In questo brano Matteo vuole rispondere ad una domanda molto complessa: “Di chi è figlio Gesù?”. È figlio di Davide, di Giuseppe, di Maria, dello Spirito Santo? L’episodio ruota intorno alla gravidanza di Maria e alla reazione incerta, dubbiosa, indecisa di Giuseppe, quando ne viene a conoscenza.
Il testo dice: «Maria promessa sposa di Giuseppe, si trovò incinta». Più precisamente: “fu trovata incinta”. Giuseppe quindi trova incinta la sua fidanzata e non capisce più niente, va nel pallone, come diremmo noi oggi; ma è anche normale, non vi pare? Quante volte anche a noi, nella nostra vita, sono capitati degli imprevisti, delle situazioni che non abbiamo capito, di fronte ai quali i nostri schemi sono letteralmente saltati, i nostri progetti sono andati in frantumi, tutte le nostre sicurezze, i nostri criteri di riferimento sono venuti meno.
Anche qui abbiamo un uomo in piena crisi; si trova improvvisamente di fronte ad una situazione che non sa spiegarsi e ad una donna che non dice una parola a sua discolpa. Si trova nel buio più fitto, nella notte di un dubbio tremendo. Ma è proprio nella notte che avrà l’illuminazione decisiva, un sogno di salvezza. Nel buio, gli arriva la luce nuova, che determinerà il suo cammino e la sua vita: «non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo».
Giuseppe, ci sottolinea il vangelo, è “uomo giusto”; ma giusto, qui, non sta ad indicare tanto lo spessore morale di una persona (una persona onesta, corretta con tutti): i “giusti”, per la Bibbia, erano i fedeli, gli attaccati alla Legge (per esempio Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, erano giusti). In questo caso, essere “giusto” significa essere pronto ad accettare e compiere puntualmente la volontà di Dio, chiedere la sua illuminazione, e quindi comportarsi di conseguenza. Giuseppe in quel preciso momento si trova ad un bivio: la legge del suo popolo gli dice: “Ripudiala; anzi, poiché ti ha tradito, è giusto, è tuo dovere civile, condannarla, lapidarla, ucciderla”. Ma Giuseppe, prima ancora che cittadino, è “timorato di Dio”, un “giusto” come abbiamo detto. Egli ama Maria. È la sua donna, vorrebbe sposarla e le vuole bene. Si vede ingannato, certo, perché la sua fidanzata ufficiale è incinta. Può condannarla, ma preferisce gettarsi alle spalle il suo onore ferito. Egli sa che la legge di Dio è un’altra cosa rispetto a quella degli uomini. Egli infatti è giusto perché segue la legge di Dio, quella legge che è Amore.
Egli pertanto non obbedisce alla legge umana; egli obbedisce al cuore: perché il cuore della legge divina è la legge del cuore. Dio premia questa sua scelta, e lo tranquillizza: «il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo…». L’arcano è svelato: ora Giuseppe può dedicarsi a difendere, contro tutto e tutti, le due gemme preziose che gli sono state affidate da Dio: la vergine incinta, e il suo divino nascituro.
E Matteo spiega: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”, che significa “Dio con noi”».
Il profeta a cui l’evangelista fa riferimento è chiaramente Isaia, al quale, con il suo oracolo, preme soprattutto sottolineare al destinatario l’importanza di aver fede, di aver fiducia in Dio, di fidarsi di Lui. Quindi egli non intende dare alcun significato messianico alle sue parole.
Allora perché Matteo, citando questo testo, intende avvalorare il “concepimento verginale” di Gesù da parte di Maria, ripiena solo di Spirito Santo?
Per meglio capire i vari passaggi di questa doppia lettura, vale la pena di ricordarne brevemente la storia.
Quando Isaia rivolge questo oracolo ad Achaz re di Giuda, siamo in un particolare momento della guerra siro-efraimita del 735 a.C.; il profeta comunica al re che una “halmàh” gli avrebbe generato un figlio, come segno dell'intervento divino a favore della sua dinastia Davidica, messa seriamente in pericolo da Rezin di Damasco e Pechak di Samaria, in procinto di cingere d’assedio Gerusalemme, con l’intenzione di deporlo dal trono a causa del suo rifiuto di allearsi contro la super potenza Assira.
Quindi, Achaz non aveva nulla da temere: Dio lo avrebbe assistito.
Alla nascita di questo bimbo, prova concreta della fedeltà di Dio nel mantenere le sue promesse, il re, come accettazione di tale “segno”, avrebbe dovuto chiamare il bimbo Emmanuele, ossia “Dio con noi”: un modo per riconoscere pubblicamente la realtà dell’intervento divino.
Il termine ebraico “halmàh”, usato da Isaia, significa però semplicemente “giovane donna, ragazza” e non ha alcuna vicinanza con il significato di “vergine”.
