venerdì 27 dicembre 2013

29 Dicembre 2013 – La Santa Famiglia

«Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13-15.19-23).
Oggi, festa della Santa Famiglia. Quando pensiamo alla famiglia di Gesù, siamo portati a pensare ad una piccola comunità straordinaria, esente da ogni difficoltà e contrarietà. Ci è stata a volte, trasmessa una immagine paradisiaca, celestiale. Invece era una famiglia come tante altre; anzi, a ben vedere, una famiglia con diversi problemi: una madre incinta non si sa come; un padre che scompare (che fine fa Giuseppe nel vangelo?); un figlio molto difficile da capire, che finisce col diventare sovversivo e rivoluzionario; una famiglia, che per sfuggire il pericolo di soccombere, è costretta a scappare, a fuggire dalla propria terra e a rifugiarsi in Egitto. Beh, se non è “anomala” questa famiglia, non lo è davvero nessuna!
A volte si vedono famiglie che dal di fuori sembrano il paradiso in terra, la perfezione concretizzata. Sembra che tutti si amino, che tutti siano felici, che tutte le cose vadano per il meglio. Sembra!
Invece quante difficoltà! Quanti problemi covano sotto l’apparenza esteriore. Quanta pazienza è necessaria per far quadrare il cerchio! Del resto le difficoltà, in quel minuscolo paesino di Nazareth, le avevano anche Gesù, Maria e Giuseppe: ed erano santi! Perché noi dovremmo esserne esentati?
La famiglia non è il luogo della perfezione assoluta, dei sorrisi spensierati, del “tutto va sempre bene”; la famiglia è, certamente, il luogo dove possiamo abbeverarci d’amore; ma sempre di amore umano si tratta; il quale, come sappiamo, è quello che è: parziale, limitato, mai perfetto, perché viene da uomini; anche se è tremendamente bello, intenso, importante, che solo quando non c’è più, se ne capisce il valore.
Purtroppo anche se molte famiglie si ritrovano assieme a mangiare, anche se siedono attorno allo stesso tavolo, non sono “famiglia”. C’è infatti la famiglia-autogrill in cui uno mangia e poi scappa; c’è la famiglia-caserma: c’è chi ordina, chi comanda e chi deve eseguire; c’è la famiglia-albergo dove tutto è perfetto, ordinato, ma non c’è vita, non si ride, non si scherza, non ci si racconta e non ci si ascolta; si può parlare solo di certe cose e guai alzare la voce o ridere a crepapelle; c’è la famiglia-sky-tv dove il padre guarda la partita o il telegiornale e tutti gli altri devono fare silenzio.
Nella nostra società ci sono molte case, molte abitazioni, ma poche famiglie. C’è la casa al mare, in montagna, all’estero; c’è la “seconda casa” che è il pub, l’osteria, la piazza, dove quasi sempre non c’è nessuno che ci ascolta, nessuno con cui ridere, con cui piangere, con cui mostrarsi per quello che si è. Tante case, tante stanze, tanti locali diversi ma nessuna “famiglia”.
Perché per esser famiglia non basta stare insieme, mettersi insieme, vivere sotto lo stesso tetto. Ci vogliono dei genitori esperti, formati, consapevoli del proprio ruolo.
Ora, se per i bambini c’è la scuola materna, per i ragazzi la scuola elementare, media, superiore, l’università; se per andare in auto c’è l’autoscuola, e per fare un qualsiasi lavoro (anche l’operatore ecologico o l’assistente domiciliare) ci sono corsi di formazione, per educare, formare i genitori non c’è nessuna scuola. Perché non dovrebbero andare a scuola anche loro? Chi insegna loro? Da chi imparano? Perché si ha la pretesa di saper fare il genitore, solo per il fatto che si hanno dei figli? Anche mio zio aveva in salotto un pianoforte stupendo, ma non lo sapeva suonare! Eppure una scuola, un esempio di famiglia, c’è: è quella che festeggiamo oggi; è quella che, con l’esempio, ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà, che ci ha indicato quelli che sono i principi fondamentali che ciascun genitore deve praticare e trasmettere ai propri figli: l’amore, la pazienza, l’umiltà, la sopportazione, la preghiera. Tutti siamo chiamati ad imparare a questa scuola. Perché una famiglia che non trova occasioni, momenti di crescita spirituale è destinata ad appiattirsi, e prima o poi si esaurirà.
In tale contesto, il vangelo di oggi ci presenta i primi giorni della vita terrena di Gesù.
La storia del piccolo Gesù ci ripropone un po’ quello che è il “destino” di ogni bambino. Ogni bambino ha il suo Erode: deve soffrire, vivere di conflitti, umiliazioni e difficoltà. Ogni bambino deve, in qualche modo, scappare dalla propria terra, da quello che lui è, dalla profondità del suo essere, ed emigrare, diventare adulto, diventare qualcun altro. E tutto questo per affermarsi, per salvarsi. Ogni bambino deve trovare delle strategie per sopravvivere nell’ambiente in cui vive, a volte strategie di schiavitù psicologica, di isolamento, di forzato adattamento alle situazioni a volte brutali della vita, ma purtroppo necessarie per crescere, per vivere. Ogni bambino, ha una forza interna, la forza della vita, che è più grande di tutte le forze contrarie, e che gli permette di tornare sempre nella “sua terra”, nella terra promessa; può sempre, cioè, svilupparsi e diventare ciò che realmente può essere, ciò che vuole essere. Perché la forza della vita è più forte, per chi la lascia emergere, di ogni contrarietà.
Soffocare, uccidere il bambino che è in noi, è la più grande tragedia della vita, è la vera strage degli innocenti: perché il nostro “bambino” è quella parte di noi che si sa stupire; il nostro “bambino” è la parte di noi che sa amare pienamente, completamente, che si dà senza trattenere niente.
Il nostro “bambino” è la parte di noi che sente, che piange, che vive, che ride, che è felice.
Quando i bambini sono felici, lo si legge dai loro occhi: sono radiosi. Quando invece piangono si abbandonano ad un pianto disperato e incontenibile: essi vivono tutto con intensità.
Il nostro “bambino” è la parte di noi che chiede aiuto, che non si sopravaluta, che ha coscienza delle proprie forze. Quando un bambino sta male va dalla mamma e si fa coccolare; quando non sa una cosa, o ha bisogno di qualcosa, la chiede al papà;
Il nostro “bambino” è la parte di noi che danza, che canta, che gioca, che si sporca, che si butta per terra, che se ne frega di cosa dice la gente. È così bello lasciarsi andare! Dobbiamo soltanto vincere la paura del nostro Erode. Perché in fondo lui ha più paura di noi.
La festa di oggi infatti è anche la paura di Erode per un bambino: che cosa può fargli un bambino? Erode è terrorizzato dal bambino, ha paura a lasciargli spazio, ha paura che cresca, ha paura che prenda forza, ha paura di non saperlo più controllare. E non sa che quello che lui condanna e cerca di uccidere è, invece, la sua stessa salvezza, è il suo Salvatore.
La strage degli innocenti si compie pertanto ogni volta che noi lasciamo morire, che ci dimentichiamo delle urla, delle violenze, del pianto, della tristezza del “nostro” bambino: altri innocenti (che non c’entrano niente) subiranno la nostra collera, il nostro disagio e la nostra rabbia.
E saranno proprio i nostri figli, i nostri amici, le persone che amiamo, quelli di cui diciamo: “Con loro sarà diverso!” (e non lo sarà!), che subiranno tutta la nostra collera, il nostro dolore e il nostro disagio, perpetuando una catena senza fine.
Guardare quel nostro “bambino”, è tornare a vedere al di là di tutte le nostre deformità, prima che i mali e i condizionamenti subiti, segnassero il nostro vissuto. È tornare a vederci come siamo usciti dalle mani di Dio. È poterci vedere nella nostra unicità, nella nostra bellezza, nell’esserci per un motivo ben preciso. È vedere che veniamo dall’alto, da Dio. È vedere che c’è una parte in noi che nessun Erode può distruggere. È trovare la forza, un punto d’appoggio, per ripartire.
Perché se possiamo vederci al di là di tutto il male che abbiamo ricevuto, anche se involontariamente, non potremo che vederci come Dio ci ha pensato, prima che il nostro volto venisse sfigurato: vedremo la nostra infinita bellezza, grandezza e preziosità. Ci sarà chiaro che siamo angeli, che siamo figli di Dio. Chi riesce a rivedere il bambino che egli era, riesce finalmente a capire cosa vuol dire che Dio si è fatto carne, uomo, in lui, in noi, in tutti: e lo vede concretamente! Amen.

martedì 24 dicembre 2013

25 Dicembre 2013 – Natale del Signore


«È NATO PER NOI UN SALVATORE!»
Tutti noi siamo nati in una regione, in un certo paese, di cui assimiliamo le tradizioni, i modi di pensare, le consuetudini e le abitudini; viviamo in un tempo e in una cultura ben precisi.
Siamo figli di nostro padre e di nostra madre: il loro modo di pensare e di essere è in noi; non solo assomigliamo loro fisicamente, ma anche affettivamente; ci portiamo dentro la loro mentalità.
Noi insomma non nasciamo “liberi”: nasciamo legati, condizionati da chi ci precede.
Ma noi siamo anche e soprattutto figli di Dio: questa è la nostra origine più vera e più profonda.
L’incontro con Gesù, di cui ricordiamo oggi la nascita terrena, ci chiede di rompere con alcune di queste tradizioni, ci chiede di diventare uomini nuovi, diversi, ad immagine sua.
Questa è la nostra chiamata profonda: diventare figli di Dio, della Vita, dell'Amore, diventare ciò che possiamo e dobbiamo essere.
“Realizzarsi” significa infatti diventare se stessi; significa sviluppare quel seme che Dio ha posto dentro di noi.
Natale quindi è nascerci, partorirci, far nascere l’infinito e il divino che ci abita.
Come dobbiamo fare? Ascoltando la voce di Dio, i suoi consigli.
Dio ci parla sempre, continuamente.
Ogni giorno Dio ha qualcosa da dirci, un messaggio da trasmetterci. E lo fa sempre attraverso ciò che ci circonda: persone, incontri, situazioni, eventi, circostanze, esperienze.
Molti dicono: “Dio non mi parla mai!”. Falso. Dio ci parla in tutti i modi possibili, di giorno, di notte, sempre. Cosa deve fare ancora di più Dio per farsi ascoltare? Siamo noi che dobbiamo prestargli un po’ più di attenzione. Sono i suoi continui input che necessitano da parte nostra, accoglienza, apertura, sensibilità; altrimenti i suoi messaggi non vengono letti, non vengono accolti, non vengono recepiti.
Per questo è importante saper ascoltare, fermarci, fare silenzio; dobbiamo darci l’opportunità, l’occasione per poter sentire, per poterci sentire, per poterLo sentire.
Meditiamo il Vangelo, la sua Parola.
Fermiamoci ad ascoltarlo, umilmente e attentamente.
In questo modo la sua voce ci arriverà nitida e inconfondibile.

