 23 gennaio 2009
25 Gennaio 2009 - III Domenica del Tempo Ordinario
Quelle di Gesù non sono promesse elettorali o specchietti per le allodole: quando promette ai primi discepoli di farli diventare “pescatori di uomini”, (cosa ben più grande del pescare pesce) chiede qualcosa di notevole: aver fiducia in lui, mettersi DIETRO di lui, come discepoli di un maestro che indica il cammino, di CONVERTIRSI e CREDERE nel VANGELO, cioè nella bella notizia di un Dio che è venuto a sporcarsi le mani per ridare dignità e gioia a persone bloccate, angosciate, timorose. Persone che riconosce come figli amati e desiderati. Figli a cui lascia la libertà di decidere della loro vita, ma offre prospettive e risorse per prospettare e costruire qualcosa di più bello ed entusiasmante.
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”: sono queste le prime parole che Gesù pronuncia nel Vangelo di Marco:
- è questo il tempo opportuno e improrogabile per accogliere Dio. E’ come il tempo della raccolta o della vendemmia: aspettare oltre significa rischiare di vedere i frutti della terra e del nostro lavoro marcire, rischiare di rimanere senza cibo, senza vino, senza sostentamento e senza la gioia della festa.
- E’ il tempo opportuno e improrogabile perché il Regno di Dio è vicino: è presente in mezzo a noi, come un seme che è stato seminato e che ora sta germogliando e richiede la nostra collaborazione perché diventi grande e porti frutto. Il Regno di Dio indica il fatto che è Dio finalmente a regnare, a governare, guidare: non è più il potere e il prepotere degli uomini a decidere delle nostre sorti, non è più la superbia, l’avidità, la violenza… il motore della storia, ma è il desiderio di Dio d’amore, di pace, di comunione, di fraternità, di solidarietà a voler prendere le redini delle nostre vicende umane: come un seme, Gesù, venuto in questo mondo, ma ancora presente e operante per guidarci alla realizzazione di questo mondo che tutto desideriamo, ma a cui a fatica crediamo e vi collaboriamo.
Questo nuovo mondo, questa speranza inizia con l’invito a convertirci e a credere nel Vangelo: a cambiare vita e a iniziare a credere seriamente e fermamente in questa possibilità, in un futuro diverso che possa coinvolgere il nostro presente.
Per questo Gesù passa nella nostra storia ed è capace di vedere dentro le persone che incontra, andare oltre ai loro miseri ruoli e riconoscere delle potenzialità grandi: in Simone ed Andrea, semplici pescatori, vede dei pescatori di uomini, persone capaci di raccogliere moltitudini, cercatori di uomini, scopritori di tesori sepolti in ignare persone… in particolare in Simone vede la Pietra su cui poggerà la Chiesa futura, il sostegno che darà fondamento, solidità e durata alla costruzione. In Giovanni vedrà il discepolo che trasmetterà, con la profondità del suo Vangelo, parole sublimi d’amore di Gesù. Un giorno guarderà l’adultera e in lei vedrà non la peccatrice, ma la donna.
Passando anche oggi vede ciascuno di noi e vi scopre potenzialità a noi invisibili, capacità di amare che non sappiamo di avere, doni da condividere che non abbiamo mai sospettato in noi.
Penso a me, alla mia gioventù in continua ricerca, desiderosa di autenticità e di luce, e ha visto e donato un futuro di servizio, come prete e come uomo, che non avevo certo programmato per la mia vita.
Convertitevi e venite dietro di me e vi farò diventare…persone felici e realizzate. Una felicità che siamo chiamati a conquistare a caro prezzo, seguendolo su una via che prevede anche la croce, la morte, ma per poter con lui risorgere a vita nuova, piena ed eterna. A condizione di condividere il suo amore e di donarlo senza riserve.
Domenica scorsa abbiamo ascoltato il racconto di Giovanni che sembra molto differente da quello riportato da Marco e con lui dai sinottici: erano loro a decidere di seguire Gesù in seguito alla testimonianza del Battista che indica in lui il Messia. Eppure alla base di queste esperienze c’è la stessa lezione: i quattro del lago, già discepoli del Battista, seguono Gesù (che li chiama o risponde alla loro ricerca dicendo di venire dietro di lui) non perché attratti dalla sua dottrina, ma perché sentono di potersi fidare di lui, fanno una esperienza che li spinge a lasciare la vecchia vita e iniziare una nuova vita incerta, ma affascinante e ben più luminosa.
Fidarsi e affidarsi precede la missione di diventare pescatori di uomini, di tirar fuori dall’invisibile i tesori sepolti, di riportare alla luce chi era sommerso nel mare dell’oscurità. Li scelse perché stessero con lui e per inviarli: c’è sempre prima una esperienza personale che siamo chiamati a fare. Gesù poi li invia, come oggi può inviarci a formare famiglie cristiane, a testimoniare con l’amore coniugale l’amore di Dio: come portare avanti questo compito grande senza una esperienza personale in Dio? Come donare sapore e gioia nelle nostre famiglie se non attingiamo tutto ciò dalla fonte? Quante volte ci limitiamo a portare nelle nostre case solo la nostra fatica, le ansie quotidiane, le frustrazioni che ci avvolgono? I nostri figli e i nostri coniugi hanno bisogno del nostro amore come noi abbiamo bisogno del loro: ma possiamo portare amore anziché frustrazione solo se ci dissetiamo alla fonte. Non sarà allora mai tempo perso, tempo rubato alla famiglia o alla società quello che dedichiamo alla preghiera, al servizio, alla formazione spirituale, ma tempo risanato che ci carica e ci fornisce di doni da condividere. Solo così il nostro mondo si trasformerà pian piano nel regno di Dio, nel regno d’amore.
