Oggi, festa della Santa Famiglia. Quando pensiamo alla famiglia di Gesù, siamo portati a pensare ad una piccola comunità straordinaria, esente da ogni difficoltà e contrarietà. Ci è stata a volte, trasmessa una immagine paradisiaca, celestiale. Invece era una famiglia come tante altre; anzi, a ben vedere, una famiglia con diversi problemi: una madre incinta non si sa come; un padre che scompare (che fine fa Giuseppe nel vangelo?); un figlio molto difficile da capire, che finisce col diventare sovversivo e rivoluzionario; una famiglia, che per sfuggire il pericolo di soccombere, è costretta a scappare, a fuggire dalla propria terra e a rifugiarsi in Egitto. Beh, se non è “anomala” questa famiglia, non lo è davvero nessuna!
A volte si vedono famiglie che dal di fuori sembrano il paradiso in terra, la perfezione concretizzata. Sembra che tutti si amino, che tutti siano felici, che tutte le cose vadano per il meglio. Sembra!
Invece quante difficoltà! Quanti problemi covano sotto l’apparenza esteriore. Quanta pazienza è necessaria per far quadrare il cerchio! Del resto le difficoltà, in quel minuscolo paesino di Nazareth, le avevano anche Gesù, Maria e Giuseppe: ed erano santi! Perché noi dovremmo esserne esentati?
La famiglia non è il luogo della perfezione assoluta, dei sorrisi spensierati, del “tutto va sempre bene”; la famiglia è, certamente, il luogo dove possiamo abbeverarci d’amore; ma sempre di amore umano si tratta; il quale, come sappiamo, è quello che è: parziale, limitato, mai perfetto, perché viene da uomini; anche se è tremendamente bello, intenso, importante, che solo quando non c’è più, se ne capisce il valore.
Purtroppo anche se molte famiglie si ritrovano assieme a mangiare, anche se siedono attorno allo stesso tavolo, non sono “famiglia”. C’è infatti la famiglia-autogrill in cui uno mangia e poi scappa; c’è la famiglia-caserma: c’è chi ordina, chi comanda e chi deve eseguire; c’è la famiglia-albergo dove tutto è perfetto, ordinato, ma non c’è vita, non si ride, non si scherza, non ci si racconta e non ci si ascolta; si può parlare solo di certe cose e guai alzare la voce o ridere a crepapelle; c’è la famiglia-sky-tv dove il padre guarda la partita o il telegiornale e tutti gli altri devono fare silenzio.
Nella nostra società ci sono molte case, molte abitazioni, ma poche famiglie. C’è la casa al mare, in montagna, all’estero; c’è la “seconda casa” che è il pub, l’osteria, la piazza, dove quasi sempre non c’è nessuno che ci ascolta, nessuno con cui ridere, con cui piangere, con cui mostrarsi per quello che si è. Tante case, tante stanze, tanti locali diversi ma nessuna “famiglia”.
Perché per esser famiglia non basta stare insieme, mettersi insieme, vivere sotto lo stesso tetto. Ci vogliono dei genitori esperti, formati, consapevoli del proprio ruolo.
Ora, se per i bambini c’è la scuola materna, per i ragazzi la scuola elementare, media, superiore, l’università; se per andare in auto c’è l’autoscuola, e per fare un qualsiasi lavoro (anche l’operatore ecologico o l’assistente domiciliare) ci sono corsi di formazione, per educare, formare i genitori non c’è nessuna scuola. Perché non dovrebbero andare a scuola anche loro? Chi insegna loro? Da chi imparano? Perché si ha la pretesa di saper fare il genitore, solo per il fatto che si hanno dei figli? Anche mio zio aveva in salotto un pianoforte stupendo, ma non lo sapeva suonare! Eppure una scuola, un esempio di famiglia, c’è: è quella che festeggiamo oggi; è quella che, con l’esempio, ci ha insegnato a superare tutte le difficoltà, che ci ha indicato quelli che sono i principi fondamentali che ciascun genitore deve praticare e trasmettere ai propri figli: l’amore, la pazienza, l’umiltà, la sopportazione, la preghiera. Tutti siamo chiamati ad imparare a questa scuola. Perché una famiglia che non trova occasioni, momenti di crescita spirituale è destinata ad appiattirsi, e prima o poi si esaurirà.
