giovedì 23 maggio 2024

26 Maggio 2024 – LA SANTISSIMA TRINITÀ


Mt 28, 16-20 
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Oggi la Chiesa celebra la festa della SS.ma Trinità. Un titolo che non esiste nei Vangeli; un concetto teologico sconosciuto agli apostoli; essi annunciavano soltanto la loro grande verità: “Quello che è stato crocifisso, Gesù, non è morto, ma è vivo; noi lo abbiamo veduto, lo abbiamo incontrato, e ora lo sentiamo dentro di noi”. Punto. Questa era la loro fondamentale testimonianza: e per la Chiesa nascente ciò bastava. 
Col passare degli anni però i primi cristiani cominciarono a chiedersi qualcosa di più sulla persona di Gesù: “Cosa vuol dire che Gesù è Figlio di Dio?”. E poi: “In che modo Gesù è il Figlio di Dio?”. E ancora: “Chi è Dio?”.
Per noi la vita Trinitaria è una verità raggiunta e ben definita, ma all’inizio non fu affatto così.
Solo nel 325 il primo Concilio Ecumenico, tenutosi a Nicea, stabilì che “il Padre e il Figlio sono della stessa sostanza”, usando per “sostanza” il temine greco “homousios”: che significa esattamente “identici” tra di loro, sia per la “natura” che per la “sostanza”. 
Più tardi, contro la corrente del macedonianismo (nome derivato dal suo fondatore il vescovo Macedonio di Costantinopoli), secondo cui lo Spirito Santo non era la terza persona della Trinità, non era di pari dignità e divinità del Padre e del Figlio, ma subordinato a loro, il primo concilio Ecumenico di Costantinopoli del 381, decretò che anche lo Spirito Santo è ugualmente “homousios”, cioè “consustanziale”, al Padre e al Figlio. 
Colui però che chiarì il mistero della Trinità in maniera chiara, accessibile a tutti, fu Sant’Agostino, che nel suo “De Trinitate” spiegò: “il Padre è Colui che ama (Amans); il Figlio è l’Amato (Amatus); lo Spirito è l’Amore (Amor) che Padre e Figlio nutrono tra loro”. 
Le tre Persone divine sono realmente distinte tra loro. Dio è unico ma non “solitario”: Padre, Figlio e Spirito Santo non sono semplicemente dei nomi che indicano modalità diverse dell'Essere divino, ma sono tre realtà veramente distinte tra loro: “Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio”, dichiara il Symbolum dell’undicesimo Concilio di Toledo (anno 675); sono distinti tra loro per le loro relazioni di origine, come il quarto Concilio Lateranense (anno 1215), sancisce in maniera chiara e definitiva: “È il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede”. 
Tre persone divine, dunque, che tra loro non sono autonome, indipendenti, statiche, bensì dinamiche, sono cioè in assoluta, continua, relazione tra loro: una simbiosi, una compenetrazione reciproca di amore che tutto crea, tutto redime e santifica, definita dal Concilio con il termine particolare di “pericorèsi”, dal greco “perì-kōrèin” cioè letteralmente, “andare, girare intorno, ruotare, accomodarsi, danzare”. Una Trinità - Padre, Figlio, Spirito Santo – che in pratica è Vita, Relazione, Divenire, Amore: un Darsi e Riceversi continuo, persistente, eterno. Una verità che, per noi, non è sicuramente facile da capire e da spiegare. 
Possiamo invece trarre più agevolmente - dall’unione reciproca delle tre persone (ipòstasi) nell’unico Dio - una prima grande verità: che la nostra vita, il creato intero, qualunque cosa ci accada, è tutto costantemente collegato al Padre Creatore attraverso il Figlio; tutto è interconnesso, comunicante col divino, grazie all’Amore Assoluto (Gv 17,11); per cui tutto ciò che ci riguarda è essenzialmente “trinitario”, in quanto nulla può esistere “al di fuori” di questo Amore, al di fuori di questa palpitante, esclusiva, “relazione” divina. 
Una realtà che ci tocca in maniera particolarissima, poiché tutti indistintamente cerchiamo amore, tutti vogliamo essere amati, tutti “sorretti” dall’amore. Dio solo, però, è in grado di saziare questa nostra fame di felicità: è Lui l’unica forza che ci sostiene nelle difficoltà, Lui il calore che ci riscalda l’anima, il medico che ci guarisce le ferite, la guida che ci accompagna lungo il difficile percorso della vita; è Lui quell’energia soprannaturale che ci infonde coraggio, potenza, entusiasmo, fedeltà; il suo amore, insomma, è un sentimento unico, di grande dolcezza, di comprensione, di garbo; un amore di forza, di chiarezza, di determinazione; un amore, soprattutto, intimo, discreto, personale, che non si impone, che non pretende nulla in cambio, e che pertanto non fa paura, non terrorizza, non manipola nessuno. 
Egli, infatti, per mezzo del Figlio, continua ad avvicinare i più deboli, i più derelitti, i più indegni, i peccatori più incalliti, sussurrando a ciascuno: “Sono qui per amarti: ti va di seguirmi, aprendomi il tuo cuore?”. Nessuna “costrizione: non butta giù le porte; sa benissimo che la paura di aprirgli il nostro cuore, di abbandonarci a Lui, di lasciarci amare, ci immobilizza, ci fa sentire indegni; ma Lui, con la sua voce silenziosa e suadente: “Non preoccuparti se non sei ancora pronto ad amarmi, io aspetterò: non rinuncerò mai ad amare proprio te. Qualunque errore, qualunque delitto tu abbia commesso, io continuerò sempre ad amarti!”. Parole che, in qualunque situazione ci troviamo, aprono ad una prospettiva di bontà e di amore, che merita immediatamente, da parte nostra, una risposta valida e adeguata. Amen.

 