UN SERENO NATALE A TUTTI!

 

venerdì 20 dicembre 2013

22 Dicembre 2013 – IV Domenica di Avvento

«Sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18-24).
In questo brano Matteo vuole rispondere ad una domanda molto complessa: “Di chi è figlio Gesù?”. È figlio di Davide, di Giuseppe, di Maria, dello Spirito Santo? L’episodio ruota intorno alla gravidanza di Maria e alla reazione incerta, dubbiosa, indecisa di Giuseppe, quando ne viene a conoscenza.
Il testo dice: «Maria promessa sposa di Giuseppe, si trovò incinta». Più precisamente: “fu trovata incinta”. Giuseppe quindi trova incinta la sua fidanzata e non capisce più niente, va nel pallone, come diremmo noi oggi; ma è anche normale, non vi pare? Quante volte anche a noi, nella nostra vita, sono capitati degli imprevisti, delle situazioni che non abbiamo capito, di fronte ai quali i nostri schemi sono letteralmente saltati, i nostri progetti sono andati in frantumi, tutte le nostre sicurezze, i nostri criteri di riferimento sono venuti meno.
Anche qui abbiamo un uomo in piena crisi; si trova improvvisamente di fronte ad una situazione che non sa spiegarsi e ad una donna che non dice una parola a sua discolpa. Si trova nel buio più fitto, nella notte di un dubbio tremendo. Ma è proprio nella notte che avrà l’illuminazione decisiva, un sogno di salvezza. Nel buio, gli arriva la luce nuova, che determinerà il suo cammino e la sua vita: «non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo».
Giuseppe, ci sottolinea il vangelo, è “uomo giusto”; ma giusto, qui, non sta ad indicare tanto lo spessore morale di una persona (una persona onesta, corretta con tutti): i “giusti”, per la Bibbia, erano i fedeli, gli attaccati alla Legge (per esempio Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, erano giusti). In questo caso, essere “giusto” significa essere pronto ad accettare e compiere puntualmente la volontà di Dio, chiedere la sua illuminazione, e quindi comportarsi di conseguenza. Giuseppe in quel preciso momento si trova ad un bivio: la legge del suo popolo gli dice: “Ripudiala; anzi, poiché ti ha tradito, è giusto, è tuo dovere civile, condannarla, lapidarla, ucciderla”. Ma Giuseppe, prima ancora che cittadino, è “timorato di Dio”, un “giusto” come abbiamo detto. Egli ama Maria. È la sua donna, vorrebbe sposarla e le vuole bene. Si vede ingannato, certo, perché la sua fidanzata ufficiale è incinta. Può condannarla, ma preferisce gettarsi alle spalle il suo onore ferito. Egli sa che la legge di Dio è un’altra cosa rispetto a quella degli uomini. Egli infatti è giusto perché segue la legge di Dio, quella legge che è Amore.
Egli pertanto non obbedisce alla legge umana; egli obbedisce al cuore: perché il cuore della legge divina è la legge del cuore. Dio premia questa sua scelta, e lo tranquillizza: «il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo…». L’arcano è svelato: ora Giuseppe può dedicarsi a difendere, contro tutto e tutti, le due gemme preziose che gli sono state affidate da Dio: la vergine incinta, e il suo divino nascituro.
E Matteo spiega: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”, che significa “Dio con noi”».
Il profeta a cui l’evangelista fa riferimento è chiaramente Isaia, al quale, con il suo oracolo, preme soprattutto sottolineare al destinatario l’importanza di aver fede, di aver fiducia in Dio, di fidarsi di Lui. Quindi egli non intende dare alcun significato messianico alle sue parole.
Allora perché Matteo, citando questo testo, intende avvalorare il “concepimento verginale” di Gesù da parte di Maria, ripiena solo di Spirito Santo?
Per meglio capire i vari passaggi di questa doppia lettura, vale la pena di ricordarne brevemente la storia.
Quando Isaia rivolge questo oracolo ad Achaz re di Giuda, siamo in un particolare momento della guerra siro-efraimita del 735 a.C.; il profeta comunica al re che una “halmàh” gli avrebbe generato un figlio, come segno dell'intervento divino a favore della sua dinastia Davidica, messa seriamente in pericolo da Rezin di Damasco e Pechak di Samaria, in procinto di cingere d’assedio Gerusalemme, con l’intenzione di deporlo dal trono a causa del suo rifiuto di allearsi contro la super potenza Assira.
Quindi, Achaz non aveva nulla da temere: Dio lo avrebbe assistito.
Alla nascita di questo bimbo, prova concreta della fedeltà di Dio nel mantenere le sue promesse, il re, come accettazione di tale “segno”, avrebbe dovuto chiamare il bimbo Emmanuele, ossia “Dio con noi”: un modo per riconoscere pubblicamente la realtà dell’intervento divino.
Il termine ebraico “halmàh”, usato da Isaia, significa però semplicemente “giovane donna, ragazza” e non ha alcuna vicinanza con il significato di “vergine”.
Poi, questo “segno” della nascita di un figlio - con il passare degli anni e con le vicende della guerra siro-efraimita ormai remote - gradualmente perde la sua valenza storica e viene interpretato come una profezia straordinaria, un evento quindi non del passato, ma che si realizzerà nel futuro, assumendo i colori del meraviglioso e dello straordinario.
E arriviamo al III-II secolo a.C., epoca in cui la Bibbia ebraica viene tradotta in greco dai LXX ad Alessandria d'Egitto: in tale occasione la parola ebraica “halmàh” viene tradotta in greco con “partnov” che, questa volta, vuol dire proprio “fanciulla vergine”; ciò determina quindi, già a partire dal 200 a.C., l’interpretazione di questo testo nella nuova chiave messianica, considerandolo quindi come un compimento futuro.
Ma perché Matteo, dopo aver presentato la nascita di Gesù dalla vergine Maria (Mt 1,18-21), riporta questa antica citazione biblica a convalida dell’evento appena descritto? Come si spiega? Sappiamo infatti che nel primo secolo, al tempo di Gesù, non esisteva in alcun modo l'idea che il Messia sarebbe nato da una vergine, né tanto meno che ciò sarebbe avvenuto perché Isaia aveva detto così. E allora come sono andati i fatti? Semplice: non è stata la profezia di Isaia che ha fatto scrivere a Matteo il testo sulla “verginità” di Maria; ma è il fatto storico, quello realmente accaduto, cioè il concepimento verginale di Gesù, che ha fatto capire in tutta la sua portata il senso delle parole di Isaia. Forse è un po' complicato da seguire, ma è un ragionamento molto importante, perché uno potrebbe dire: “dal momento che in Isaia era scritto così, l'evangelista Matteo ha inventato il concepimento verginale perché tutto quadrasse”. Nulla di ciò. Matteo ha semplicemente applicato qui il genere letterario “pesher”, a lui peraltro molto congeniale, che consisteva nel cercare nei testi antichi le attualizzazioni e le conferme dei fatti recenti: per cui, di fronte al parto eccezionale di Maria egli, studiando Isaia, si imbatte in questo versetto che allude ad una “partnov” (vergine), e lo collega al concepimento verginale di Gesù: in questo modo è la nascita di Gesù da una vergine, che spiega e illumina le parole di Isaia e non viceversa.
Dopo il concepimento straordinario di Gesù, e grazie ad esso, gli studiosi hanno quindi capito che le parole di Isaia non si esaurivano materialmente con i fatti del suo tempo, ma avevano un significato molto più profondo.
Ci troviamo pertanto di fronte ad una meraviglia della storia del testo; perché Isaia, uomo storico, fortemente impegnato nel suo presente, in quell'anno 735 non sapeva di annunciare un evento grandioso che sarebbe avvenuto centinaia di anni dopo; lui non lo sapeva; ma, pur utilizzando un linguaggio letterario dell’epoca, egli parlava a nome di Dio. In altre parole Isaia, quando scrive, non sa che valore abbia quello che dice; ma Dio, che lo ispira, sì; è per questo che il testo sacro finale presenta una gamma di significati e di interpretazioni molto più ampi ed estesi di quanto l’autore materiale fosse in grado di capire. Qui sta l’evento meraviglioso: il testo biblico è portatore di una verità ispirata da Dio che va al di là della consapevolezza e della comprensione dell’autore stesso.
Noi, quando ci accostiamo al testo sacro, è proprio questa meravigliosa realtà che dobbiamo tenere sempre presente: dobbiamo cioè passare da Gesù alle Scritture, e dalle Scritture ritornare a Gesù; solo così capiremo a fondo questi due elementi, Gesù e le Scritture; solo così scopriremo anche noi nelle parole di Isaia, l’autentico messaggio, la sua “buona notizia”, che ci parla sì di fede, di fiducia, di garanzia di un Dio presente allora, ma soprattutto di un Dio che continua ad essere anche per noi l’Emmanuele, il “Dio con noi”.
Del resto, il figlio del re Achaz, ai tempi di Isaia, non fu chiamato Emmanuele, ma Ezechia; e neppure il Messia fu chiamato con questo nome, ma Gesù. Tuttavia Matteo, con grande finezza, alla fine del suo vangelo, ci fa notare che l'autentica realizzazione di questa profezia, a parte il concepimento verginale di Maria, si ha nel momento stesso in cui Gesù dice ai suoi discepoli, dopo la risurrezione, mentre appare loro sul monte, «andate in tutto il mondo, fate discepoli tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo insegnando a conservare tutto quello che io vi ho insegnato». È in questo modo che Dio perpetua la sua presenza tra noi nei secoli: «Ecco, io sono con voi (l’Emmanuele) tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). L'Emmanuele è lì. In quel “Dio con noi” c’è infatti la persona del Risorto che ci garantisce la sua continua presenza e assistenza; l’Emmanuele è lui. Allora amiamolo, ricordiamo con gioia, tra qualche giorno, la sua nascita terrena a Betlemme; e soprattutto confidiamo in Lui. Sempre. Amen.

