«Da allora Gesù cominciò a
predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino.
Mentre
camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro,
e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E
disse loro: Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». (Mt 4,12-23).
Il
vangelo di oggi ci presenta l’inizio dell’attività pastorale di Gesù.
Il
Battista è stato arrestato e la situazione si fa pericolosa anche per Lui. Pertanto
Egli “scappa” verso il Nord, in Galilea; lascia Nazaret, la sua città, e si
porta in Cafarnao, “sulla riva del mare”. È strano che città come Nazaret e
Cafarnao nell’Antico Testamento siano completamente sconosciute, anche se Cafarnao,
in particolare, fosse una città molto importante, una città di frontiera.
Matteo la colloca “sulla riva del mare”: in realtà non si tratta del mare ma del
lago di Genezareth o di Tiberiade. Ma perché l’evangelista parla di mare quando
sa benissimo che è un lago? Perché Matteo vuol dare qui una spiegazione
teologica: il mare era quello che separava Israele dalle terre pagane ma
soprattutto era quello che il popolo d’Israele aveva attraversato per fuggire
dalla schiavitù egiziana. Era sinonimo quindi di piena liberazione: per Matteo,
quindi, Gesù rappresenta il nuovo Mosè, venuto a liberare il suo popolo.
Inoltre:
perché Gesù dalle rive del Giordano, invece di scendere in Giudea, terra
eletta, abitata dalla nobiltà sacerdotale, sede del Tempio, sale in Galilea,
regione “delle genti”, popolato da poveracci, bifolchi, gente violenta, gente
cordialmente disprezzata dai ricchi Giudei? Semplice: perché si compisse quanto
anticipato da Isaia: gli abitanti che abitavano nelle tenebre, nella “terra di
Zabulon e di Neftali, sulla via del mare, oltre il Giordano”, regione di morte,
sarebbero stati i primi testimoni del sorgere di una “grande luce”: e Matteo vede
in ciò il compimento della promessa messianica di Israele (Is 8,23): Gesù, in
quella terra “maledetta”, è dunque questa “nuova luce” sorta per illuminare il
mondo.
È
pertanto da qui che Gesù inizia la sua attività: “cominciò a predicare e a dire: Convertitevi perché il regno dei cieli
è vicino”.
Il
verbo usato qui da Matteo è categorico: “metanoèo”;
per seguire Gesù, per accoglierlo, è necessario “convertirsi”, nel senso di “cambiare
radicalmente mentalità” (“shub” in
ebraico vuol dire “cambiare direzione”,
fare una inversione ad “U”); in pratica, bisogna che tutti cambino il loro modo
di “pensare” (noèo): la mente, nell’antichità,
era considerata la sede non solo del pensare ma anche dell’agire. Quindi Gesù non
si limita qui a chiedere un semplice “ritorno religioso a Dio” (= avrebbe usato
“epi-strepho”), ma pretende un
coinvolgimento concreto, operativo, dell’intera persona: un cambio di mentalità
totale che incide, che trasforma, che impone al nostro comportamento un radicale
“dietro-front”.
Questo
perché con Gesù non è più sufficiente “tornare verso Dio”, ma è necessario “accogliere”
questo Dio, e andare con Lui e come Lui, andare verso gli altri: in una parola dobbiamo
impostare diversamente la nostra esistenza, quell’esistenza che noi incentriamo
normalmente su noi stessi.
Poiché
è la nostra mente, sono i nostri pensieri, la nostra volontà, che determinano
le nostre azioni, le nostre emozioni, dobbiamo essere radicali: dobbiamo cioè iniziare
la nostra “conversione” proprio dalla base: analizzando questi nostri pensieri,
e sostituendo, cambiando, estirpando quelli che producono male, che generano sofferenza.
Molti dei nostri pensieri sono dei veri e propri “virus” per la nostra vita; oltre
che indurci al male, creano poi dolore, paure, sensi di colpa, angoscia: “Come
sono arrivato a questo? Piacerò ancora? E se continuassi a sbagliare? Se deludessi
ancora tutti? Sono un disastro! Non ho più futuro! Non sono capace a rialzarmi!