giovedì 16 maggio 2024

19 Maggio 2024 – DOMENICA DI PENTECOSTE


Gv 15, 26-27; 16, 12-15 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Pentecoste deriva dal greco “pentekosté heméra”, che significa “cinquantesimo [giorno]”; è la festa che si celebra appunto cinquanta giorni dopo la Pasqua. Per gli antichi cinquanta era il numero della pienezza di un tempo: Pentecoste, il cinquantesimo giorno, indica infatti che un tempo è finito: è il tempo vissuto dal Gesù terreno, il tempo dei suoi insegnamenti, delle sue apparizioni, e apre un nuovo tempo, il tempo dell’uomo, della Chiesa e dello Spirito.
Ma cosa è successo negli ultimi giorni di quel tempo a Gerusalemme? Gesù è morto e gli apostoli ancora impreparati sono presi dalla paura: “Che accadrà adesso? La nostra guida, il nostro capo, se n’è andato, è stato ucciso; cosa ne sarà di noi?” Per loro è un momento di crisi profonda, radicale, decisiva. Improvvisamente, però, come aveva promesso Gesù, i cieli si aprono su di loro e lo Spirito di Dio scende su di loro, invade i loro cuori, trasforma radicalmente la loro vita.
Quante volte ci troviamo anche noi in situazioni di grande tensione, di malessere interiore: all’esterno tutto sembra andare per il meglio: viviamo tranquillamente la nostra vita, abbiamo il lavoro, la salute, una famiglia che ci ama, tanti amici che ci stimano; nonostante ciò, nel nostro intimo, siamo spenti, procediamo meccanicamente, per forza d’inerzia: andiamo in chiesa, rispettiamo le regole, siamo generosi, ma non c’è slancio nella nostra fede, non c’è passione; se parliamo dell’amore di Dio sembriamo degli stanchi e indifferenti precettori non degli innamorati, perché? Anche se all’esterno veniamo rispettati, tutti ci considerano dei bravi cristiani, dentro di noi non ci piacciamo, siamo insoddisfatti, ci rendiamo conto che non è esattamente questa la vita che dovremmo vivere. Che fare allora? Come risolvere queste situazioni? Abbandonandoci completamente nelle mani di Dio: Lui sa di chi e di cosa abbiamo bisogno: in questo modo la nostra fede riacquisterà forza e vigore, il suo Spirito trasformerà la nostra mente, il nostro cuore, la nostra anima: Lui prenderà in mano la nostra vita. Sarà insomma la nostra Pentecoste.
Un evento, la Pentecoste, che ha marchiato intimamente gli apostoli, li ha trasformati in altre persone, completamente “nuove”, diverse da prima. Da poveri pescatori, che per sopravvivere erano costretti ad un lavoro ingrato, pesante, monotono, frustrante, rinascono improvvisamente come depositari, sostenitori e annunciatori in tutto il mondo, del rivoluzionario messaggio spirituale di Gesù. Da una totale, quasi infantile, dipendenza da Lui, passano ad una totale autonomia, alla loro piena libertà di pensiero. Parlano una lingua “altra”, sconosciuta, che però tutti, nonostante la diversità dei rispettivi idiomi, capiscono perfettamente; ogni timore, ogni dubbio, ogni incertezza, ogni debolezza, scompaiono all’istante; lo Spirito di Dio scende in loro e satura la loro anima.
Prima, Gesù era “fuori” di loro: il loro era un rapporto puramente esteriore, passavano cioè le giornate insieme, mangiavano insieme, parlavano con Lui. Ora, quel Gesù, morto e risorto, è “dentro di loro”, sentono, forte e chiara, la presenza del suo Spirito. Mentre prima vivevano nella paura di perderlo, ora sanno benissimo che nessuno potrà mai toglierlo dalla loro vita.
Ecco, la Pentecoste dovrebbe produrre anche in noi un deciso salto di qualità: un salto che, da come siamo ora, freddi, insignificanti, insapori, ci trasformi in persone appassionate, entusiaste, animate da un fuoco interiore: in persone che vivono una nuova vita con Dio, condividendo con Lui una personale, profonda, intimità.
Se non ci apriamo, se non accogliamo lo Spirito di Dio, la nostra vita continuerà a trascinarsi nella mediocrità, nella tiepidezza: non potremo “sentire” la sua voce, non potremo parlare con Lui, non apprezzeremo la forza della sua guida; non arriveremo mai a capire che Lui è il nostro tutto, che con Lui dentro di noi, le prospettive del domani, della vita, del mondo, cambieranno radicalmente di aspetto e di valore.
Così, per esempio, nel nostro vivere la Chiesa: senza la nostra Pentecoste, resteremmo superficiali esecutori di “riti” ripetitivi, spesso incompresi; la nostra fede rimarrebbe involuta, non maturerebbe. Al contrario, nella nuova dimensione, Dio non è più una regola, un precetto, una formula; è sempre invece la Persona meravigliosa di cui innamorarsi, una realtà che ci conquista completamente: in particolare è il Padre, modello di libertà, di energia, di coraggio; è lo Spirito santo, che con il suo amore ci incendia l’anima, ci cauterizza le ferite, ci infonde i suoi doni, i suoi carismi: è il Consigliere, l’Avvocato, il Maestro, l’Ispiratore, grazie al quale, finalmente, tutto nella nostra vita acquista autenticità!
Certo, noi crediamo nello Spirito Santo: ma siamo altrettanto certi di conoscerlo veramente? Da cristiani quali ci professiamo, che rapporti concreti intratteniamo con Lui? Se girassimo tale domanda a quanti incontriamo per strada, i più, sicuramente, non saprebbero cosa rispondere. E non sanno rispondere, perché effettivamente non lo conoscono, non ne hanno mai fatto un’esperienza diretta, non lo hanno mai vissuto, godono dei suoi doni senza sapere cosa sono e da dove vengono. Molti pensano che lo Spirito di Dio riguardi solo Lui, che non abbia nulla a che vedere con noi, con la nostra corporeità; al massimo lo considerano un di più, un vago optional, prodotto dalla fertile fantasia religiosa: quindi un qualcosa di cui l’uomo può anche farne a meno. Ma lo Spirito Santo non è un accessorio, non è frutto di una ideologia: è al contrario l’elemento imprescindibile che ci dona la vita, è qualcuno che convive con noi dentro di noi, dal primo istante del nostro concepimento, è colui con il quale, ancorché inconsciamente, condividiamo la nostra essenza di persone razionali; è la “fiamma pilota” che mantiene accesa la nostra debole esistenza, che illumina la nostra coscienza, le nostre scelte, la nostra intelligenza: è insomma la nostra anima, quell’elemento essenziale che presiede alla nostra sopravvivenza corporea, per poi ricongiungersi con l’Altissimo.
Sentiamo spesso nelle prediche la raccomandazione di essere creature “spirituali”, di rispettare lo Spirito che abita in noi: un comportamento che non consiste nel pregare continuamente, senza sosta, nel compiere grandi opere di carità, frequentare quotidianamente la chiesa, partecipare a tutti i pellegrinaggi nei luoghi sacri. “Essere spirituali” significa semplicemente vivere facendoci guidare dallo Spirito di Dio, che non è chissà dove, ma dentro di noi. È il modo cristiano di rapportarci con Dio, di ricambiare il suo amore profondo, di condividerlo con i nostri fratelli, con le persone che ci circondano. Quando i santi guardavano le persone che incontravano, non si fermavano al loro aspetto esteriore, alle loro caratteristiche personali, ma erano affascinati dallo Spirito di Dio che trapelava inconfondibilmente dalla loro corporeità.
Gesù fu per eccellenza l’uomo del vedere oltre l’apparenza esteriore, del guardare dentro, del considerare la realtà “superiore”, divina, dell’essere umano. Questa cosa Lui la chiamava “Regno di Dio”. E lo diceva sempre: “Il regno di Dio non è il paradiso futuro, ma è presente qui, ora, è l’oggi; dipende dai tuoi occhi, da come ti guardi intorno”. Quando infatti egli incontrava i sofferenti, i derelitti, i poveracci, le donne bisognose, persone che tutti evitavano, Lui le abbracciava, le ascoltava, appagava il loro bisogno di amore; vedeva i peccatori e mentre tutti li giudicavano e li condannavano fermandosi all’apparenza (“Siete dei disgraziati lontani da Dio!”), Lui andava “dentro”, sapeva scorgere la luce profonda, la forza interiore, il desiderio di vita, nascosti dentro di loro. Un esempio? Sul Golgota, al suo fianco, era crocifisso un peccatore, un assassino: e mentre tutti vedevano in lui il malfattore, il delinquente, Lui gli disse: “Oggi sarai con me in Paradiso”. Prima di esalare l’ultimo respiro, mentre tutti coloro che lo conoscevano provavano sdegno e rabbia verso i suoi carnefici, Lui al contrario vide in essi la tenue luce dell’anima, soffocata purtroppo dalle tenebre dell’odio: “Padre perdonali perché non sanno quello che fanno”.
Ebbene: noi, suoi moderni discepoli, come ci comportiamo col nostro prossimo? Cosa vediamo in loro? Beh, noi non abbiamo tempo per “guardarlo”: abbiamo un sacco di cose da fare, dobbiamo correre, dobbiamo lavorare, dobbiamo produrre! E questo ci preoccupa, ci assilla continuamente, ci tormenta l’esistenza: siamo sempre insoddisfatti, mai pienamente felici. Non ci accorgiamo che invece di progredire siamo sempre fermi, immobili, sempre allo stesso punto di partenza. Preoccupati solo del materiale, non abbiamo tempo per lo Spirito, per fermarci a guardare la vita alla luce di Dio: questo è il nostro vero problema!
Ci siamo mai chiesto perché nel chiudere le porte, invece di accompagnarle, le sbattiamo? Perché urliamo sempre invece di parlare normalmente? Perché siamo sempre arrabbiati? Perché, se possiamo imbrogliare gli altri, lo facciamo volentieri? Perché nulla più ci commuove? Perché non c’è mai luce e serenità nel nostro volto? Perché non sappiamo più esprimere sentimenti nobili? Perché non sappiamo più dire neppure “grazie”? Per un motivo molto semplice: perché da “Spirito” che eravamo, ci siamo trasformati in “materia”.
Da cosa ce ne accorgiamo? Semplice: siamo, per esempio, “materia” quando, all’inizio del nuovo giorno, ci preoccupiamo di organizzare soltanto gli impegni di lavoro, le opportunità di guadagno; siamo invece “spirito” quando consideriamo quel giorno un’ulteriore opportunità offertaci da Dio per riservare amore a Lui e al prossimo; siamo “materia” quando ci irritiamo per qualunque cosa, siamo “spirito” quando ci chiediamo cosa non funziona in noi e cerchiamo di migliorarci; siamo “materia” quando ammiriamo nella donna il solo fascino esteriore, siamo “spirito” quando vediamo in lei la bellezza della sua anima e della sua dignità materna; siamo “materia” quando respiriamo e basta (avviene in automatico), siamo “spirito” quando sentiamo che il respiro, è vita, è dono, è la “ruah”, il soffio creatore di Dio. L’intera nostra vita, pertanto, può essere sempre terribilmente materiale o meravigliosamente spirituale, piena di buio deprimente o di luce esaltante: renderla divina, appassionata, entusiasmante, dipende solo ed esclusivamente da noi, dai nostri occhi, dal nostro cuore, dalla nostra anima.
Questo è il motivo per cui ci serve veramente la Pentecoste: ben venga quello Spirito che mette in crisi la nostra indifferenza; uno scossone dirompente che finalmente distrugga i nostri nascondigli, le nostre becere scusanti, che ci costringa ad abbandonare i nostri cenacoli di paura, la nostra materialità. Quello Spirito di Dio che ci faccia camminare a testa alta sulle vie della vita, incuranti del mondo, impassibili di fronte alle sue insidiose e inutili lusinghe, raggianti nel volto, illuminati dal calore del Suo amore. Amen.