giovedì 12 dicembre 2013

15 Dicembre 2013 – III Domenica di Avvento

«I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Mt 11,2-11).
Quando Gesù con la sua predicazione conquista le folle, Giovanni Battista entra in crisi; chiuso in carcere, inizia a dubitare. Dubita sull’efficacia della sua predicazione, dubita che Gesù sia il Messia, dubita sul Dio che Gesù predica. Il Dio di Gesù, infatti, non è il suo Dio: lui, Giovanni, è un uomo intransigente, tutto d’un pezzo: uno che dice “no” all’ingiustizia, alla falsità, all’ipocrisia diffusa: il suo Dio, quello che predica, è un Dio molto severo, un Dio che è intransigente e giudica con severità; un Dio che, alla sua venuta, sistemerà le cose per bene, secondo giustizia: premiando i giusti, ma soprattutto condannando i corrotti; sarà fuoco che brucerà tutte le scorie del mondo; scure che taglierà ed eliminerà inesorabilmente tutto ciò che è storto e guasto.
Giovanni, di fronte alla novità della predicazione di Gesù, colma di amore e di misericordia, non sa più cosa pensare, rimane sconcertato, smarrito. Per questo gli manda dei discepoli per chiedergli: “Ma sei tu o no?”, perché lui non sa più cosa pensare. Credeva che Dio, il Messia, fosse in un certo modo e ora si accorge invece che il Dio di Gesù è completamente diverso. Sì, perché Gesù rivela un Dio della vita, della libertà, della guarigione, del cambiamento; il Dio di chi vuole la vita vera, di chi ama. È il Dio che vive in tutti gli uomini, perché tutti sono creati a Sua immagine. È il Dio presente in ogni creatura umana: ogni essere è fratello, ogni creatura è sorella. È il Dio che chiede a ciascuno di trasformarsi, di realizzarsi, di convertire la sua aggressività interiore in amore universale; di diventare lui stesso “tempio” vivente di Dio e “chiesa” dell’Altissimo. È il Dio della Luce, della consapevolezza dei propri limiti. È comunque un Dio impegnativo, perché chiede coinvolgimento, chiede di lasciarsi plasmare. È Amore assoluto. E come tale, vuol trasformarci in amore. Lui è in noi, e noi, completamente colmi di Lui, lo lasciamo trasparire, lo lasciamo emergere, lo lasciamo venire fuori da noi, a beneficio di tutti.
È così che gli altri si accorgono se abbiamo incontrato Gesù. Perché chi incontra Gesù, cambia vita. Chi incontra Gesù, non può più essere lo stesso di prima.
I ciechi vedono”: quanta meraviglia ci circonda, e noi non la vediamo! Siamo immersi nella bellezza, nella perfezione del creato, e non sappiamo coglierne i particolari: le stelle silenziose della notte, il tramonto infuocato della sera, i volti fiduciosi dei bambini, la gioia intima degli innamorati, le lacrime consolatrici del ritrovarsi. Sfumature che i nostri occhi, ispessiti dall’egoismo, non riescono a cogliere; ci lasciano indifferenti, non ci colpiscono, non ci stupiscono! Se la folgorante luce di Cristo non ci illumina l’anima e il cuore, nulla di ciò che vediamo potrà mai estasiarci. Senza di Lui siamo ciechi, siamo famelici. Qualunque cosa guardiamo, la sviliamo; la guardiamo solo per desiderarla, per prenderla, per possederla. Guardiamo ma non “vediamo”. Siamo convinti di vedere, ma siamo completamente ciechi. Chi al contrario incontra Dio, vede, ammira, apprezza e gusta tutto, senza pretendere di possedere nulla. Si sazia e si disseta con ciò che ammira, senza calpestare niente e nessuno; entra nei cuori e nei volti dei fratelli, come un raggio di sole che penetra nelle case attraverso i vetri: lo fa gradualmente, con rispetto, con dolcezza. Entra e non si impadronisce di nulla, non sporca, non crea disordine, non rovina nulla. Entra ed esce delicatamente, senza alterare o sconvolgere nulla.
 Gli storpi camminano”: quanta strada possiamo percorrere nella vita! Quanto possiamo camminare, quanto grandi e splendidi possiamo diventare! Non sappiamo dove andremo, ma sappiamo che possiamo fare molta strada. Non sappiamo dove andremo, ma sappiamo che sarà veramente appassionante. Dobbiamo soltanto muoverci. Ma molti preferiscono l’immobilità: sanno che dovrebbero seguire una certa direzione, fare determinate scelte, intraprendere quel determinato viaggio o cammino, ma la paura, la pigrizia, blocca loro le gambe; rimangono completamente paralizzati. Altri invece sono preda dell’irrequietezza, vorrebbero sapere tutto e subito; vorrebbero soluzioni immediate, a basso prezzo; vorrebbero conoscere come affrontare qualunque avversità della vita, in ogni situazione. Ma la vita non offre scelte o ricette già pronte all’uso; non offre soluzioni facili e in discesa da superare in un istante. La vita offre soltanto delle strade ardue, delle opportunità impegnative: se uno vuole può percorrerle; ma deve alzarsi e avanzare sulle proprie gambe, deve andare, camminare e lasciarsi coinvolgere. Chi incontra il Signore e si lascia portare da Lui, va sicuro, spedito e sereno. Chi si fida di Lui si alza in piedi e parte; sente dentro di sé una forza che lo spinge e si mette in cammino; cresce, si evolve, matura, e va lontano... molto lontano.
I lebbrosi sono mondati”: quanto possiamo veramente amare nella vita! È l’amore che risana la nostra lebbra del cuore. Quanti abbracci possiamo scambiare, quante carezze possiamo donare, quanti sguardi possiamo incrociare, quanta tenerezza possiamo scoprire nelle nostre mani e nel nostro cuore. Con Dio, tutto quello che tocchiamo, rinasce a nuova vita: i nostri contatti umani vengono divinizzati.
I sordi odono”: quante cose possiamo “sentire” nella nostra vita! Con lui ritroveremo la massima fiducia; potremo riascoltare tutto ciò che Lui ha da dirci, potremo sentire ogni cosa, potremo capire il vero significato di tutto quello che ci è successo, di tutto quello che ci è capitato; niente rimarrà all’oscuro, niente ci rimarrà nascosto, incomprensibile. Chi incontra il Signore è in grado di ascoltare anche le voci più flebili, le voci che gli vengono da dentro, come i richiami della coscienza: sia quelli dolci e persuasivi, che quelli severi, crudi, rigorosi. Chi incontra il Signore ha una tale forza, una tale fiducia, una tale sensibilità che può percepire ogni cosa: l’amore che guida il creato, il bisogno delle persone di aprirsi, la sofferenza dei cuori affamati d’amore, l’odio che talvolta si annida negli sguardi e nelle parole. Chi incontra Dio sente tutto: capirà immediatamente come comportarsi, e non potrà mai, in ogni caso, distruggere gli altri o venire da essi distrutto. Diventa tetragono ad ogni avversità del mondo e del maligno.
I morti risuscitano”: quanta vita possiamo vivere con Lui! La lieta notizia è che con Lui siamo i più ricchi, i più fortunati di questa terra; possiamo vivere già in questa vita una felicità che va al di là di ogni nostra aspettativa. Possiamo vibrare, espanderci, amare, sentirci grati ed essere soddisfatti; e tutto, in maniera così intensa, così esclusiva, da farci addirittura piangere di gioia, da farci fremere, da farci mancare l’aria.
E allora, chiediamoci: perché strisciare per terra, far di tutto per vivere come dei vermi, quando Lui ci ha dotati di ali per volare, per librarci in alto? Chi si fida di Dio vola tra le sue braccia, vola in alto, nel calore e nella luce dell’Amore. Possiamo farlo anche noi! Non ci attrae ? Non ci affascina? Ma non è esattamente così che vorremmo vivere? Ebbene: con Lui possiamo! Amen.