In tale contesto, il vangelo di oggi ci presenta i primi giorni della vita terrena di Gesù.
La storia del piccolo Gesù ci ripropone un po’ quello che è il “destino” di ogni bambino. Ogni bambino ha il suo Erode: deve soffrire, vivere di conflitti, umiliazioni e difficoltà. Ogni bambino deve, in qualche modo, scappare dalla propria terra, da quello che lui è, dalla profondità del suo essere, ed emigrare, diventare adulto, diventare qualcun altro. E tutto questo per affermarsi, per salvarsi. Ogni bambino deve trovare delle strategie per sopravvivere nell’ambiente in cui vive, a volte strategie di schiavitù psicologica, di isolamento, di forzato adattamento alle situazioni a volte brutali della vita, ma purtroppo necessarie per crescere, per vivere. Ogni bambino, ha una forza interna, la forza della vita, che è più grande di tutte le forze contrarie, e che gli permette di tornare sempre nella “sua terra”, nella terra promessa; può sempre, cioè, svilupparsi e diventare ciò che realmente può essere, ciò che vuole essere. Perché la forza della vita è più forte, per chi la lascia emergere, di ogni contrarietà.
Soffocare, uccidere il bambino che è in noi, è la più grande tragedia della vita, è la vera strage degli innocenti: perché il nostro “bambino” è quella parte di noi che si sa stupire; il nostro “bambino” è la parte di noi che sa amare pienamente, completamente, che si dà senza trattenere niente.
Il nostro “bambino” è la parte di noi che sente, che piange, che vive, che ride, che è felice.
Quando i bambini sono felici, lo si legge dai loro occhi: sono radiosi. Quando invece piangono si abbandonano ad un pianto disperato e incontenibile: essi vivono tutto con intensità.
Il nostro “bambino” è la parte di noi che chiede aiuto, che non si sopravaluta, che ha coscienza delle proprie forze. Quando un bambino sta male va dalla mamma e si fa coccolare; quando non sa una cosa, o ha bisogno di qualcosa, la chiede al papà;
Il nostro “bambino” è la parte di noi che danza, che canta, che gioca, che si sporca, che si butta per terra, che se ne frega di cosa dice la gente. È così bello lasciarsi andare! Dobbiamo soltanto vincere la paura del nostro Erode. Perché in fondo lui ha più paura di noi.
La festa di oggi infatti è anche la paura di Erode per un bambino: che cosa può fargli un bambino? Erode è terrorizzato dal bambino, ha paura a lasciargli spazio, ha paura che cresca, ha paura che prenda forza, ha paura di non saperlo più controllare. E non sa che quello che lui condanna e cerca di uccidere è, invece, la sua stessa salvezza, è il suo Salvatore.
La strage degli innocenti si compie pertanto ogni volta che noi lasciamo morire, che ci dimentichiamo delle urla, delle violenze, del pianto, della tristezza del “nostro” bambino: altri innocenti (che non c’entrano niente) subiranno la nostra collera, il nostro disagio e la nostra rabbia.
E saranno proprio i nostri figli, i nostri amici, le persone che amiamo, quelli di cui diciamo: “Con loro sarà diverso!” (e non lo sarà!), che subiranno tutta la nostra collera, il nostro dolore e il nostro disagio, perpetuando una catena senza fine.
Guardare quel nostro “bambino”, è tornare a vedere al di là di tutte le nostre deformità, prima che i mali e i condizionamenti subiti, segnassero il nostro vissuto. È tornare a vederci come siamo usciti dalle mani di Dio. È poterci vedere nella nostra unicità, nella nostra bellezza, nell’esserci per un motivo ben preciso. È vedere che veniamo dall’alto, da Dio. È vedere che c’è una parte in noi che nessun Erode può distruggere. È trovare la forza, un punto d’appoggio, per ripartire.
Perché se possiamo vederci al di là di tutto il male che abbiamo ricevuto, anche se involontariamente, non potremo che vederci come Dio ci ha pensato, prima che il nostro volto venisse sfigurato: vedremo la nostra infinita bellezza, grandezza e preziosità. Ci sarà chiaro che siamo angeli, che siamo figli di Dio. Chi riesce a rivedere il bambino che egli era, riesce finalmente a capire cosa vuol dire che Dio si è fatto carne, uomo, in lui, in noi, in tutti: e lo vede concretamente! Amen.
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