 

  

mercoledì 8 maggio 2024

12 Maggio 2024 - ASCENSIONE DEL SIGNORE


Mc 16,15-20 
In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato. Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano. 

L’evangelista Marco, nel brano evangelico di oggi, descrive l’ultima apparizione di Gesù ai discepoli durante la quale consegna loro le sue ultime volontà, prima di essere “elevato in cielo” e di sedersi “alla destra di Dio”. Sono raccomandazioni che rivestono una particolare importanza, poiché suonano come un vero e proprio passaggio di consegne: Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura”. In pratica dice: “Io me ne vado, non sarò più qui; non parlerò più di persona, non farò più nulla direttamente, ma voi rimarrete, ed io continuerò ad esserci per mezzo vostro”. 
Lui dunque non ci sarà più, per questo si affida ai suoi discepoli: saranno loro i nuovi Gesù; saranno loro che continueranno a divulgare nel mondo la sua “buona notizia”, il suo “euanghelion”, il vangelo. 
Tutti infatti devono riceverla, tutti devono conoscere la bontà, la novità, l’apertura, l’universalità della sua missione e dei suoi insegnamenti. 
Ma, in pratica, cosa ha detto, cosa ha fatto Gesù di così tanto importante, nel suo peregrinare per le strade della Palestina? L’opposto di quanto facevano i capi religiosi di allora: perché, mentre questi discriminavano stabilendo: “Questo popolo sì, questo è il popolo prescelto da Dio, quello buono, gli altri no; gli altri sono infedeli, cattivi; questi sono degni, quelli no; questi saranno premiati perché puri, quelli condannati perché impuri (donne, peccatori, pubblicani, lebbrosi, ecc.)”; Gesù al contrario diceva: “Io accolgo tutti, non ho preferenze, non guardo alla presenza, all’importanza, alla cultura, alla simpatia: io guardo il cuore. Vado da chiunque, perché il mio messaggio introduce in una nuova vita, fatta di amore, di pace, di verità: proprio per questo il mio messaggio deve arrivare a tutti, perché tutti lo devono conoscere. Ognuno poi è libero di accoglierlo e di praticarlo; non importa cosa deciderà: l’importante è che tutti sappiano che con me possono vivere nell’amicizia vera, nell’amore, nella pace, con me e con mio Padre”. 
Il Dio di Gesù quindi non si pone come una esclusiva di alcuni privilegiati, Dio è di tutti, ama tutti, credenti e increduli, vicini e lontani, buoni e cattivi, giusti e ingiusti. Dio non è monopolio di alcuni: neppure della Chiesa cattolica: perché è la Chiesa cattolica che appartiene a Dio, non viceversa! Nessuno può dire: “Io conosco già tutto di Dio, e questo mi basta”; al contrario deve dire: “Io voglio seguire, vivere, praticare fino in fondo, tutto quello che conosco di Dio”. 
Le catechesi, le predicazioni, la pastorale, non devono aggiungere nulla di più del vangelo, non devono inventarsi nulla di nuovo, cercando di aggiornarlo alle mentalità moderne; devono soltanto risvegliare, far emergere, far risplendere quel Dio che nella sua grandezza, nella sua potenza, nel suo amore infinito, vive già in ogni persona a cui è destinato. 
Tutti abbiamo ricevuto con la nascita il dono di avere Dio in noi, il suo Spirito di vita (siamo tutti sue creature!). Ognuno poi potrà stabilire con Lui un rapporto unico, riservato, intimo, dal quale gli deriveranno doni, carismi, attitudini, capacità strettamente personali, diversi per quantità e qualità rispetto agli altri. Sbaglia quindi chi nel far catechesi pretende di far conoscere Dio, imponendo la propria personale esperienza con Lui: Dio non è una formula, ancorché sacra, non é una raccolta di preghiere, non è un codice comportamentale: Dio è una presenza viva, è un Padre che ama i suoi figli. Educare gli altri ad amarlo, pertanto, vuol dire semplicemente aiutarli a scoprire la Sua presenza in loro, a stabilire con Lui un colloquio, una relazione di reciproca, profonda amicizia. 
Gesù dunque, ventun secoli fa, ha vissuto un tempo storico di circa trentatré anni; poi è tornato in cielo (Ascensione): il tempo della sua storia umana termina qui: da quel momento inizia il “Tempo della Chiesa”, inizia la “nostra” storia. Ora tocca a noi continuare la sua opera: siamo noi le sue mani, i suoi piedi, le sue labbra. Un compito arduo, per assolvere il quale abbiamo però la certezza di non essere mai soli: tutto ciò che faremo, lo faremo in “collaborazione”, in stretta unione con Lui: Marco conclude il suo vangelo, sottolineando a chiare lettere che ogni nostra iniziativa deve essere “condivisa”, deve essere affrontata e realizzata in stretta collaborazione con Gesù: dobbiamo cioè “operare insieme” (16,20); “synerguntos”, dice il testo greco; un termine che già dalla sua pronuncia fa capire l’indissolubilità del legame che deve esistere tra il mandante (Gesù) e gli esecutori del “progetto Chiesa” (noi). 
Nostro compito, allora, non è quello di essere indipendenti, di agire autonomamente come se la “Chiesa” fosse stata pensata e ideata da noi: noi non conosciamo nulla, non capiamo i “calcoli” del Progettista: siamo dei poveri operai che, in “sinergia” con l’Alto Direttore dei lavori, dobbiamo semplicemente assicurargli il nostro impegno per la perfetta realizzazione della sua Opera. Nient’altro. Eppure, talvolta ci capita di esclamare: “Ma tu Signore, perché non sei più chiaro e deciso quando parli? Perché di fronte alla dilagante accozzaglia di idee improponibili, di fronte al disinteresse, alla inettitudine, all’incostanza, alla pigrizia, al doppiogiochismo, all’infedeltà dei tuoi rappresentanti, dei tuoi operai, porti pazienza, non fai nulla, non reagisci? Perché non intervieni tu in prima persona, anche energicamente se vuoi, come hai fatto talvolta quando eri quaggiù? Perché non provvedi tu a sistemare un po’ le cose?”. E magari ci alteriamo anche, dimenticando che ora siamo noi, in prima persona, che dobbiamo farci carico della situazione, siamo noi che dobbiamo preoccuparci, cercare nel nostro piccolo, di porvi rimedio, di cucire gli strappi, di ribadire con l’esempio i suoi insegnamenti, di difendere con fermezza i suoi valori inalienabili. 