Non cambierò mai! La mia vita è inutile!”.
Come potremmo
vivere una nuova vita continuando a lasciarci dominare da questi tarli che ci
rodono l’anima? È intraprendere una nuova vita che è difficile, oppure sono i nostri
pensieri che la rendono tale? Perché se sono i nostri pensieri noi non saremo
mai in pace con noi stessi, di qualunque genere siano le nostre decisioni, qualunque
sia la nostra scelta di vita!
Allora
perché dobbiamo proprio convertirci? Se questo ci procura tanto lavoro e
sofferenza, perché dobbiamo proprio farlo? Il motivo è chiaro: “Il regno dei cieli è vicino” (Mt 4,17).
Ma cosa intende Matteo con il “regno dei
cieli”? È un’espressione che troviamo soltanto nel suo Vangelo e indica
semplicemente il “regno di Dio”. Un
regno che non è fatto per dominare, sottomettere, conquistare, ma un regno in
cui Gesù si prende cura dei più poveri, degli afflitti, dei miserabili, di
coloro che hanno bisogno di tutto. Non è più un regno di questo mondo, dove il
re di turno chiede, domanda, pretende, obbliga, impone leggi, sanzioni e tasse;
ma è un regno specialissimo in cui Cristo, il Re, si offre, si dona, si prende cura.
E per
servire, per attuare, per realizzare, per operare in questo regno, Gesù ha
bisogno di collaboratori: ecco perché questo regno è “vicino” a noi: perché aspetta
la nostra adesione, perche aspetta che anche noi ci mettiamo al suo servizio; e
per farlo dobbiamo come condizione prioritaria ed essenziale abbandonare la
nostra vecchia mentalità, e accogliere, rivestirci, della nuova mentalità di
Cristo, descritta da Lui nelle beatitudini e nel suo Vangelo.
Per
questo, mentre cammina “lungo il mare di
Galilea”, visti due fratelli, due
poveri pescatori, li chiama dicendo loro: “Venite
dietro a me, vi farò pescatori di uomini”.
È
interessante come Gesù per iniziare la sua comunità non vada in cerca di monaci
come gli esseni, di persone pie come i farisei, di appartenenti al clero come i
sacerdoti, di benestanti e potenti come i sadducei, e tanto meno di teologi
come gli scribi, ma preferisca gente povera, normale. Sono gli umili che
capiscono subito l’importanza della chiamata. Sono essi che accettano di
slancio la difficile missione di offrirsi, di annunciare, di portare un
messaggio di gioia, di vita e di speranza. “Venite
dietro a me”, dice Gesù: Egli è il nostro riferimento, Lui va avanti e noi
dietro: Lui ha bisogno di noi, noi dobbiamo seguirlo. Senza velleità di primeggiare,
di ottenere riconoscimenti, ma solo dimostrandogli tutta la nostra disponibilità,
la nostra buona volontà, la nostra “nuova” mentalità: perché solo così la
nostra risposta al suo invito sarà sincera, leale, efficiente.
Dio ha
stima di noi. Dio ha più fiducia in noi di noi stessi, perché ci conosce meglio
di noi. Noi abbiamo paura, ma lui, al contrario, ha fiducia, ha stima di noi.
Sa cosa possiamo fare. Conosce la grandezza a cui possiamo giungere, se ci
manteniamo umili. Gesù infatti non dice: “Venite dietro di me e vi farò maestri
di spiritualità, vi farò diventare santi, vi farò diventare asceti”. Ma semplicemente:
“Venite dietro a me, vi farò capaci di togliere le persone dalla morte per
ridare loro la vita”.
“Ed essi subito lasciarono le
reti e lo seguirono”:
la fede non è una produzione di preghiere, di salmi, di concetti religiosi. La
fede è andare. Dio ci chiama (chiamata) e noi siamo chiamati a rispondere (respondeo: da cui responsabilità!).