Poi, questo “segno” della nascita di un figlio - con il passare degli anni e con le vicende della guerra siro-efraimita ormai remote - gradualmente perde la sua valenza storica e viene interpretato come una profezia straordinaria, un evento quindi non del passato, ma che si realizzerà nel futuro, assumendo i colori del meraviglioso e dello straordinario.
E arriviamo al III-II secolo a.C., epoca in cui la Bibbia ebraica viene tradotta in greco dai LXX ad Alessandria d'Egitto: in tale occasione la parola ebraica “halmàh” viene tradotta in greco con “partnov” che, questa volta, vuol dire proprio “fanciulla vergine”; ciò determina quindi, già a partire dal 200 a.C., l’interpretazione di questo testo nella nuova chiave messianica, considerandolo quindi come un compimento futuro.
Ma perché Matteo, dopo aver presentato la nascita di Gesù dalla vergine Maria (Mt 1,18-21), riporta questa antica citazione biblica a convalida dell’evento appena descritto? Come si spiega? Sappiamo infatti che nel primo secolo, al tempo di Gesù, non esisteva in alcun modo l'idea che il Messia sarebbe nato da una vergine, né tanto meno che ciò sarebbe avvenuto perché Isaia aveva detto così. E allora come sono andati i fatti? Semplice: non è stata la profezia di Isaia che ha fatto scrivere a Matteo il testo sulla “verginità” di Maria; ma è il fatto storico, quello realmente accaduto, cioè il concepimento verginale di Gesù, che ha fatto capire in tutta la sua portata il senso delle parole di Isaia. Forse è un po' complicato da seguire, ma è un ragionamento molto importante, perché uno potrebbe dire: “dal momento che in Isaia era scritto così, l'evangelista Matteo ha inventato il concepimento verginale perché tutto quadrasse”. Nulla di ciò. Matteo ha semplicemente applicato qui il genere letterario “pesher”, a lui peraltro molto congeniale, che consisteva nel cercare nei testi antichi le attualizzazioni e le conferme dei fatti recenti: per cui, di fronte al parto eccezionale di Maria egli, studiando Isaia, si imbatte in questo versetto che allude ad una “partnov” (vergine), e lo collega al concepimento verginale di Gesù: in questo modo è la nascita di Gesù da una vergine, che spiega e illumina le parole di Isaia e non viceversa.
Dopo il concepimento straordinario di Gesù, e grazie ad esso, gli studiosi hanno quindi capito che le parole di Isaia non si esaurivano materialmente con i fatti del suo tempo, ma avevano un significato molto più profondo.
Ci troviamo pertanto di fronte ad una meraviglia della storia del testo; perché Isaia, uomo storico, fortemente impegnato nel suo presente, in quell'anno 735 non sapeva di annunciare un evento grandioso che sarebbe avvenuto centinaia di anni dopo; lui non lo sapeva; ma, pur utilizzando un linguaggio letterario dell’epoca, egli parlava a nome di Dio. In altre parole Isaia, quando scrive, non sa che valore abbia quello che dice; ma Dio, che lo ispira, sì; è per questo che il testo sacro finale presenta una gamma di significati e di interpretazioni molto più ampi ed estesi di quanto l’autore materiale fosse in grado di capire. Qui sta l’evento meraviglioso: il testo biblico è portatore di una verità ispirata da Dio che va al di là della consapevolezza e della comprensione dell’autore stesso.
Noi, quando ci accostiamo al testo sacro, è proprio questa meravigliosa realtà che dobbiamo tenere sempre presente: dobbiamo cioè passare da Gesù alle Scritture, e dalle Scritture ritornare a Gesù; solo così capiremo a fondo questi due elementi, Gesù e le Scritture; solo così scopriremo anche noi nelle parole di Isaia, l’autentico messaggio, la sua “buona notizia”, che ci parla sì di fede, di fiducia, di garanzia di un Dio presente allora, ma soprattutto di un Dio che continua ad essere anche per noi l’Emmanuele, il “Dio con noi”.
Del resto, il figlio del re Achaz, ai tempi di Isaia, non fu chiamato Emmanuele, ma Ezechia; e neppure il Messia fu chiamato con questo nome, ma Gesù. Tuttavia Matteo, con grande finezza, alla fine del suo vangelo, ci fa notare che l'autentica realizzazione di questa profezia, a parte il concepimento verginale di Maria, si ha nel momento stesso in cui Gesù dice ai suoi discepoli, dopo la risurrezione, mentre appare loro sul monte, «andate in tutto il mondo, fate discepoli tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo insegnando a conservare tutto quello che io vi ho insegnato». È in questo modo che Dio perpetua la sua presenza tra noi nei secoli: «Ecco, io sono con voi (l’Emmanuele) tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). L'Emmanuele è lì. In quel “Dio con noi” c’è infatti la persona del Risorto che ci garantisce la sua continua presenza e assistenza; l’Emmanuele è lui. Allora amiamolo, ricordiamo con gioia, tra qualche giorno, la sua nascita terrena a Betlemme; e soprattutto confidiamo in Lui. Sempre. Amen.
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