È vero che in atto c’è una buona cooperazione tra Dio e noi: solo che è altrettanto vero, che Lui è sempre di parola, puntuale, esegue sempre il suo compito; noi, invece, no: spesso e volentieri svicoliamo! Lui, con pazienza, ci ispira, ci fa coraggio, ci dà la forza, la costanza di insistere: noi invece preferiamo spesso fare di testa nostra, pensiamo di poter fare da soli, senza di Lui, di saperne più di Lui: salvo poi accorgerci, puntualmente, che questi nostri personalismi sono inutili, improduttivi! Il nostro cristianesimo è troppo superficiale, infantile, acerbo: pretendiamo che Dio faccia continuamente miracoli, che ci conceda favori e “grazie” a non finire, che ci risparmi il dolore, la sofferenza, che appiani le difficoltà della vita, che cambi insomma il mondo e i suoi abitanti! Ma siamo solo dei bambini capricciosi che pretendono soltanto, e fanno i capricci se non ottengono immediatamente ciò che chiedono. In realtà siamo cresciuti, siamo grandi, adulti; Gesù perlomeno ci considera tali; e allora comportiamoci di conseguenza, rispondiamo positivamente alle sue aspettative; facciamo cioè in modo che il nostro cristianesimo, la nostra fede, cessino di essere infantili, ma siano da “adulti”. 
“Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato” (16,15). 
Per Gesù la “salvezza” è il risultato del “credere”: significa che, vivendo il vangelo con fede viva e profonda, è possibile raggiungere un’esistenza appagante, appassionata, che esprime gioia, amore, benessere interiore; una vita che ci fa sentire vivi, realizzati, accolti. 
Inoltre quanti arriveranno a credere veramente, saranno dotati di particolari doni, di “segni” straordinari, di carismi, grazie ai quali potranno essere riconosciuti da tutti (16,17): 
“Scacceranno demoni”: nel vangelo i demoni parlano, hanno voce, si danno da fare. Esattamente come fanno anche quelli di oggi: noi, infatti, siamo in balia di schiamazzi alienanti, di opinionisti insopportabili, di urlatori che fanno discorsi senza senso, divulgatori di notizie false, di opinioni e suggerimenti idioti: sono i nostri demoni, i nostri spiriti maligni che, attraverso i “media”, asserviti al demoniaco dio denaro, con il loro incessante bombardamento pubblicitario, con i loro messaggi subliminali, sono un pericolo, un macigno malsano che ci appesantisce, ci ammorba, ci impedisce di volare in alto, ci uccide l’anima. Ebbene, volendo, noi possiamo scacciare tutti questi demoni, queste voci, questi attacchi maligni: possiamo liberarci di tutta questa zavorra che non ci conduce a Dio, ma lontano da lui: è sufficiente zittirli, spegnerli, eliminarli! Basta un semplice “click”! 
“Parleranno nuove lingue”: normalmente di cosa parla oggi la gente, cosa ci propongono le migliaia di canali informativi che ci sovrastano? Parlano di gossip, scandali, omicidi, violenze, di delinquenti, di gioventù bruciata; ogni giorno un vagone di notizie tragiche, nefaste, ossessive, miste a “chiacchiere” inutili, insinuazioni ripugnanti, discorsi fatui, spersonalizzati, senz’anima. La gente, parlando, crede di comunicare, di esprimersi; ma non fa altro che moltiplicare linguaggi incomprensibili! 
Quali sono allora le lingue nuove che potremo parlare? 
È la lingua del silenzio, del tapparsi la bocca, dell’ascoltare: “Se la gente si ascoltasse di più, parlerebbe decisamente di meno” diceva l’umorista Arthur Bloch. Ed è vero: non si apprezzerà mai abbastanza il valore di “Sto in silenzio e ascolto: che cosa? le parole dell’anima, del cuore, della coscienza, di Dio. Ascolto il respiro della vita, il mutarsi della natura; il cinguettio degli uccelli, il sibilo del vento, la risacca del mare. 
È la lingua degli occhi: fermiamoci una buona volta, guardiamo, scrutiamo gli occhi di chi ci parla. Perché gli occhi sono lo specchio dell’anima, e l’anima ha sempre tante cose da dirci, da insegnarci, molto più delle parole. Impariamo a dar loro voce e autorità.
Parleremo
la lingua del cuore, la lingua dell’anima: parlarsi intimamente, esprimere le proprie emozioni, le proprie paure, i propri bisogni, i propri desideri; piangere di gioia, commuoversi, stupirsi, meravigliarsi, essere insomma felici. Le persone neppure immaginano quante vibrazioni, quanta vita, quanta energia, quanta forza, possiamo trarre dal parlare queste nuove lingue, che non dipendono dalle “parole”, ma dalle intime effusioni dell’anima. 
Allora diventeremo "altri": Prenderete in mano i serpenti”: il serpente è pericoloso, a volte mortale. Noi lo evitiamo, perché è viscido, fa ribrezzo, paura. Ma Gesù ci rassicura. “Con me puoi tutto!”. Prendiamoli allora in mano questi serpenti particolari che ci insidiano: non crediamo più in nulla? non andiamo più in chiesa? ci siamo stancati di sentire sempre le stesse prediche? i preti non ci trasmettono più nulla? abbiamo perso la stima e la fiducia nel nostro prossimo, nei colleghi, nei parenti, negli amici? la loro presenza è diventata insopportabile? Fermiamoci: affrontiamo la questione, prendiamo in mano un problema alla volta, il nostro serpente di turno: analizziamo la nostra fede, la nostra carità, la nostra coerenza; svegliamoci dal nostro torpore, scuotiamoci dalle nostre paure; chiediamo a Dio nuova forza, nuovo vigore, nuovo entusiasmo. Perché tirare avanti fingendo che tutto vada bene? Siamo convinti che un richiamo, un rimprovero, una paternale, nei confronti di qualcuno, arrogante e ribelle, sia utile e necessaria? Facciamola! Cosa aspettiamo? "Pugno di ferro in guanto di velluto", insegnavano i santi Padri. Comportiamoci anche noi come ha fatto e come ci ha insegnato Gesù: se usiamo la Sua carità, il Suo amore, se operiamo in sinergia con Lui, troveremo sicuramente la forza, il modo giusto e indolore per rendere inoffensivo qualunque serpente velenoso! Amen. 