Il
rapporto chi si instaura tra noi è immediato, sequenziale: c’è la Sua chiamata
(vocatio, vocazione), un qualcosa che
ci tocca, che ci interpella, che dice al nostro cuore: “Io voglio te, proprio te!”
e c’è una nostra risposta vincolante; una risposta che, a vederla con la
mentalità del mondo, è sicuramente una “pazzia”. Sì, perché la chiamata
significa “andare”: significa avere fede incrollabile in Lui, lasciarsi
coinvolgere, mettersi completamente in gioco, uscire dal proprio “ego”, dal proprio
modo di pensare, dal nostro “egotismo”: è questa la “pazzia” dei santi.
Molte persone
si chiedono: “Ma qual è in concreto la mia chiamata? Cosa devo fare nella vita
per rispondere alla mia vocazione?”. Certo, è una domanda che dobbiamo sicuramente
porci, è una fase di discernimento che dobbiamo affrontare: a condizione però
che non sia un modo per sfuggire al nostro coinvolgimento, al procrastinare “sine die” un nostro impegno: aspettiamo
la “grande” chiamata e intanto trascuriamo le “piccole” chiamate di ogni
giorno.
Del
resto per deciderci subito basta guardarsi attorno: quanto bisogno c’è di gente
che si impegni, che lotti per un mondo meno corrotto, più vero; quanto bisogno c’è
di persone che si schierino per l’umanità, che credano in qualcosa che vada
oltre il denaro e l’approvazione umana; quanto bisogno c’è di persone che
credano nell’uomo per costruire un mondo nuovo e diverso; quanto bisogno c’è di
persone profonde che sappiano dialogare, senza indietreggiare di fronte alle
contrarietà, senza scendere a compromessi con le nuove “culture”, con il
pensiero laico dominante. C’è bisogno insomma di persone appassionate dell’anima,
della fede e del profondo; c’è bisogno di persone che ascoltino il dolore e la
sofferenza di tanti fratelli che vivono vittime di dinamiche malsane e
opprimenti.
Chi
deve andare? Sono gli altri che devono muoversi? E noi? Purtroppo gran parte
della gente, molto brava nell’arte dello “scaricabarile”, pensa sempre che
tocchi a qualcun altro.
Ma è fin
troppo comodo pensare che la chiamata di Dio, la vocazione, sia un fatto elitario,
riservato soltanto ai preti e alle suore. Certamente quella è la “loro” chiamata:
ma Dio non chiama solo alcuni, Dio chiama tutti.
Nel
vangelo la chiamata non è mai un fatto privato: è singolare, unica, personale, è
vero; ma nel senso che ogni singola persona riceve la sua chiamata specifica, diversa
dalle altre per modalità, per competenze e per ruoli. Ma ogni chiamata di Dio ha
sempre una dimensione comunitaria, sociale.
Dio
non è un qualcosa di privato, di esclusivo, da godere e vivere da soli nella
nostra stanza, nel nostro cuore, isolandoci da tutti. Se ci riduciamo a vivere in
questo modo, allora la nostra fede implode, diventa squilibrio, alienazione.
Fede al contrario è agire, muoversi, andare; è azione verso i fratelli. Agire significa
far emergere, portar fuori l’energia, il fuoco, la passione che abbiamo dentro,
per vivere e far vivere in pieno la Vita; significa voler trasformare il mondo
e la società, significa desiderio e impegno di lotta contro il male che
ingabbia l’Amore: se la nostra fede non è così, abbiamo fallito il nostro
mandato, la nostra vita rimane vuota, solo frivolezze e vanità.
Gesù
ha mandato gli apostoli (e poi noi cristiani) a portare il vangelo per il mondo:
un vangelo che è all’opposto di ciò che pensa e vive il mondo. Perciò dobbiamo
cambiarlo questo mondo, dobbiamo “convertirlo”, rinnovarlo, renderlo diverso,
riportarlo a nuovo. Per questo siamo stati chiamati, per questo siamo stati
scelti. Per questo, seguendo il nostro cuore, dobbiamo vivere la nostra
“chiamata” con carità, compassione, tenerezza, elasticità, adattamento,
sorriso, umanità. E soprattutto con fede: perché solo dimostrando con i fatti di
vivere la nostra fede, di credere convintamente in Dio, potremo “convertire” anche
gli altri. Amen.