 

mercoledì 4 dicembre 2013

8 Dicembre 2013 – Immacolata Concezione della B.V. Maria

«Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Lc 1,26-38)
Un angelo, un messaggero di Dio, si presenta in una casupola, meglio una grotta, situata tra le montagne della sperduta Galilea, abitata da un’umile e povera ragazza. E proprio qui la Parola di Dio, pur incomprensibile e inspiegabile, trova da parte della fanciulla la massima accoglienza.
Dio aveva già inviato il suo portavoce in una precedente occasione: nella religiosissima Giudea, nella civilissima e celebre Gerusalemme; e lo aveva mandato da un sacerdote del Tempio, Zaccaria, un “giusto”, un addetto alle cerimonie sacrificali, uno che era in costante contatto col “divino”. Solo che quel giusto, quel sacerdote, non gli aveva creduto, gli aveva argomentato che il messaggio recapitatogli, vista la situazione, non poteva essere altro che una “panzana”. Un sacerdote che non crede, però, non ha nulla da dire al popolo: dice magari tante parole, racconta un sacco di cose, ma non trasmette nulla, non è un portavoce (pro-feta) di Dio. Per questo, Dio lo ha reso muto. Eppure, ciò che Dio attraverso il suo angelo gli proponeva, non doveva poi suonargli tanto strano, visto che lui era uno che conosceva molto bene la Bibbia: tante altre volte, infatti, Dio aveva fatto nascere figli da donne sterili: per esempio Sara, prima di avere Isacco, era sterile; Rebecca prima di avere Esaù e Giacobbe era sterile; i loro mariti erano Abramo e Isacco, personaggi famosissimi. Anche la madre di Sansone era sterile; anche Anna, Michal, la donna Shunammita, ecc. Perché non poteva succedere anche a sua moglie?
Zaccaria insomma era un sant’uomo, uno che sapeva tutto di Dio, ma che, in pratica, non “aveva” Dio. E a volte il troppo nasconde proprio la mancanza: uno cerca di sapere tutto, proprio perché non “possiede” ciò che cerca: e non “possiede” perché cerca con la mente ciò che invece va cercato con il cuore e con l’anima.
Leonardo Boff un giorno parlava di Dio con sua madre, quasi analfabeta: lui, famoso teologo, tentava di spiegarle chi è Dio. Lei ad un certo punto lo guardò e gli disse: “Ma senti un po’ Leonardo, tu che sai tutte questo cose su Dio, tu che conosci così bene Dio, perché sei sempre così triste?”. Leonardo, si fermò, arrossendo, e appuntò nel suo diario: “Mia madre che non sapeva neppure scrivere, che non era mai andata a scuola, ma che sapeva sorridere e aveva il cuore pieno d’amore, conosceva Dio molto più di me”.
Dunque: dopo aver fallito il primo tentativo (con Zaccaria), l’angelo Gabriele ci riprova. Ma questa volta fa tutto in maniera completamente diversa. Prima era andato nella Giudea, terra santa e fedele a Dio, protagonista della storia della salvezza; ora va in Galilea, regione del nord, dove la popolazione si è mescolata con i pagani; una regione marchiata dal profeta Isaia come “La terra pagana”. Giuseppe Flavio, storico del tempo, aggiunge inoltre che i galilei erano persone litigiose, piantagrane; erano i poveri e i diseredati del tempo, i braccianti dell’epoca, sfruttati dai latifondisti della Giudea, e per questo continuamente in ebollizione ed in rivoluzione. Al punto da far esclamare Natanaele: “Cosa può venire mai di buono da Nazaret?” (Gv 1,46). Erano considerati degli incivili, abitavano in case per la maggior parte ricavate in caverne, nelle grotte; gente insomma da lasciar perdere. In stridente contrasto con le pietre preziose, con la sontuosità e lo splendore del tempio, questa volta l’angelo entra in una misera casupola, in parte ricavata dalla roccia, con delle mura fatiscenti. Prima da un uomo e adesso da una ragazza, da una donna: cosa riprovevole, bestemmia, eresia. La nascita di una donna infatti era considerata una disgrazia, una punizione lanciata da Dio contro determinati peccati; la nascita di una bambina veniva vista come un fastidio che si poteva eliminare, addirittura sopprimere, senza tanti problemi. Le donne non avevano nessun diritto, erano impure, e per giustificare questo si chiamava in causa la Bibbia. Quindi, che Dio si potesse rivolgere ad una donna era totalmente impensabile, fuori da ogni ragionamento.
Ma ciò che è assurdo per gli uomini non lo è affatto per Dio! Dio non guarda ciò che guarda l’uomo. Cosa fa allora l’angelo Gabriele?
«Nel sesto mese...». I numeri per la Bibbia hanno sempre un valore ben definito. Per esempio nella creazione, Dio ha lavorato per sei giorni: il settimo l’ha riservato a se stesso. Dopo la quantità di sei sarebbe arrivato pertanto il giorno di Dio, un evento divino, un incontro con Dio. Così nella trasfigurazione (Mt 17,1) si parla di “sei giorni dopo”: ci sono cioè i sei giorni umani, ma nel settimo giorno c’è la visione del divino, un incontro con qualcosa che sta su un altro livello. Per cui quando Luca dice qui “nel sesto mese” lascia già capire che arriverà qualcosa di divino. Il numero dopo il sei riguarda infatti solo Dio.
E da chi va Gabriele? Da una donna, promessa sposa, che si chiama Maria. Luca inserisce volutamente il nome; ora, per noi, “Maria” è un nome soave; ma di certo non lo era a quel tempo: nella Bibbia esiste una sola Maria, la sorella di Mosè; una donna molto ambiziosa, che aveva cercato di fare le scarpe al fratello Mosè. Per questo Dio la maledisse con la lebbra (la lebbra era la maledizione di Dio). E il Talmud riporta che quando Maria muore e le vogliono fare il funerale, Dio stesso interviene dicendo: “Perché state a piangere una vecchia?”. Dopo quella Maria nessuna più si chiamerà con quel nome fino alla madre di Gesù. Perché? Perché era un nome maledetto, oggetto di maledizione. Nessuno di noi metterebbe nome a suo figlio “Giuda”, un nome che si collega ad un traditore. Così era per Maria.
Quando l’angelo entra le dice: «Ti saluto o piena di grazia»: “Kekaritomène”, “riempita di grazia”; non si riferisce alla bravura di Maria, ai suoi meriti, al fatto che nessuna donna era brava quanto lei. No! Si riferisce all’azione di Dio. Lei è niente (vedi Galilea, Nazaret, donna, Maria, ecc.) eppure Dio la riempie, la colma. È Lui che è tutto, è Lui che gratuitamente la colma. Questa è la grandezza di Maria: Maria è grande non perché era santa o perfetta (come viene descritta in certe litanie) ma perché è la prima ad accogliere senza pretese l’amore gratuito di Dio. Mentre Zaccaria e soci volevano conquistarsi l’amore di Dio con le preghiere, i riti e la santità, Maria non fa nient’altro che dirgli: “Sì”. L’amore di Dio è immeritato, gratuito.
L’angelo poi le dice: «Concepirai un figlio, lo darai alla luce, e lo chiamerai Gesù». Ma le donne non mettono mai il nome ai figli: sono sempre e solo i padri che mettono il nome ai figli! Questa volta sta accadendo veramente qualcosa di straordinario: qui Dio rompe completamente con ogni tradizione precedente, inizia un nuovo corso, qualcosa di completamente nuovo.
È Dio che si manifesta come il totalmente nuovo: nessuno lo può controllare e nessuno può avere spiegazioni, rassicurazioni, perché nessuno conosce questo “nuovo”. Qual è allora l’unica cosa da dire? La stessa di Maria: “Non so dove... non so come... non so perché... non so quando... ma mi fido di te”. Tutto qui.
E Maria risponde: «Come è possibile? Non conosco uomo!». Zaccaria era stato incredulo, Maria no. Lei vuole soltanto sapere il come, come avverrà tutto questo. In passato qualcuno, appellandosi proprio a questa frase, affermava che Maria avesse fatto voto di verginità. Ma questa cosa è impossibile per il mondo ebraico. Noi invece sappiamo perché Maria chiede spiegazioni: perché era nella prima fase del suo matrimonio: era cioè fidanzata, già sposata, ma non ancora convivente.
E l’angelo spiega: «Lo Spirito Santo scenderà su di te». Emblematica questa frase; Luca mette qui in parallelo la discesa dello Spirito Santo su Maria, con la discesa dello Spirito Santo sulla prima chiesa. E chi c’è presente ora, come lo sarà allora? Sempre Maria (At 1,14)! Per il vangelo, dunque, Maria è la donna dello Spirito, è colei che vive, dall’inizio alla fine, guidata sempre dallo Spirito. Lui la guida e lei lo segue.
«Sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». I “servi del Signore”, nella Bibbia, sono quelli che hanno obbedito ai comandi di Dio e che lo hanno seguito. Maria è l’ultima serva del Signore. È colei che chiude un tempo: dopo di lei nessuno sarà più “servo”, ma soltanto “figlio”.
Maria affida all’angelo il suo “Sì” da riferire a Dio; ma non sa a cosa dice sì; perché dice un sì totalmente nuovo, totalmente diverso da ciò che poteva pensare e capire. Ma apre comunque il suo cuore, offre la sua piena disponibilità. Perché Lei si fida di Dio. È per questo che apre un tempo nuovo, un nuovo corso storico: il tempo della fiducia. “Mi fido di te”.
Cosa vuol dire allora essere uomini e donne “dello Spirito”? Vuol dire appunto fidarsi di Dio: significa rispondere ad ogni sua chiamata con un “Sì” pieno e generoso.
Al contrario noi ci chiudiamo ermeticamente, recalcitriamo, dubitiamo, non ci fidiamo: siamo diffidenti perché guardiamo solo a noi stessi e non a Lui. Non vorremmo avere problemi: ma i problemi li troviamo, e numerosi anche, se continuiamo ad assecondare il nostro egoismo, se ascoltiamo solo noi stessi. Rinforziamo allora la nostra fede. Perché sarà solo una fede sincera, disinteressata, umile, che potrà far sgorgare, dal profondo del cuore, il nostro “si” a Dio: “Sì, mi fido!”. Sull’esempio di Maria. Amen.