 

  

venerdì 3 maggio 2024

05 Maggio 2024 – VI DOMENICA DI PASQUA


Gv 15,9-17 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Dio ci ama gratuitamente, illimitatamente, al di là di tutto. Lui non ci chiede di essere innocenti, puri, giusti, buoni; ci chiede soltanto di lasciarci amare, perché il suo è un amore gratuito, un amore immeritato: è l’amore di Dio. Esattamente il contrario dell’amore degli uomini che è interessato, condizionato, egoistico. L’amore degli uomini è legato a determinate condizioni, che si possono accettare o rifiutare. Ma l’amore di Dio no, l’amore di Dio è incondizionato, assolutamente gratuito, irrinunciabile; Egli ci ha amati e ci ama da sempre, da prima del nostro concepimento. Pertanto tutti noi abbiamo un debito enorme di amore e di riconoscenza con Lui; e se non possiamo fare nulla per il passato, facciamolo almeno nel presente e per il futuro, ricambiamo cioè questo suo amore, cercando di ri-amare, Lui e il nostro prossimo, con un amore almeno “simile” al suo. 
È questo il comportamento concreto che ci chiede Gesù. Non gradisce gli scarti, non le mezze misure, non i ritagli di tempo, “tanto per…”, ma il meglio in assoluto, il tutto. Con tutti. Ogni giorno. Dovunque. 
Perché? perché l'amore vero nasce da Dio, l'amore è Dio stesso; e se vogliamo che Dio sia presente in noi, sia presente intorno a noi, dove viviamo, dove lavoriamo, dove preghiamo, dove ci muoviamo, dobbiamo semplicemente amare come ama Lui. Le chiese, le pratiche di pietà, le attività pastorali, i gruppi parrocchiali, servono e acquistano valore, soltanto se sono un mezzo per praticare questo amore “speciale”. Se al contrario sono occasioni per esibirci, per coltivare il nostro orgoglio, i nostri personalismi, se si riducono a centri di pettegolezzi, di maldicenze, di critiche, di cattivi esempi, diamoci un taglio: facciamo una bella pulizia, rovesciamo (come ha fatto Gesù all’ingresso del Tempio) qualche bel tavolino, fosse pure quello della “Caritas”, con i suoi “fedeli” gestori! Dobbiamo aver sempre presente che il “volontariato” è un corollario dell’amore, un veicolo dell’amore, ma non è in alcun modo l’amore: soltanto noi, unicamente noi, possiamo e dobbiamo trasformarlo in amore! 
Poi Gesù dice: “Se osserverete i miei comandamenti…”. Quali comandamenti? Allude ai dieci comandamenti? Perché in Giovanni non troviamo nessuna lista di suoi “comandamenti”. E anche negli altri vangeli, quando Gesù invita a “osservare” qualcosa, non intende certo i “Dieci Comandamenti”, semmai le Otto Beatitudini.
Così quando sentiamo parlare di “comandamento” dell’amore, noi pensiamo subito alle parole: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. E pensiamo che per Gesù fosse proprio questo.
Ma non è così. Questa era la spiegazione data dalla spiritualità ebraica, dai primi cristiani provenienti dall’ebraismo, ma non da Gesù; per loro oltretutto era un comandamento abbastanza ovvio, in quanto, per un ebreo, il “prossimo” non erano tutti gli “altri”, ma solo gli altri ebrei. Gesù lo spiega più avanti cosa intende: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”; l’allusione alla lavanda dei piedi è chiara: dobbiamo essere cioè al servizio di tutti, con amore e umiltà! 
Proprio a questo proposito Gesù (Gv 13,34) dice: “Vi do un comandamento nuovo (kainèn)”.
Ora, “nuovo” in greco si può dire in due modi: “neòs” se usato in senso “numerico” (mi hanno regalato una nuova penna; ora ne ho due); oppure “kainòs” se usato in senso “qualitativo”, cioè una “novità!” (mi hanno regalato un computer, una novità rispetto ai pc di prima); la “novità” sta sul superiore livello del dono, un dono cioè di tutt’altro valore. 
Nel nostro caso, infatti, gli ebrei avevano già i Dieci Comandamenti e Gesù non intende dar loro un undicesimo (neòs). Avevano già 613 regole da seguire, bastavano quelle, erano più che sufficienti! Gesù non aggiunge un’altra regola: anzi le riduce tutte ad una, dà cioè un’unica regola, ma totalmente nuova (kainòs): un comandamento che è tutta un’altra cosa, un comandamento che sta su un altro piano, che sostituisce tutti quelli che c’erano prima.
Gesù, in pratica, dice semplicemente di amare, ma di farlo con un amore “nuovo”, un amore diverso rispetto agli amori di prima, un amore che produce soltanto gioia: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. Non a caso la parola “amore” (kàris) deriva dalla radice “karà” che significa appunto gioia, festa, godere. 
Questa è la novità importante, fondamentale, che lo rende unico: l’amore, per essere come quello di Dio, deve produrre gioia, allegria, felicità; se il nostro amore non produce questi sentimenti in noi e nelle persone che “diciamo” di amare, allora dobbiamo porci seriamente delle domande, dobbiamo esaminarci in profondità. L’essere nella gioia, non vuol dire provare la stessa gioia di quando tutto ci va bene, di quando siamo fortunati. La gioia dell’amore è diversa, è un’altra cosa: è quel sentimento profondo, intimo, rassicurante, che tranquillizza, che fa sentire a proprio agio, a posto, che fa sentire di essere amati, che assicura sulla bontà dei propri progetti, sulla strada che si sta percorrendo, che in questo mondo si sta facendo qualcosa di buono, di importante, un qualcosa che crea sensazioni di vitalità, di gioia interiore, di libertà. 
Si può amare il Signore ed essere sempre seri, tristi, affranti, immusoniti? Se non dimostriamo mai i segni della gioia, dell’amore, che sono appunto il sorriso, la serenità, la generosità, la pace, ecc., dobbiamo cominciare a preoccuparci seriamente sulla fondatezza delle nostre condizioni! Forse, tutto sommato, non siamo ancora veramente convinti che Dio ci ama: perché Dio è gioia, è felicità, è apertura, entusiasmo! Se siamo certi che Lui ci ama, come possiamo vivere sempre nella tristezza, nella malinconia, nel disappunto, dimostrando a tutti il contrario? 
E continuando la sua lezione sull’amore, Gesù dice: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Un’affermazione che è stata in passato, e lo è ancora oggi, travisata, distorta, incompresa; un’iperbole difficilmente attuabile: il “dare la vita”, infatti, equivarrebbe a “morire” per gli altri: in altre parole uno per amare veramente gli altri, dovrebbe rinunciare alla propria vita, sacrificarsi fino alla fine ultima, rinunciare alla propria esistenza materiale; per cui il darsi agli altri, senza “morire”, sarebbe un darsi non evangelico, non in linea con l’amore di Gesù che ha sacrificato la sua vita sulla croce per amore nostro; sarebbe un darsi incompleto, un darsi limitato, un vivere in maniera incompleta il “comandamento nuovo” di Gesù.
Ma non è questo il significato: Dio non ci impone eroismi, non vuole che rinunciamo al grande dono della vita che lui stesso ci ha dato, non intende martirizzarci: lo accetta solo da poche persone, dai santi, e anche da loro, in particolari casi, in rare occasioni. La nostra santità passa invece attraverso gli eroismi della “normalità”. Attraverso un donare quella “vita” che coincide con il nostro essere spirituale, con la nostra anima, con i nostri sentimenti d’amore.
Il vangelo di Giovanni è chiaro: quando egli scrive dare la “vita”, non usa la parola “zoé” che indica la vita che è in noi, per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), oppure “bìos” che allude al modo in cui noi viviamo la nostra vita (quam vivimus); usa invece il termine “psyché”, che nella lingua greca del Nuovo Testamento significa appunto “anima, respiro, soffio vitale, sentimento”. 
Questa è dunque la vita che dobbiamo dare ai nostri amici: è la nostra anima, ciò che abbiamo dentro, quello che siamo nel nostro intimo, il nostro essere spirituale. Dare la vita materiale, quella esteriore, non serve. Neppure quando parliamo di figli. Il dono più grande per un figlio non è assicurargli una vita al top: non sono i soldi, né il cognome famoso, né i beni, né un’adeguata posizione sociale; il vero dono è mettergli a disposizione totale tutto ciò che noi siamo e abbiamo dentro, la nostra parte più vera, più profonda, è dargli la nostra anima, il nostro amore, i nostri slanci, le nostre convinzioni, i nostri ideali. 
Se noi, da parte nostra, non abbiamo nessuna vitalità, nessun entusiasmo, nessun ideale, nessun valore radicato; se non abbiamo nessuna sicurezza, nessuna fede, nessuna apertura, che tipo di “vita” potremo mai “sacrificare”, quale “vita” potremo mai donare ai nostri cari, agli altri, al prossimo? 
Succede a volte che marito e moglie, insieme da molti anni, durante la loro vita in comune si siano regalati di tutto: corpo, tempo, benessere, preziosi, ville, ma non si siano mai fatto dono della loro “anima”. Ebbene: pur vivendo sotto lo stesso tetto, essi continuano ad essere tra loro degli estranei. Se non si fanno dono reciproco della loro psyché, del loro “spirito”, del loro “sentire” più intimo e riservato, tra i due non c’è una vera complicità spirituale, non arriveranno mai a condividere la loro fragilità, la loro vulnerabilità, le loro paure, i loro sogni segreti. Tra i due non c’è alcuna complicità interiore. Ecco perché, prima o poi, le coppie inesorabilmente scoppiano: non perché non si amano più, ma perché non sanno amarsi in questo unico modo. Non conoscono l’essenza del vero amore, l’amore con cui Dio li ama entrambi, e non sanno condividere e convivere questo amore. “Stanno insieme” perché fanno tante cose in comune, abitano nella stessa casa, hanno gli stessi interessi: ma se tra loro non c’è questa simbiosi interiore, non c’è questo incontro, questa fusione di anime, il loro non è “psychéin”, non è “dare la propria vita per l’altro”, non è “vivere insieme un’unica vita”, non è la “fusione dell’essere”, il respirare insieme, il sentire insieme, il pensare all’unisono. In altre parole non si amano “come io ho amato voi”, non si amano cioè con lo stesso amore di Dio. Amen.

 

 