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino”: sono queste le prime parole che Gesù pronuncia nel Vangelo di Marco:
- è questo il tempo opportuno e improrogabile per accogliere Dio. E’ come il tempo della raccolta o della vendemmia: aspettare oltre significa rischiare di vedere i frutti della terra e del nostro lavoro marcire, rischiare di rimanere senza cibo, senza vino, senza sostentamento e senza la gioia della festa.
- E’ il tempo opportuno e improrogabile perché il Regno di Dio è vicino: è presente in mezzo a noi, come un seme che è stato seminato e che ora sta germogliando e richiede la nostra collaborazione perché diventi grande e porti frutto. Il Regno di Dio indica il fatto che è Dio finalmente a regnare, a governare, guidare: non è più il potere e il prepotere degli uomini a decidere delle nostre sorti, non è più la superbia, l’avidità, la violenza… il motore della storia, ma è il desiderio di Dio d’amore, di pace, di comunione, di fraternità, di solidarietà a voler prendere le redini delle nostre vicende umane: come un seme, Gesù, venuto in questo mondo, ma ancora presente e operante per guidarci alla realizzazione di questo mondo che tutto desideriamo, ma a cui a fatica crediamo e vi collaboriamo.
Questo nuovo mondo, questa speranza inizia con l’invito a convertirci e a credere nel Vangelo: a cambiare vita e a iniziare a credere seriamente e fermamente in questa possibilità, in un futuro diverso che possa coinvolgere il nostro presente.
Per questo Gesù passa nella nostra storia ed è capace di vedere dentro le persone che incontra, andare oltre ai loro miseri ruoli e riconoscere delle potenzialità grandi: in Simone ed Andrea, semplici pescatori, vede dei pescatori di uomini, persone capaci di raccogliere moltitudini, cercatori di uomini, scopritori di tesori sepolti in ignare persone… in particolare in Simone vede la Pietra su cui poggerà la Chiesa futura, il sostegno che darà fondamento, solidità e durata alla costruzione. In Giovanni vedrà il discepolo che trasmetterà, con la profondità del suo Vangelo, parole sublimi d’amore di Gesù. Un giorno guarderà l’adultera e in lei vedrà non la peccatrice, ma la donna.
Passando anche oggi vede ciascuno di noi e vi scopre potenzialità a noi invisibili, capacità di amare che non sappiamo di avere, doni da condividere che non abbiamo mai sospettato in noi.
Penso a me, alla mia gioventù in continua ricerca, desiderosa di autenticità e di luce, e ha visto e donato un futuro di servizio, come prete e come uomo, che non avevo certo programmato per la mia vita.
Convertitevi e venite dietro di me e vi farò diventare…persone felici e realizzate. Una felicità che siamo chiamati a conquistare a caro prezzo, seguendolo su una via che prevede anche la croce, la morte, ma per poter con lui risorgere a vita nuova, piena ed eterna. A condizione di condividere il suo amore e di donarlo senza riserve.
Domenica scorsa abbiamo ascoltato il racconto di Giovanni che sembra molto differente da quello riportato da Marco e con lui dai sinottici: erano loro a decidere di seguire Gesù in seguito alla testimonianza del Battista che indica in lui il Messia. Eppure alla base di queste esperienze c’è la stessa lezione: i quattro del lago, già discepoli del Battista, seguono Gesù (che li chiama o risponde alla loro ricerca dicendo di venire dietro di lui) non perché attratti dalla sua dottrina, ma perché sentono di potersi fidare di lui, fanno una esperienza che li spinge a lasciare la vecchia vita e iniziare una nuova vita incerta, ma affascinante e ben più luminosa.
Fidarsi e affidarsi precede la missione di diventare pescatori di uomini, di tirar fuori dall’invisibile i tesori sepolti, di riportare alla luce chi era sommerso nel mare dell’oscurità. Li scelse perché stessero con lui e per inviarli: c’è sempre prima una esperienza personale che siamo chiamati a fare. Gesù poi li invia, come oggi può inviarci a formare famiglie cristiane, a testimoniare con l’amore coniugale l’amore di Dio: come portare avanti questo compito grande senza una esperienza personale in Dio? Come donare sapore e gioia nelle nostre famiglie se non attingiamo tutto ciò dalla fonte? Quante volte ci limitiamo a portare nelle nostre case solo la nostra fatica, le ansie quotidiane, le frustrazioni che ci avvolgono? I nostri figli e i nostri coniugi hanno bisogno del nostro amore come noi abbiamo bisogno del loro: ma possiamo portare amore anziché frustrazione solo se ci dissetiamo alla fonte. Non sarà allora mai tempo perso, tempo rubato alla famiglia o alla società quello che dedichiamo alla preghiera, al servizio, alla formazione spirituale, ma tempo risanato che ci carica e ci fornisce di doni da condividere. Solo così il nostro mondo si trasformerà pian piano nel regno di Dio, nel regno d’amore.
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