giovedì 28 novembre 2013

1 Dicembre 2013 – I Domenica di Avvento – Ciclo A

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,37-44).
Con questa domenica iniziamo il tempo liturgico dell’Avvento. Gesù nel vangelo ci mette in guardia. “Aprite gli occhi, non vivete nella superficialità, come al tempo di Noè, in cui mangiavano, bevevano, si sposavano e facevano figli, ma non si accorgevano di nulla”. Vivevano nella falsità, si ingannavano l’un l’altro, ma il loro unico interesse era di disinteressarsi di tutto, non volevano aprire gli occhi, perché aprirli significava cambiare.
Se infatti noi “vediamo” una cosa, allora non siamo più gli stessi: sappiamo che c'è, e ci “scoccia” saperlo; ci “brucia” così tanto che, diciamo, era meglio non saperlo. È vero: aprire gli occhi è doloroso. Molti preferiscono vivere nell’illusione piuttosto che scoprire la realtà. Preferiscono ingannarsi. E questo ci dimostra a sufficienza quanta falsità regni nella vita di certe persone. In questo modo quando Dio verrà, molti non se ne accorgeranno. Molti, inghiottiti dalla vita, diranno: “Ma che sfortunato sono stato! Che destino terribile!”. E invece no! Dovevamo accorgercene prima. Avevamo tutto il tempo, lo sapevamo. Ma abbiamo preferito dormire, abbiamo vegetato, ci siamo lasciati vivere.
La gente mangia tutto, beve tutto, senza porsi mai nessuna domanda; la gente crede a tutto e digerisce tutto. “State attenti, aprite gli occhi, non vivete nella superficialità; non fatevi ingannare”, insiste dunque Gesù. E ce lo dice proprio in Avvento, all’inizio del nuovo anno liturgico, nel tempo che da oggi ci accompagnerà fino al 25 dicembre.
Sì, perché il 25 dicembre celebreremo il Natale, la venuta di Dio sulla terra (ad-ventus).
Ma Dio non viene il 25 di dicembre, Dio viene e ci incontra ogni giorno se noi lo lasciamo entrare, se permettiamo alla sua luce, al suo Sole, di illuminare la nostra vita, di riscaldarla, di svelarcela.
Quindi non prendiamoci in giro e non raccontiamoci frottole: Cristo può nascere mille volte a Betlemme, ma se non nasce dentro di noi è come se non fosse mai nato”, diceva il mistico tedesco Silesius.
In queste quattro settimane, noi accenderemo una candela a settimana (tradizione molto antica): quattro domeniche, quattro candele d’Avvento. Per dire: è un cammino di luce dove noi ogni giorno cerchiamo di accendere una luce nella nostra vita, dove noi ogni giorno cerchiamo di far entrare la luce del Sole, di Dio, perché ci possa rischiarare e illuminare.
Queste quattro candele hanno un senso, però, solo se rappresentano il segno reale di ciò che accade nella nostra vita. Altrimenti sono solo quattro ceri che bruciano e basta. Hanno senso se esprimono la luce che lentamente entra nella nostra vita e che rischiara il buio che ci opprime; se sono la luce che illumina le nostre paure e le vince; se sono la luce del Sole, di Dio, che ci dice: “Non abbiate paura, nessun buio vi può vincere. Non lasciatevi prendere dall’insoddisfazione, dallo sconforto, dal pessimismo, dallo scoraggiamento”.
Il richiamo costante e continuo dell’avvento è pertanto quello di vigilare, di essere svegli, di non addormentarci. “Esci dal sonno; vieni alla luce; svegliati; renditi conto che in certi giorni e in certe zone della tua anima vivi nel buio”.
Per uscire però dal sonno, dobbiamo prima accorgerci di dormire; per accendere una luce, dobbiamo prima accorgerci che c’è il buio. Ed è proprio per questo che l’avvento è difficile: perché aprirsi al Dio-che-viene, vuol dire mettere in crisi certe nostre posizioni conquistate faticosamente e alle quali ci aggrappiamo in tutti i modi.
Molti di noi in questo periodo non fanno in realtà niente; aspettano il 25 di dicembre come qualsiasi altro giorno, e basta. Dicono: “Ho tante altre cose, troppe cose, da fare!”. Ma non è vero: è vero invece il contrario: facciamo tante cose pur di evitare spazi di luce; così, in realtà, tutto rimane invariato, non cambia nulla: ma con il nostro comportamento, con l’indifferenza, con il dubbio, con il cinismo, con la banalizzazione, con il pessimismo, noi rifiutiamo la Luce-che-viene-per-noi: tutti i modi sono buoni per evitare il nostro coinvolgimento, per non consentire alla luce di entrarci dentro.
La parola “Eden”, il mitico giardino di Adamo ed Eva, significa “godimento, delizie”: per chi vive la propria verità (sono figlio di Dio), per chi dà spazio alla propria anima, per chi libera la luce che porta in sé, anche la vita attuale diventa un vero giardino di delizie e di godimento. Al contrario per quelli che perdono contatto con la propria identità profonda, non può che esserci insoddisfazione, noia, rabbia, depressione, risentimento, angoscia.
Quante persone, infatti, dopo aver perso ogni contatto con il Dio che è dentro di loro, vivono di espedienti, di complessi di inferiorità, di ansie continue: pretendono di essere chissà chi, vogliono sentirsi grandi, superiori agli altri, vogliono potere, prestigio; sentendosi svuotati, si riempiono di zavorra; e finiscono col sostituire il loro esistere per l’eterno, con il possedere il presente, il transitorio, il deperibile, il caduco. Se capissero che sono figli di Dio, che ai suoi occhi sono già grandissimi così come sono, che per Lui sono più preziosi di qualunque cosa al mondo, che Lui li conosce singolarmente e li ama proprio perché sono così, sicuramente non avrebbero nient’altro da desiderare, non avrebbero più nulla da dimostrare a nessuno!
Purtroppo, invece, chi ha perso il contatto con la Luce, con il calore dell’amore di Dio, è costretto a combattere contro se stesso, contro i suoi complessi d’inferiorità: si sente nessuno, vuoto, inutile; si distrugge confrontandosi con quelli che sono migliori di lui, si affanna per emularli, per darsi un contegno, per sentirsi importante, visto che per lui l’essere se stesso è semplicemente terribile: non si accetta, non si vuole, è disposto a svendere ogni briciolo di dignità pur di raggiungere dei traguardi, che comunque poi scoprirà fallimentari. Se sapesse invece che è figlio di Dio, che l’Altissimo ha posto dimora in lui fin dalla sua nascita, che nel suo cuore egli ospita il Re dei re, allora di certo si renderebbe conto chi egli sia veramente. Si accorgerebbe che - aldilà della sua vita, dei suoi errori, dei suoi fallimenti, di quello che non riesce a fare o ad essere – lui è sempre e comunque “qualcuno”: una creatura importante, preziosa, unica, irripetibile; perché lui – come ognuno di noi - è stato creato “grotta” di Dio, per custodire l’amore; “Maria” di Dio, per generare l’amore; “Giuseppe” di Dio, per difendere l’amore, “angelo” di Dio, per cantare l’amore.
Allora Avvento significa vegliare per non perdere la nostra vera identità di figli della Luce. Significa riconquistarla, se l’abbiamo persa. Avvento è rivestirci della nostra dignità di figli di Dio. Avvento è prendere coscienza di Chi ci inabita da sempre; è imparare a conoscere la nostra anima che anima la nostra vita. Avvento è cambiamento, luminosità, trasformazione, metamorfosi; perché come il bruco onnivoro, possiamo anche noi diventare leggiadre farfalle che si librano in alto nella luce del Sole eterno. Amen.