giovedì 25 aprile 2024

28 Aprile 2024 – V DOMENICA DI PASQUA


Gv 15,1-8 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da sé stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di commiato (Gv cc. 13-16), che Gesù ha rivolto ai discepoli prima di essere arrestato dai suoi carnefici. Siamo durante l’ultima cena: Egli apre completamente il suo cuore, rivelando, con profonda emozione, tutto il suo amore per loro: parla di sé, della sua “ora” ormai “arrivata”, di ciò che l’aspetta, del suo domani di passione; parla delle loro preoccupazioni, di ciò che anch’essi dovranno affrontare nel futuro, dell’amore e dell’odio che il mondo riserverà loro. E per spiegare in maniera più comprensibile la sua missione di salvezza, il suo ruolo di guida, la sua leadership permanente, ricorre all’immagine, allora comune, del vignaiolo, della vigna incolta, della vite fertile e dei suoi tralci fruttuosi; un simbolismo molto noto al popolo, in quanto lo stesso Israele, nella Scrittura, era equiparato ad una vigna, di cui Jahweh stesso ne curava la manutenzione; molto celebre, per esempio, è il passo di Isaia, in cui Dio, amareggiato, si lamenta della infedeltà del suo popolo: “la vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi” (Is 5,1-24). Nel Cantico dei Cantici, la sposa (Dio) invita lo sposo (il popolo) nella “vigna”, ritenuta il luogo dell’amore, dell’incontro, della felicità, della gioia. Così il “vino”, ottenuto dal frutto della vite, era simbolo di benessere interiore, di appagamento delle aspirazioni più profonde, di ebbrezza, di stordimento spirituale, di intensa percezione della bellezza del vivere; a Cana, infatti, quando durante il banchetto nuziale viene a mancare il vino, la festa rischia improvvisamente di guastarsi; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando per tutti vino a volontà, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo, più di prima. 
Se i tralci non producono uva, se in essi non è avvenuto alcun passaggio di linfa vitale, se non producono più il loro frutto, elemento fondamentale per la felicità, per il benessere dell’uomo, vuol dire che sono secchi, privi di vita, e quindi destinati ad essere tagliati e buttati al fuoco.
È dunque in questi termini che Gesù spiega ai suoi che se vogliono ottenere dei risultati nella loro missione, devono sempre rimanere uniti a Lui, esattamente come avviene in natura tra la vite e i suoi tralci: il tralcio, strutturalmente distinto dal fusto della vite, è comunque parte di essa, ne è la sua propaggine, e solo se rimane unito ad essa può portare frutto: il fusto quindi è la vita per il tralcio, è il suo nutrimento, la sua forza, il suo tutto. Vite e tralcio formano pertanto un tutt’uno inseparabile, per il benessere degli altri.
Purtroppo, in questa nostra società, ricca di “tralci” umani completamente diversi, piuttosto che una fraterna collaborazione al bene comune, vige una radicale, errata, controproducente concorrenza: ognuno, sopravalutando se stesso, è convinto che nessuno possa superarlo, che nessuno sia “più” di lui, non accetta “superiorità” di alcun genere; gli dà fastidio cioè che nella vita, gli altri esprimano meglio di lui le loro potenzialità, realizzino con maggior successo i loro programmi, diventino insomma quei “tralci unici”, che producono frutto in qualità e quantità per essi irraggiungibili.
Ciò che caratterizza invece qualunque comunità, non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti uguali, possedere tutti le stesse identiche capacità: la superiore qualità del prodotto di una vite non è data dalla quantità di uva prodotta dai singoli tralci, ma dalla sua bontà, dal suo gusto, dalla maturazione succosa dei suoi grappoli, dovuti appunto ad una più capillare circolazione della linfa, alla migliore esposizione ai raggi del sole; in altre parole, riferito a noi, è l’amore, il dialogo, la condivisione, la comprensione, la disponibilità che in una convivenza crea stabilità, serenità, pace, benessere comune.
Molte famiglie, molte comunità, molti “gruppi”, pensano di essere “uniti” solo perché si radunano insieme molto spesso. Ma non è l’incontrarsi di frequente che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è tutt’altra cosa; significa condividere nell’anima, nello spirito, nella vita gli stessi sentimenti, gli stessi ideali; significa “sentire” che gli altri condividono con noi le loro personali e diverse aspirazioni, le particolari necessità dell’anima, esattamente come noi facciamo con loro: l’unione vera, infatti, è data da una vicinanza “sentita”, dalla convivenza di due spiriti assolutamente diversi, liberi e autonomi, non certo da una compresenza fisica.
Noi che siamo i “tralci”, pertanto, non dobbiamo mai staccarci dalla vite, che rappresenta l’unica nostra possibilità di emergere, di sopravvivere; non dobbiamo mai staccarci dalla nostra “vite”, dal nostro “Spirito”, dalla nostra anima; mai arrogarci le prerogative della vite, mai cercare di sopraffare l’altro, perché nell’esatto momento in cui lo facciamo, perdiamo ogni nostra vitalità comune, rinsecchiamo, siamo destinati ad una morte spirituale certa. È la legge della sopravvivenza: il tralcio, staccato dalla vite, inesorabilmente muore. Non esistono alternative.
Gesù dunque si propone come “Vite”, come “Vita” vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto, l’ebbrezza della vita, sono l’elisir della felicità, l’unico vero piacere della vita”. Parole però che lasciano trasparire anche le difficoltà del percorso per giungere a tanto: ogni qualvolta, per esempio, il sacerdote nel celebrare l’Eucaristia pronuncia sul vino, frutto della vite, la formula sacramentale “Questo è il mio calice, versato per voi”, con cui lo transustanzia nel sangue di Cristo, ci ricorda due cose importanti: che il “sangue versato”, oltre che riferirsi alla passione di Gesù, ci mette di fronte alla nostra situazione umana, alle nostre malattie, alle nostre sofferenze; ci ricorda soprattutto, però, che quel “sangue” è Gesù stesso in persona che diventa nostro gusto, nostro sapore, nostra gioia di vivere: è Lui infatti che con la sua presenza dentro di noi, ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura, e soprattutto il suo amore.
Vivere nell’intimità divina, in stretta unione con Gesù, nostra Vite, vuol dire per noi “tralci” segregarci dalle cose futili della quotidianità, rifugiarci nel silenzio della nostra anima, lasciarci inebriare dalla Sua presenza, agevolare in noi la trasfusione della Sua forza, della Sua potenza, del Suo amore.
Chi rimane insensibile a tutto ciò, è a dir poco un rinunciatario, uno che non sa “vivere”, uno che quando piove preferisce stupidamente starsene all’aperto e bagnarsi, piuttosto che entrare in “casa” sua! Come può pensare infatti di entrare in intimità con Dio, chi si rifiuta a priori di entrare in intimità con sé stesso? Per entrare in autentica unione con Lui non basta andare in chiesa e riempirlo di parole, di promesse, di chiacchiere, di preghiere biascicate: bisogna lasciarsi compenetrare dalla sua presenza, in una silenziosa, adorante, disposizione spirituale dell’anima! Sono troppi quelli che purtroppo parlano “a Dio” ma non “con Dio”. Sono troppi quelli che quando sono in chiesa, quando sono davanti a Dio, quando pregano, quando cantano, quando celebrano, non provano più alcuna emozione interiore, nessun trasporto spirituale, nessuno slancio; persone che non si commuovono più di fronte alle parole di Gesù; che non si lasciano coinvolgere in ciò che fanno; che non provano l’ebbrezza del canto o l’intima e preziosa sonorità del silenzio. Persone, insomma, che hanno solo paura di Dio, hanno soggezione di Lui, non vogliono aprirsi; persone che in cambio, nella loro mediocrità, diventano logorroiche, lo subissano di vuote parole, piuttosto che di prove tangibili di amore. Sono troppe le persone che parlano agli altri dell’amore di Dio, che invitano tutti ad amarlo, ma lo fanno soltanto con la voce, con la bocca, perché il loro cuore è arido, insensibile; la loro vita lascia trasparire solo tristezza, amarezza, fallimenti, sconfitte, rimorsi. Non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi, non è questa la felicità che ha pensato per noi: Egli al contrario, per noi, ha creato il sole, le stelle, le bellezze della natura, la vita, il mondo intero; soprattutto ci ha donato il suo amore, perché lo gustassimo, lo assaporassimo, ci saziassimo con esso il cuore e l’anima.
Gesù dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete continuamente, quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo “rimanere in Lui” c’è tutto il segreto della vita felice: poter cioè anticipare, già in questa vita, quella felicità futura che ci è stata promessa per quando lo vedremo “così come egli è” (1Gv 3,2).
I ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono perentoriamente: “Sei connesso o no?”. Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima, sono sempre “connessi” con Lui? Guai a noi se chiudiamo questo contatto, guai a noi se stacchiamo la spina, perché, ci dice oggi Gesù, “senza di me, voi non potete far nulla”: non dimentichiamo mai questa verità, perché Lui è l’unico canale che ci trasmette linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.

 

  