venerdì 22 novembre 2013

24 Novembre 2013 – Cristo Re dell’universo

«In quel tempo, dopo che ebbero crocifisso Gesù, il popolo stava a vedere…» (Lc 23,35-43).
Il vangelo di oggi - festa di Cristo Re, Signore incontrastato dell’universo - ci propone, contrariamente a quanto il titolo lascia supporre, non un’atmosfera di grandioso trionfalismo, di fasti regali, ma la scena straziante del Calvario, che di glorioso non ha proprio nulla: Gesù, sulla croce, sta vivendo gli ultimi tragici istanti della sua vita umana. Fermiamoci su questa scena.
Attorno, c'è molta gente: guarda, ma non dice nulla; il popolo non reagisce, non si ribella, non si indigna, non chiede spiegazioni, non si muove. Eppure sta assistendo ad una evidente ingiustizia; ha davanti a sé il figlio di Dio, una delle situazioni più crudeli della storia, e non si scompone. Come se non stesse succedendo nulla di anormale. Regna l'indifferenza più totale.
A molta gente basta avere un po' da mangiare, qualche divertimento, “tirare avanti”, senza essere disturbata. Non vuole essere coinvolta; non vuole avere problemi: non si espone e non prende posizione. Ma in questo modo già ha preso una posizione.
Quando di fronte a qualcosa di grave, di cui siamo testimoni, diciamo: “Io mi faccio gli affari miei e non do fastidio a nessuno”, noi prendiamo una posizione che non è giustificabile di fronte alla nostra coscienza, che non ci può assolutamente deresponsabilizzare. Non solo chi ha ucciso Gesù ne è il responsabile ma anche chi potendo fare qualcosa, anche solo alzando la voce, anche solo ribellandosi, anche solo opponendosi in qualche modo, non lo ha fatto.
Quando non ci indigniamo di fronte a ciò che succede, vuol dire che lo accettiamo. Quando non prendiamo posizione di fronte a ciò che sta accadendo, vuol dire che lo favoriamo. Quando ciò che vediamo non ci fa riflettere, non ci fa piangere e cambiare, vuol dire che favoriamo il male. Quando ci sarà chiesto conto di milioni di persone che muoiono di fame, per la voracità di chi già sta bene, come risponderemo noi: “Io non ho rubato a nessuno?”. Non serve: vuol dire che ci andava bene così! Quando di fronte alla moda, alla linea “unica” di pensiero, di fronte alla nostra cultura imperante, carica di banalità, di ignoranza, di stupidità, noi non solo non ci opponiamo, ma anzi ci adattiamo supinamente, cosa risponderemo: “Beh, facevano tutti così”? Non abbiamo una testa nostra? Siamo comunque colpevoli! Non opporsi, non fare nulla, adagiarsi sull’andazzo comune, non ci esime dalle nostre responsabilità!
Ci sono anche i capi del popolo e i soldati. I capi sbeffeggiano Gesù, si prendono gioco di lui e lo disprezzano. I capi sono quelli che sfruttano a loro vantaggio ogni situazione. Con abili manovre politiche, con una buona comunicazione, riescono ad ottenere sempre ciò che vogliono.
I soldati hanno le armi e la forza. Rappresentano quelle persone che sono convinte di essere libere, di essere forti, di essere “qualcuno” (hanno le armi) e, invece, non si accorgono di essere schiave del sistema; si ritengono libere e fortunate perché possono permettersi “certe cose” e non si accorgono di essere invece delle marionette senza midollo, in mano a poche lobbies che gestiscono in tutto la loro vita.
Poi ci sono i due malfattori. Uno dei due è arrabbiato con la vita, con Dio e con tutti, come se tutti fossero colpevoli della sua sorte. Ciò che gli accade invece è l’esatta conseguenza della sua vita. Se ne rende conto in cuor suo, e per questo scarica addosso a Gesù tutto l'odio e la rabbia per la sua vita. “Salva te stesso e noi”. Parole ironiche, sarcastiche. Ci rappresenta. Quante volte ci troviamo in quella stessa situazione! Quello che lui dice a Gesù è quello che noi dovremmo dire a noi stessi. Siamo noi che dobbiamo salvarci; siamo noi che dobbiamo cambiare; siamo noi che non si rendiamo conto di essere i condannati, gli imprigionati, i condizionati, gli schiavi. E non ce ne accorgiamo.
Dovremmo dire: “Non sei tu che devi salvarti, ma noi!”. Crediamo di vedere uno crocifisso e invece vediamo un uomo libero. Crediamo di essere liberi e invece siamo crocefissi dalle nostre paure, dai nostri condizionamenti. Crediamo di vedere e, invece, siamo ciechi. Crediamo di vivere e non ci accorgiamo di essere morti dentro.
C'è però anche un malfattore che capisce e accoglie Gesù. Anche in quella situazione di totale impotenza è possibile fare qualcosa: dire di sì a Dio e accoglierlo.
Il malfattore riconosce il suo errore e chiede perdono. Tutti guardano con sfida a Gesù; solo lui guarda umilmente a sé, alle sue colpe. Salvezza è guardare a sé; condanna è guardare agli altri; salvezza è riconoscere il proprio errore, la propria non-luce, la propria cecità; salvezza è aprire gli occhi. Questo è quello che ciascuno di noi può dire a Gesù: “Ho vissuto sempre così, ma da oggi voglio cambiare. Oggi sono io che ti accolgo e ti faccio entrare in casa mia. Oggi ti dico di sì. Oggi cambio direzione. Oggi inizio”.
Se finora abbiamo vissuto nel disinteresse, oggi cambiamo. Se finora abbiamo vissuto delegando, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo incolpato gli altri della nostra infelicità, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo imprecato e bestemmiato contro Dio per ciò che ci succede, da oggi cambiamo. Se finora abbiamo vissuto nella paura e nella difensiva, da oggi cambiamo. Perché questo è il paradiso: e da oggi possiamo cambiare. Se finora è andata così, oggi possiamo cambiare. Non è mai troppo tardi per iniziare. Mai!
Quelle parole: “Salva te stesso e noi”, sono terribili. È come dire a Dio: “Mi servi per il tuo potere!”. Ma per cosa serve Dio? Per niente di quello che vorremmo noi! Se pensiamo che Dio serva a far soldi, a dare lustro alla nostra immagine di brave persone, ad essere rispettati, a risolvere i nostri problemi di relazione, a coprire le nostre insicurezze, a tappare i nostri buchi, Dio per tutto questo non serve proprio a nulla. Rimarremo in ogni caso delusi da Lui. Se pensiamo di chiamare in causa Dio per tutto ciò che non funziona nella nostra vita o nel mondo, per tutte le disgrazie che succedono, rimarremo sempre molto delusi. Perché non è per questo che Dio ci serve. Dobbiamo stare molto attenti a non “usare” Dio! Dio è la forza delle nostre gambe: ma siamo noi che dobbiamo camminare! Dio è l'amore del nostro cuore: ma sta a noi protenderci, per incontrare e abbracciare. Dio è la voce che dalla coscienza sale alle nostre labbra: ma sta a noi parlare, confessare, dire la verità. Dio è lo sguardo dei nostri occhi: ma sta a noi aprirli, guardare e renderci conto sul da farsi. Non chiediamo mai a Lui di fare ciò che spetta a noi. Non deleghiamo mai a Dio i nostri compiti. Dio è forza ma non fa azioni di forza. Dio è luce ma non ci sbatte davanti la verità. Dio è potenza ma non violenta nessuno. Dio è amore ma non “costringe” nessuno ad amare.
Il quadro dei due malfattori è una scena molto profonda. Sono due malfattori, due uomini giustiziati giustamente (almeno secondo le leggi di quel tempo). Quello che subiscono non è ingiusto, come al contrario lo è per Gesù: sono due malfattori, hanno ucciso. Sono uomini che hanno sbagliato a vivere, che hanno fallito, che hanno mancato il bersaglio della loro vita (“peccato” in ebraico vuol dire proprio “mancare il bersaglio”). Sanno di aver sbagliato. Ma uno dei due lo ammette e può ricevere il perdono, l'altro no.
Non si può ricevere nessun perdono se non si accetta di aver sbagliato. Nessuno ci può perdonare se non accettiamo la nostra ferita o il nostro errore. Giuda era morso dal senso di colpa per ciò che aveva fatto, ma non l'aveva accettato. E si è ucciso. Così chi non sa accettare il proprio errore e non si sa perdonare si uccide, non si concede nessun'altra possibilità di vita.
Di fronte ai nostri errori abbiamo due possibilità: o ci ostiniamo a non vedere, o accettiamo la realtà che ci fa male. Possiamo raccontarci qualunque favola sulla nostra vita: che ce l’abbiamo messa tutta, che di più non potevamo fare. Ma la nostra coscienza, nel profondo, sa perfettamente se ci siamo accontentati o no, se ci siamo adattati o no, se abbiamo avuto paura di vivere, di osare e di rischiare o no. E siccome a lei non possiamo mentire, lei sente la colpa.
Noi possiamo imbrogliare chiunque, possiamo darla a bere a tutti, ma non alla nostra coscienza che conosce ogni cosa e sa cos'abbiamo realmente fatto. Accettare il perdono è accettare l’idea di esserle stati infedeli, è vederci deboli, vulnerabili, fallibili. E non vorremmo mai vederci così. Non vorremmo mai ammettere che noi, proprio noi, abbiamo agito così. Ma finché non lo ammetteremo, continueremo a rimanere legati al nostro senso di colpa nascosto e non potremo ricevere mai nessun perdono.
Il nostro profondo, la nostra coscienza, il Dio in noi, conosce ogni cosa di noi. A Lui non possiamo mentire. Anche se noi ce le nascondiamo, lui le sa. Anche se noi ce le dimentichiamo lui le sa tutte. Il nostro profondo sa e conosce tutte le nostre colpe, sa e conosce tutto di noi. Ammettere, quindi, riconoscere, “sentire” il male che abbiamo fatto, è l'unica strada per il perdono, per ritornare a vivere, è l’unica via per la salvezza. Amen.
 

giovedì 14 novembre 2013

17 Novembre 2013 – XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Tre considerazioni mi son subito sorte alla lettura del vangelo di oggi: probabilmente non c’entrano nulla con il corretto messaggio del testo, ma voglio comunque condividerle, sperando che diventino motivo di meditazione anche per altri.
La prima: «alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi…» (Lc 21,5). Sono parole che non si adattano solo al Tempio; forse sono ancor più riferibili ai “frequentatori del Tempio”, a tutti noi cristiani; basta guardarci attorno! Quanti (forse io per primo) si atteggiano per quelli che non sono; quante volte amiamo esibire in pubblico le nostre “gemme” spirituali, le nostre pratiche religiose, le nostre “buone” opere: la nostra messa, i nostri rosari, le nostre “lodi”, le nostre elemosine, ostentando in esse una fede e una carità che in realtà non abbiamo; quante volte ci accontentiamo di una pietà ridotta a semplici orpelli esteriori, a corone, a immagini e medaglie sacre in bella mostra, a preziosi crocifissi e madonne d’oro al collo, piuttosto che consumare in umiltà e sincerità, nel segreto del nostro cuore, il nostro intimo rapporto con Dio! Per molti, l’essere cristiani “praticanti”, purtroppo, si esaurisce qui: ma, dice Gesù, tutto quello che vedete, tutto quello che è esteriore, tutto quello che è esibizione e amor proprio, tutto verrà distrutto; tutto si rivelerà un nulla, senza nessun valore.
La seconda: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno nel mio nome. Non andate dietro a loro!». Dobbiamo veramente stare molto attenti: oggi purtroppo siamo costretti a convivere con tantissimi pseudo profeti (conferenzieri, studiosi, preti, frati, teologi moderni, medium, guaritori, ciarlatani ecc.); con gente che pur di consolidare il proprio prestigio, pur di avere un “ritorno” mondano, applausi, gloria mediatica, è pronta, vendendosi l’anima, a promuovere la sapienza venefica di satana, piuttosto che il messaggio salvifico di Cristo. Gente dall’apparenza melliflua, affabile, disponibile, cordiale, che si presenta come testimone e dispensatrice dell’amore di Dio, ma che in realtà è diabolica, mirando esclusivamente all’auto affermazione.
Terza considerazione: «Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici…; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto». Capiterà che saremo traditi e abbandonati da tutti, ma noi non saremo mai soli. Dio continuerà sempre a starci vicino, pronto a venire in nostro aiuto, anche se noi lo rinneghiamo, anche se non lo vogliamo. Può succedere qualunque terremoto, qualunque disgrazia: quello che ci deve tranquillizzare è la certezza di avere ogni momento Gesù al nostro fianco. Con Lui vicino non potrà mai succederci nulla di “male”.
Allora, perché preoccuparci tanto? Perché vivere continuamente nell’ansia, nell’angoscia?
L’angoscia, lo sappiamo, è un male mortale: è la sensazione di poter cadere ogni istante nel baratro del male, senza che nessuno possa aiutarci. È un terrore costante che ci priva di qualunque certezza; è quel sentimento che ci mette di fronte alla nostra impotenza, ai nostri limiti, che ci fa temere un crollo improvviso e totale di ciò che ci circonda.
È un sentimento oggi molto diffuso: noi tutti, in qualche modo, viviamo nell’angoscia: siamo angosciati per il nostro domani, per la possibilità di perdere il lavoro, per non riuscire ad arrivare a fine mese. Siamo tutti ossessionati dalle malattie, dalle disgrazie, dalla possibilità di nuove guerre mondiali, di esplosioni atomiche, dal mostro del terrorismo islamico, dalla possibilità di inondazioni o di calamità naturali. E come se non bastasse, in fondo in fondo, quello che più ci angoscia, più ci terrorizza è l’idea della morte: la drammatica e tragica fine della nostra vita, di quando cioè saremo costretti nostro malgrado ad abbandonare, a perdere, a separarci da tutto ciò che siamo, da tutto ciò che abbiamo.
Cosa dobbiamo fare, allora, per combattere questa sensazione velenosa? Quale via dobbiamo seguire per ridurre questa sensazione che ci paralizza, che ci rende invalidi?
Per prima cosa dobbiamo portare luce nel nostro buio, non dobbiamo aver paura di scoprirci, di mettere tutto il nostro intimo alla luce del Sole divino. Perché più abbiamo cose da nascondere, più le teniamo segrete, più ci sentiamo in colpa per quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto, o abbiamo fatto e non avremmo dovuto fare.
Gesù nel vangelo dice: «Non v'è nulla di nascosto che non debba essere svelato e di segreto che non debba essere manifestato. Quello che vi dico nelle tenebre ditelo nella luce e quello che ascoltate all'orecchio predicatelo sui tetti» (Mt 10,26ss).
Molte persone sono angosciate dal doversi guardare dentro, dalla paura di scoprire nel loro animo, emozioni di odio, di rabbia, di vergogna; temono di essere sopraffatti da sensi di colpa e di inferiorità, da umiliazioni, da ferite. Ma non è così.
Più abbiamo zone buie dentro di noi, più nascondiamo in noi ombre e mostri, più vivremo nell'angoscia; più faremo luce e verità dentro di noi, meno vivremo angosciati.
Una volta poi superato questo ostacolo, dobbiamo vivere nel presente, nella realtà. Se iniziamo a pensare a quello che potrebbe succedere, a come potrebbero andare le cose, al fatto che c'è sempre il peggio che incombe, al disastro che ci potrebbe succedere, allora è davvero la fine.
La maggior parte delle persone non sono angosciate da ciò che succede ma da ciò che potrebbe succedere. Ciò che potrebbe succedere però non è ancora successo, quindi non esiste. Dobbiamo pertanto vivere con i piedi per terra, stare a contatto della realtà, convinti che il più forte antidoto all'angoscia è la fiducia. Sì, perché la fiducia è il percepire, il sentire che Lui è con noi, che ci accompagna, che non ci abbandona mai. La fede vera, la fiducia in Dio, sono l’esatto opposto dell'angoscia: Lui c'è, Lui ci accompagna, Lui vuole il nostro bene, Lui ci sostiene, Lui ci dà e ci darà sempre forza e coraggio. E questo ci deve bastare.
Ma per giungere a ciò, dobbiamo soprattutto pregare. Pregare sul serio.
Del resto, cos'ha fatto Gesù nei suoi momenti di profonda angoscia? Era nel Getsemani e la prospettiva che aveva davanti era terribile: ebbene, Lui ha pregato con tutto se stesso, e si è liberato, affidandola al Padre, di tutta la sua angoscia, della sua paura; ha avuto bisogno di sentirlo vicino, di sentire che Lui c'era anche in quel momento terribile. E quando l'ha sentito vicino, ha trovato la forza per andare avanti a testa alta. Facciamo anche noi così. Amen.
 

giovedì 7 novembre 2013

10 Novembre 2013 – XXXII Domenica del Tempo Ordinario

«Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: “Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”...» (Lc 20,27-38).
Questa volta a fare i provocatori di turno sono i Sadducei, uomini dediti più alla politica che alle problematiche religiose. Nonostante fossero i rappresentanti dell’aristocrazia sacerdotale del Sinedrio, tra le altre cose negavano la dottrina della risurrezione dei corpi, elemento basilare della cultura giudaica.
La loro chiara intenzione è quella di deridere Gesù, di metterlo alla prova, di prenderlo in giro; ma poi, come al solito, sarà Gesù che metterà in difficoltà questi “saputoni”, grazie proprio alla stupidità, banalità e inconsistenza della loro richiesta  .
Il caso che pongono è infatti assurdo, inverosimile, perfino grottesco: “visto che la legge mosaica dice: Se una vedova è senza figli maschi, può essere sposata dal cognato per avere una discendenza(Dt 25, 5), di chi sarà moglie, con quale marito si congiungerà, dopo la risurrezione dei morti, una donna che in vita è stata moglie senza figli di sette fratelli?” È evidente che qui essi esasperano il caso, proprio per mettere in ridicolo Gesù.
Ma Gesù che fa? Li ignora, ovviamente; non dà una risposta diretta, ma approfitta dell'occasione per darci due insegnamenti forti.
Il primo insegnamento: per parlare e discutere di ciò che succederà nell’al di là, dopo la morte, non possiamo utilizzare le stesse categorie mentali con cui ci esprimiamo in questo mondo. Tutte le nostre previsioni non sono altro che ipotesi, allusioni, parabole, immagini. I Sadducei non fanno altro che questo: trasferire immagini note, tratte da questa vita terrena, adattandole al mondo che verrà. Del resto ogni religione fa esattamente così quando intende descrivere la vita dopo la morte: immagini di fuoco, latte e miele che scorrono, pascoli erbosi, luce sfavillante, verdi prati, non sono altro che idee tratte dal patrimonio comune della nostra esistenza attuale. Voler descrivere quello che succederà nella vita futura è impossibile, perché ancora non abbiamo alcuna esperienza in proposito: è come se un bimbo ancora nel grembo materno, volesse descrivere il volto della mamma, la fredda lucentezza di un’aurora, la calda evanescenza di un tramonto marino.
Noi non sappiamo come sarà l'aldilà. Abbiamo dei presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, delle tracce: immagini come il “tunnel del grande passaggio”; il fuoco dell'inferno; gli angeli con le ali; i diavoli con le corna; Adamo, Eva, il giardino dell'Eden; i tormenti del fuoco; il paradiso, il purgatorio e l’inferno e quant'altro, non sono che dei tentativi, delle previsioni che veicoliamo dalla nostra fede, dai testi sacri, dalla letteratura cristiana; immagini che ci producono delle emozioni, che ci rappresentano situazioni “celestiali”, è vero, ma che non ci dicono assolutamente nulla di come sarà realmente l’aldilà.
Forse un’idea più realistica la possiamo trarre dall’amore: quando siamo veramente innamorati, ci sembra infatti di vivere l'eterno, l'infinito; quando qualcuno ci ama ci sentiamo immortali, eterni, senza fine, immersi in una situazione di totale appagamento, da cui nessuno potrà mai staccarci. Ecco, l’incontro con l’amore di Dio, nella risurrezione dopo la morte, sarà sicuramente così; anzi, sarà così, ma sarà anche tutt’altra cosa; sarà una cosa ancora più avvincente, ancora più estasiante; vivremo una situazione indescrivibile, inimmaginabile, perché priva in assoluto di alcun termine di paragone.
La curiosità di sapere ad ogni costo come sarà la fine dei tempi, come sarà la vita oltre la morte, quale sarà il destino delle anime, è spesso di origine morbosa: ci rifugiamo nel futuro perché non sappiamo vivere bene il presente. Siamo insicuri, scontenti, in ansia costante. Basterebbe invece non dimenticare mai una cosa sola: che noi siamo figli di Dio, che siamo figli della Resurrezione, i prediletti, gli amati, i riscattati da Cristo.
Se veramente siamo certi di questo, di che altro dobbiamo preoccuparci? Dove sono ancora le nostre angosce? Mettiamoci nelle mani di Dio e, non temendo il futuro, vivremo bene anche il presente.
“Dio non è il Signore dei morti, ma dei vivi; tutti devono vivere per lui e in lui”. È il secondo insegnamento di oggi: quindi neppure la morte può spezzare questa realtà, questo legame d’amicizia, di amore, di speranza; Dio stesso non si sottrarrà mai a questo rapporto, perché lui è il Fedele. Avere fede nella resurrezione, significa appoggiarsi a questa fedeltà, alla Sua fedeltà; perché Dio è colui che non abbandona. Ogni giorno possiamo sperimentare che Lui è il Fedele: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo quanto Lui ci propone, anche se spesso gli siamo infedeli e lo tradiamo, Lui rimane fedele. Lui è una roccia, Lui è il granito; Lui è la mano che non si stacca mai da noi, che non se ne va, che ci tiene forte, che non ci lascia.
Non sapremo ancora con esattezza cosa voglia dire resurrezione, ma sappiamo che Lui è Vita, è Amicizia, è Amore; è Colui che non abbandona mai chi lo ama.
Sappiamo questo, e questo ci deve bastare.
Affidiamoci a Lui, sicuri che non ci lascerà cadere nel buio. Se la nostra vita rimane appoggiata, ancorata su di Lui, allora anche noi dureremo per sempre, perché Dio è per sempre. Fidiamoci e non temiamo. Ma se Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, lontano dalla nostra vita, allora sì che avremo tanta paura: “una paura da morire!”.
Quando invece uno si fida ciecamente, tutto diventa facile e meraviglioso: non c'è più niente da temere perché un angelo è con noi e ci conduce, ci protegge, ci sostiene, ci dice dove andare e dove non andare. Potersi fidare di qualcuno e abbandonarsi è straordinario. Ci si sente al sicuro, protetti, non c'è più niente di cui aver paura. In certi giorni magari non “vediamo” Dio che ci conduce, ma sentiamo comunque che Lui ci porta. E l’importante non è tanto dove andiamo, ma che lui c’è.
Prima di andare nell’aldilà avremo tanta paura, ma poi sarà una grande festa. Ciò che incontreremo sarà molto diverso rispetto a quello che ci aspettiamo, a quello che possiamo anche solo lontanamente pensare. È inutile pensarci; è inutile volersi fare delle idee; è inutile voler sapere a tutti i costi. Tutto sarà compiuto, tutto sarà in pienezza.
La morte è la fine di questa vita, ma è anche inizio di un'altra vita. Si tratta di cambiare casa. Molte persone credono che l'inferno o il paradiso sia un po' come un terno al lotto: non possiamo farci nulla e speriamo che ci vada bene! Ma l'inferno e il paradiso ce lo costruiamo noi. L'inferno o il paradiso ce lo scegliamo noi; è nelle nostre mani. E quando andremo di là, Dio non farà nient'altro che confermare le nostre scelte di quaggiù, quello cioè che noi abbiamo voluto.
Scegliamo la vita! Scegliamo il paradiso! Scegliamo l'amore! Dio non vuole che distruggiamo la nostra vita. Dio non vuole che nessun uomo si annienti o si annulli, che nessun uomo perda se stesso. Mai. Dio non è il Dio della morte. Dio è il Dio della vita e vuole che tutti viviamo e che viviamo in pienezza, che viviamo sviluppandoci, crescendo, e che raggiungiamo la massima vitalità possibile. Amen.