sabato 20 aprile 2024

21 Aprile 2024 – IV DOMENICA DI PASQUA


Gv 10,11-18 
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Giovanni, nel vangelo di oggi, ci presenta Gesù che si definisce “buon pastore”. Non un pastore qualunque, ma “ò poimèn ò kalòs”, come dice il testo greco: “il pastore quello bello, quello buono”.
E si sofferma a descrivere quelle che sono alcune delle caratteristiche particolari di questo pastore buono: non solo guida le pecore, si prende cura di loro, ma le conosce per nome, una per una; le difende dai pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino a quando non le ritrova; le ama talmente, da dare per loro la propria vita.
Un pastore, dunque, decisamente agli antipodi rispetto al mercenario: a colui cioè che lo fa per lavoro, per soldi, per interesse, per guadagno. Al mercenario non interessa il bene delle pecore, ma unicamente il proprio, egli guarda soltanto il proprio tornaconto, a ciò che può guadagnare da esse. Egli non le ama, ma si serve di esse, le utilizza, sono una merce di scambio.
Un po’ come ci comportiamo oggi anche noi “cristiani”, immersi in una società che di cristiano ha ben poco: in una società del benessere in cui ciascuno non dispone mai di un po’ di tempo per pensare concretamente al prossimo, per aiutare i più bisognosi, per prodigarsi a favore dei fratelli più deboli. Siamo circondati da gente che usa e abusa del prossimo: governanti, politici, datori di lavoro, amici, colleghi, noi stessi: siamo tutti indistintamente “pastori” che cercano di trarre dalle “pecore” un utile personale; dimostriamo loro attenzione soltanto se la pensano come noi, se sono mansuete, accomodanti, se ci obbediscono, se non creano problemi, se sono produttive. E poi? Più nulla.
Certamente non siamo dei “buoni” pastori: non nutriamo vero amore, siamo autoritari, presuntuosi, egocentrici, il nostro interesse primario è una smodata affermazione personale.
Quando invece l’intera umanità, noi per primi, sentiamo l’assoluto bisogno di “buoni” pastori: di persone che ci siano vicine, che ci diano fiducia, che ci offrano la certezza dell’accoglienza, di essere benvoluti, amati, ascoltati, al di là di ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone alle quali poter dire: “So che se non mi abbandonerai mai: sia nella buona che nella cattiva sorte, tu sarai sempre con me”. Persone insomma che ci rassicurino, ci tranquillizzino; pastori veri, pastori “buoni”, che trabocchino di carità e regalino amore sull’esempio di Gesù.
Sono questi insomma i pastori che desideriamo costantemente al nostro fianco: in particolare per adeguarci a loro, per imitarli, per immedesimarci in loro; perché anche noi abbiamo il nostro piccolo gregge da accudire: anche noi siamo “pastori”: anzi lo siamo doppiamente, sia nei confronti di noi stessi, che nei confronti dei nostri fratelli.
Siamo pastori di noi stessi, perché raccolte nel recinto della nostra anima, della nostra mente, abbiamo molte “pecore” da accudire: sono le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre aspirazioni, gli ideali della nostra vita, i richiami della nostra coscienza, i nostri propositi, le nostre necessità spirituali. Come dobbiamo comportarci con queste “pecore”? Noi le conosciamo bene, le sentiamo nostre, in genere ci teniamo ad esse. Cerchiamo anche di riservare una maggiore attenzione alle “malate”, a quelle che strada facendo si sono ferite.
Per essere però degli autentici “pastori”, per meritare pienamente il titolo di “buoni”, non dobbiamo mai lasciarci condizionare dall’orgoglio, non dobbiamo mai “pretendere”, essere duri, testardi, esigere da noi stessi l’inarrivabile; al contrario dobbiamo essere umili, riconoscere i nostri errori e porvi immediato rimedio, non smettere mai di “cercarci” quando ci perdiamo, percorrere sempre la strada maestra, quella sicura, per condurre questo nostro “gregge” al recinto sicuro della pace.
Tutto ciò che prende forma nella nostra mente e che vive in noi, ha bisogno di cura, di amore, di protezione, di dedizione; non ogni tanto, ma di continuo, ogni giorno. Raggiungere un controllo maturo delle nostre “pecore”, diventare fedeli, rispettosi dei nostri principi, precettori coscienziosi di noi stessi, richiede tempo, applicazione, costanza. “Quanto ci vorrà?” È la classica domanda che puntualmente ci poniamo nell’affrontare qualcosa di impegnativo: non lo sappiamo; ci vorrà tutto il tempo che ci vorrà! Risolvere tutto velocemente, il più in fretta possibile, significa non affrontare correttamente il problema, equivale a cercare un risultato di comodo, un compromesso, un rimedio, soprattutto una risposta, che potrebbe poi rivelarsi deleteria per la nostra vita.
Quello di condurre, di guidare saggiamente quella miriade di “pecore” che escono quotidianamente dal recinto della nostra mente, è ovviamente un compito invisibile all’esterno, ma non per questo meno fondamentale, poiché si tratta di un “gregge” che inevitabilmente si proietta, si materializza all’esterno.
L’importanza del nostro essere dei “buoni pastori” in questo nostro compito nascosto è infatti strettamente correlato con la nostra seconda identità di pastori, quella che ci impegna all’esterno, che ci qualifica immediatamente per come ci comportiamo nei confronti di un altro nostro gregge, di quelle “pecore” cioè che si identificano come nostro prossimo, nostri fratelli, “pecore” che vivono materialmente la nostra stessa esistenza, che ci stanno sempre vicine, oppure che incontriamo saltuariamente: pecore con le quali dobbiamo relazionarci materialmente, pecore che meritano tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra dedizione: soprattutto, pecore che non dobbiamo “usare”, non dobbiamo “gestire”, non dobbiamo umiliare; pecore che al contrario, proprio nel nostro ruolo di pastori, guide, maestri, genitori, leader, dobbiamo “servire” con la massima attenzione e cura: perché sono tutte “creature” speciali, che Dio ci ha affidato come compagne di percorso: sono insomma quelle “pecore” che costituiscono il nostro “capitale umano”.
A questo proposito, essere in particolare dei “buoni pastori” significa anche non scaricare su di esse i nostri malumori, le nostre manie, le nostre fissazioni, non imporre le nostre vedute; significa non abusare della nostra autorità, non far pesare le nostre richieste; significa non svilirle, non disprezzarle considerandole degli oggetti, degli “utensili” da usare, delle “macchine” a nostro servizio, privandole di ogni loro dignità personale.
Quante “pecore” purtroppo vivono in balia dei capricci dei loro “pastori”! Quante devono fare i conti con la loro aggressività, con la loro violenza, con i loro comportamenti assolutamente negativi, immorali, inumani, che generano dolore, ansia, insicurezza, smarrimento.
Il “buon pastore”, al contrario, trasmette stima, crea serenità, fiducia, gioia; egli crede nelle proprie pecore; è convinto che in ognuna di esse ci siano germogli di bontà: “Io credo in te perché sei importante, sei una creatura di Dio, sento che tu vali”. Per questo egli vuol conoscere personalmente una ad una le proprie pecore: vuole valorizzarle singolarmente, perché nessuna è uguale all’altra: egli sa infatti che dirigerle, guidarle, significa stimolarle, incoraggiarle, spronarle nella loro personale creatività, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse.
Essere “buon pastore”, in una parola, significa amare le proprie pecore. Dove amare, come insegna Gesù, sta per servire: mettersi cioè al servizio delle loro possibilità, delle loro necessità, ponendo in secondo piano la propria volontà. “Servire” non è assolutamente “asservire”, termine simile, ma che significa l’esatto contrario; poiché indica un comportamento inaccettabile in un buon pastore, come sottomettere, assoggettare, conquistare, dominare gli altri.
Anche qui però bisogna fare attenzione, perché questa importante “apertura” verso l’altro, questa sensibilità, questa bontà, non va assolutizzata indiscriminatamente: non deve cioè “condizionare” sistematicamente il pastore, non deve influenzare a priori ogni sua valutazione. Egli deve sempre rimanere neutrale, libero, per decidere con equità, con imparzialità; chi comanda, chi dirige non può assecondare passivamente ogni velleità, ogni capriccio delle persone affidate alle sue cure, soprattutto se sono minori. Se c’è da dire un “no”, se c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una “pecorella” finita fuori strada, va fatto nella carità ma con mano ferma, senza esitazioni o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il loro rifiuto, non deve temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono genitori letteralmente in balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno tenere un punto fermo. Madre e padre per assecondarli finiscono per mettersi l’una contro l’altro: con il risultato che in genere l’una, la madre, per lo più disponibile al “sì”, è la buona; l’altro, il padre, propendendo per il “no”, è il “solito” cattivo. In questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla sempre vinta, di comportarsi come vuole, diventando col crescere sempre più un tiranno, un despota, un patologico narcisista, che non avrà rispetto per niente e nessuno, convinto di potersi permettere tutto ciò che vuole.
Molti “pastori” confondono la bontà con la debolezza: si guardano bene dal dire un “no” deciso, temendo di offendere, di ferire, di mancare di rispetto, di passare per “senza cuore”. Pensano che deludere talvolta le aspettative, i desideri di qualcuno, equivalga ad averlo in odio, ad essere crudeli nei suoi confronti. Ma non è vero: la delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono posizioni decisamente positive, costruttive, perché obbligano il destinatario a fare delle riflessioni altamente educative, a capire cioè che nella vita non tutto è permesso, non tutto è legittimo; che esistono dei limiti, delle condizioni, dei paletti da rispettare; che la convivenza umana, la morale, la coscienza, impongono delle restrizioni, dei “no” precisi, che non consentono a nessuno di fare ciò che si vuole.
D’altro canto però, i “pastori” non devono neppure “maramaldeggiare”: non devono cioè infierire per principio, per partito preso, sui loro sottoposti, opponendo sistematicamente, sadicamente, un netto rifiuto ad ogni loro iniziativa: perché anche questo è sbagliato, è altrettanto diseducativo; est modus in rebus, diceva Orazio: ogni cosa ha una sua misura, un suo modo ottimale per affrontarla; non bisogna mai scegliere gli eccessi, il rigore preconcetto, perché, pur trovandosi nel giusto, colui che comanda senza amore, senza carità, finisce col perdere la propria autorevolezza, col diventare un burbero fantoccio che difficilmente otterrà ciò che chiede.
Il buon “pastore” sta sempre davanti, perché deve condurre gli altri (in greco agaghèin, da àgo, portare, precedere, guidare): deve cioè percorrere la loro stessa strada, deve dare il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma indicando con i suoi passi la direzione più agevole e sicura da seguire: convinto che le regole del reciproco rispetto, dell’amore, della comprensione, sono le stesse, sia per chi precede che per chi segue, sia per i pastori che per le pecore. Amen.