 

mercoledì 30 ottobre 2013

3 Novembre 2013 – XXXI Domenica del Tempo Ordinario

«Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura» (Lc 19,1-10).
Gesù sta andando verso Gerusalemme. Gerico si trova ad una trentina di chilometri da Gerusalemme, lungo una grande via di comunicazione. Proprio per la sua posizione la città costituiva un punto strategico per l'amministrazione romana; era quindi piuttosto facile imbattersi in funzionari imperiali, uomini dell'esercito ed esattori delle tasse. Era una località molto frequentata e affollata.
Ed è qui che Zaccheo incontra Gesù: o è Gesù che “incontra” Zaccheo?
Ma poi chi è questo Zaccheo? È un pubblicano: i pubblicani erano quelli che avevano avuto in esclusiva dai Romani l’appalto per la riscossione dei tributi, delle tasse: un lavoro ingrato, maledetto e odiato dagli ebrei, dal quale però i pubblicani traevano grossi guadagni personali.
Il termine pubblicano era infatti sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a qualcuno era come dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: è il più ladro dei ladri. E tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto a Roma, un collaborazionista, un peccatore. Uno che aveva accumulato ingenti ricchezze, defraudando la povera gente.
Il nome Zaccheo però vuol dire “giusto, puro”. Certo nessuno lo vedeva così; ma Gesù sì. Anche se uno al di fuori sembra a tutti un poco di buono, un figlio di “buona donna”, anche se sembra un pervertito o quant'altro, Dio vede la sua piccola parte pura e giusta, la sua bontà, la sua “verginità”. Per Lui il valore e la dignità di noi uomini, di sue creature, per quanto ci accada nella vita, non viene mai meno.
Zaccheo dunque “cerca di vedere”. Ora, “cercare di vedere” lascia intuire un desiderio: c'è un'insoddisfazione dentro di lui, c'è un tormento, una inquietudine, una irrequietezza; egli cerca di trovare qualcos'altro; quello che ha, per quanto sia, non gli basta più. Zaccheo ha tutto, ma quel tutto non gli basta, perché la felicità non sta nelle cose ma nei valori. Le cose sono solo uno strumento per raggiungere i valori; sono i valori morali che danno piena serenità e appagamento.
Per questo Zaccheo è insoddisfatto e per questo “cerca di vedere” qualcos'altro. Per questo decide di fare qualcosa di diverso nella sua vita: abbandonerà il banco delle imposte per andare a “vedere” Gesù. Ed è meraviglioso perché Zaccheo, così facendo, dimostra di aver capito che solo Colui che vuole incontrare può dargli pace e serenità.
Zaccheo è piccolo: “piccolo” non tanto di statura , ma della percezione interiore che egli ha di se stesso. Anche se in realtà è “più”, anche se è “superiore” agli altri, egli si sente comunque “inferiore”, si sente incapace, completamente privo di una ricchezza “diversa”, si sente come menomato. Il suo vero problema è quello di sentirsi addosso tutto il peso della sua inferiorità spirituale.
Finora cos'ha fatto? Poiché si sentiva il più piccolo (inconsciamente) ha voluto diventare il più grande (capo dei pubblicani). Pensava che una volta diventato il più ricco, il più potente, sarebbe stato anche il più ammirato, il più amato: ma non è stato così!
Allora reagisce ancora, e trova dentro di sé la forza per riscattarsi, per ribellarsi da una situazione che ormai lo soffocava.
Mettiamoci nei suoi panni: tutti lo conosco, tutti sanno chi è. È uno degli uomini più famosi, più conosciuti, più temuti della città: e che fa? sale su di un sicomoro, cosa molto poco elegante per uno come lui, e lo fa semplicemente per veder passare un “predicatore”. Ci vuole coraggio! Sa che tutti lo vedranno (e infatti tutti lo vedono), che lo derideranno, lo segneranno a dito, ma lui ha il coraggio di farlo comunque, vincendo il timore di essere “chiacchierato” dalla gente. Nella vita è necessario infatti vincere la paura del giudizio degli altri per trovare la propria strada sicura.
E Gesù che fa? Gesù non gli fa nessuna predica, non lo vuole convertire né cambiare.
Gesù semplicemente lo chiama, per nome. Per tutti gli altri egli era “il capo dei pubblicani”, “il ricco”, ma per Gesù è soltanto Zaccheo. Chiamare per nome una persona vuol dire dargli dignità, dargli un volto. In pratica Gesù gli dice: “Io credo in te Zaccheo; io vedo che in te c'è qualcosa di buono. Per gli altri sei solo un farabutto, ma io vedo che tu sei un uomo come tutti gli altri. E tutti gli uomini, nella profondità del loro cuore, hanno sempre un angolo nascosto con un po’ d'amore”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi subito” (Gesù è sempre diretto e lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati; taci; esci; mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..).
Per guarire ci sono delle azioni precise da fare: sono proprio quelle che non vogliamo fare, e per questo serve un ordine preciso, perentorio. Zaccheo si crede chissà chi, si atteggia “a sapientone” e normalmente si mette sul piedistallo con tutti: “Smettila e scendi giù – gli dice Gesù - sei un uomo come tutti gli altri”. E se non obbedirà, Zaccheo non potrà guarire; ciò che si deve fare, va fatto. Punto. Altrimenti non si può proseguire.
Gesù infatti sembra continuare dicendo: “Se tu continui a startene lassù, a ritenerti intoccabile e più degli altri, sai cosa ti accadrà? Ti accadrà che non avrai amici, né compagni e nessuno vorrà entrare in casa tua. Perché quando ci crediamo perfetti o più bravi dagli altri, ci isoliamo e moriamo di solitudine. Vuoi vivere così, Zaccheo?”
Ma egli ha già capito tutto: la sua vita non è vita; e per questo scende. Ha scelto finalmente la via dell’amore.
Ma l'amore è condivisione. L'amore è volere che tutti vivano, che tutti possano diventare il meglio di sé, che possano esprimersi, che possano fiorire, che possano essere al massimo di sé. L'amore non è dare ma darsi. E Zaccheo si dà, dando ciò che ha.
Tutti possono amare, anche se non hanno nulla o se sono poveri. Per l'amore basta avere un cuore. Ci si converte all’amore non perché l'ha detto Madre Teresa di Calcutta o San Francesco d'Assisi, o perché qualcuno ci dice che così va bene e che è importante. Ci si converte perché ci si rende conto che continuare a vivere senza dare e ricevere amore, non è vivere, si muore.
Conversione vuol dire “vivere meglio”; Zaccheo, non a caso, è “pieno di gioia”; e finalmente quel Qualcuno che egli voleva incontrare, facendo breccia nel suo cuore, senza giudicarlo per come appare all’esterno, lo incontra nel suo intimo: “oggi devo fermarmi a casa tua”.
A questo punto la conclusione è ovvia: Zaccheo si sente amato incondizionatamente e gli viene spontaneo fare altrettanto. Gesù non pone condizioni; Gesù non dice: “Ti amo, vengo a casa tua, ma tu devi...”. E Zaccheo farà lo stesso, spontaneamente: chi glielo fa fare infatti di dare la metà dei suoi beni ai poveri? Nessuno! E chi glielo fa fare di restituire, non il dovuto, ma quattro volte tanto il rubato? Nessuno, perché questi sono i gesti dell'amore.
Gesù ha amato Zaccheo gratuitamente e Zaccheo a questo punto ama gratuitamente i fratelli. L'amore è gratuità. È l'amore che ci salva, che ci cambia la vita: noi tutti ce ne siamo resi conto quel giorno in cui, in qualche modo, abbiamo sentito qualcuno che ci ha detto o fatto sentire: “Non voglio nulla da te, non sono qui per chiederti qualcosa in cambio. Sono qui perché tu sei importante per me e ti aiuterò, se tu lo vorrai, ad essere il meglio di te”.
Zaccheo senza Gesù sarebbe rimasto semplicemente il capo dei pubblicani. Gesù gli mostrò che poteva essere un uomo migliore, felice e soddisfatto di sé.
E concludo: l'amore non è dare, ma darsi. È dire al fratello: “Ti dono quello che sono, perché tu sia il meglio e il massimo di te. E quando te ne andrai via da me, essendo migliore di me, allora saprò che ti avrò veramente amato”. Amen.