  

giovedì 11 aprile 2024

14 Aprile 2024 – III DOMENICA DI PASQUA


Lc 24,35-48 
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Emmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

I due discepoli di Emmaus tornano dalla loro incredibile esperienza e raccontano di come abbiano incontrato Gesù sulla strada del ritorno a casa; anche Pietro racconta entusiasta il suo incontro con il Signore: ciò nonostante, quando Gesù si presenta a tutto il gruppo riunito insieme, essi rimangono dubbiosi, meravigliati, senza parole. Cosa significa? 
È chiaro: come abbiamo detto domenica scorsa, l’esperienza del Signore Risorto, cioè vederlo, sentirlo vivo, presente nella vita, è un’esperienza che ciascuno deve fare personalmente. Gesù infatti dice: “Toccatemi, guardate le mie mani, i miei piedi”. Per sincerarsi che davvero Gesù sia lì davanti a loro, che sia vivo, che si muova, parli, agisca, non basta infatti ai discepoli “guardarlo”: per averne la certezza, è necessario “toccarlo”, palparlo, uscire allo scoperto, lasciarsi coinvolgere, e questo lo possono fare solo individualmente, non in gruppo.
E ciò vale anche per noi: non ci basta il racconto degli altri; non ci basta andare in chiesa, non ci basta che altri credano e abbiano rivoluzionato la loro esistenza; non ci basta conoscere persone che, grazie alla loro fede, sono guarite dalle malattie; non ci basta scoprire la felicità negli occhi di quanti vivono una fede convinta, sincera, dopo averlo incontrato sulla loro strada. Nulla può indurci a credere veramente, se non ci decidiamo a “toccare” Dio con le nostre “mani”, a lasciarci sconvolgere intimamente dalle sue Parole; soltanto se gli permetteremo di rivoluzionare la nostra mente, di scuotere la nostra vita, le nostre certezze, riusciremo a capire che Lui è veramente il Dio “vivo”, solo allora arriveremo a “credergli” convintamente; perché la vera fede è incontro, prova, esperienza, dedizione, fiducia: se non riusciamo a conquistare questo dono, continueremo a dibatterci invano tra assurde ipotesi, inattuabili possibilità, inutili dubbi.
Sì, perché se nella nostra ricerca ci lasciamo irretire dai dubbi, dalla diffidenza, dall’orgoglio, se ci costringiamo a rifiutare per principio qualunque soluzione spirituale, qualunque coinvolgimento personale, la nostra vita continuerà a trascinarsi nell’angoscia, nell’incertezza, nella paura di scoprire quella che è la verità di Dio.
Anche gli apostoli, come ci documenta il vangelo di oggi, dimostrano apertamente la loro ritrosia nel credere alla risurrezione: non credono agli amici che hanno visto Gesù; non credono alla Maddalena, non credono a Gesù stesso, pur avendolo lì, davanti ai loro occhi; non gli credono neppure dopo aver visto le sue ferite e aver mangiato nuovamente con lui; fanno fatica a credergli anche quando Gesù, dati alla mano, spiega loro dettagliatamente che tutto quanto gli è accaduto pochi giorni prima, era puntualmente previsto negli Scritti dei loro Padri.
La fede autentica, totale, sincera, è per tutti un traguardo impegnativo, un cammino spirituale che procede per gradi, a piccoli passi, che richiede un’aperta disponibilità, una lenta e faticosa maturazione.
Noi invece preferiremmo un intervento divino fulmineo, scenografico, come quello che ha disarcionato Paolo sulla via di Damasco; noi, cristiani del consumismo, siamo quelli del “tutto e subito”, del “detto e fatto”, del “cotto e mangiato”. Siamo abituati con la TV o il computer: basta un semplice pulsante, un telecomando, e tutto è risolto, tutto lo scibile viene prontamente esibito, ogni nostro dubbio ottiene risposta. Ma con Dio non funziona così! La strada che ci porta a Lui si concretizza lentamente, gradualmente, necessita di silenzio, di raccoglimento, di tempi e modalità particolari. Tutto avviene con pazienza, con dedizione, con perseveranza: è esattamente come scalare una parete rocciosa: qualunque nostro movimento verso l’alto richiede dei punti di appoggio validi: dobbiamo cioè essere sicuri che l’ancoraggio successivo a cui affidiamo la nostra vita, sia in grado di sorreggerci, deve darci fiducia, sicurezza, tranquillità.
Soltanto se giorno dopo giorno sapremo superare le difficoltà della nostra scalata spirituale, altrettanto complicata e impegnativa, riusciremo a raggiungere la vetta altissima di Dio, e abbracciare con il cuore e la mente la grandiosità divina del suo amore.
Luca dunque, oltre a descriverci le difficoltà incontrate dagli apostoli per raggiungere la fede nel risorto, ci lascia intuire anche quelle che sono le strategie da seguire, per facilitarci l’incontro con Gesù.
La prima è di ripetere quanto Gesù stesso ha fatto con i discepoli: presentarci cioè a Lui così come siamo, esibendo le prove della nostra di passione: le nostre ferite, le nostre piaghe interiori, i nostri insuccessi, le nostre cadute.
Presentarci a Gesù in questo modo, significa dimostrargli che nonostante le nostre tante debolezze, siamo riusciti a percorrere un piccolo tratto della sua strada, vuol dire documentargli la nostra vita, le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre disfatte, i nostri fallimenti. Molti cristiani, spossati, sfiniti, scoraggiati dai loro insuccessi, pensano che “non ci sia più niente da fare, che il traguardo sia ormai compromesso, inavvicinabile. Ma non è vero! Gesù ci ha insegnato che dobbiamo superare qualunque difficoltà, dobbiamo insistere, non dobbiamo mai, in nessun caso, “abbandonare l’aratro”, ma guardare sempre avanti, con la costanza e la fiducia di chi sa di non essere solo, perché Dio è sempre al nostro fianco, pronto a correre in nostro aiuto. Non immaginiamo neppure come le cose cambierebbero, se solo ci fidassimo di Dio, se solo mettessimo nelle sue le nostre mani ferite, quando ci sentiamo incapaci di realizzare, di costruire, di fare qualcosa: improvvisamente diventerebbero mani forti, gloriose, risorte, guarite, con le quali poter nuovamente produrre, creare, realizzare. Se mettessimo il nostro cuore ferito in quello trafitto del Risorto, guariremmo immediatamente, e potremmo condividere con gli altri una vita nuova, più intensa, più luminosa.
Il secondo modo per incontrare Gesù è di donare noi stessi agli altri, praticando la carità, l’amore, la comprensione. È nell’apertura verso i fratelli, che potremo sentire chiaramente la presenza di Cristo vivo, di percepirlo in maniera forte. Solo se ci apriremo al prossimo, se lo accoglieremo nella carità, ci sentiremo anche noi accolti e amati; sentiremo nuovamente la gioia della vita pulsare dentro di noi, ci sentiremo nuovamente forti, potenti, fiduciosi, in ciò che facciamo. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”: ebbene, noi ogni settimana abbiamo la possibilità di fare questa “comunità” con i fratelli, celebrando l’Eucarestia, la nostra Pasqua domenicale. È lì, infatti, che le nostre anime possono riconoscersi, unirsi, incontrarsi, per “incontralo” nella partecipazione, nella lode, nella preghiera, nel ringraziamento. È lì che abbiamo la chiara percezione della presenza di Dio: perché Lui è proprio lì, in mezzo a noi, con noi. Ed è da lì, da questo incontro, che usciremo fortificati, come i discepoli, pronti per testimoniarlo al mondo intero.
La terza strada per incontrare il Risorto è lo studio, la meditazione del Vangelo. È lì che Gesù ci spiega la sua vicenda, cos’è successo, cos’è accaduto. Noi dobbiamo capire la nostra storia, da dove veniamo, dove siamo diretti; abbiamo bisogno di individuare quel filo rosso che lega noi, le nostre giornate, la nostra vita, con Dio, con la Vita, perché solo così possiamo dare alla nostra esistenza, un significato, un senso, un legame col soprannaturale, col divino: solo così possiamo fare realmente esperienza del Signore Risorto, scoprendo che nulla avviene per caso, che tutto ciò che ci riguarda ha un senso ben preciso, che ogni nuova situazione che affrontiamo ha sempre qualcosa da dirci: e capiremo che, avendo Dio come obiettivo finale, qualunque sacrificio, qualunque difficoltà, qualunque imprevisto, è affrontabile e superabile.
Per questo, noi cristiani abbiamo un bisogno radicale, assoluto, di conoscere, capire, vivere, il Vangelo e la Bibbia, perché come diceva S. Girolamo: “L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo”. Purtroppo la società moderna globalizzata è totalmente indifferente a ciò: una situazione quantomai deleteria, perché la gente ha bisogno di conoscere Dio, di credere in Gesù, nel suo vangelo, piuttosto che nella magia, negli amuleti, nelle superstizioni, negli esibizionismi religiosi, giustificandosi con un insignificante “così fan tutti”: l’umanità intera deve credere convinta, deve aderire a Cristo, con l’anima e il cuore; noi cristiani, dobbiamo insomma essere tutti orgogliosi della nostra fede cattolica, di appartenere alla Chiesa di Cristo.
Anche se in questi ultimi anni, proprio al suo interno, si sono distinti pastori che, consacrati per trasmettere al mondo l’autentico messaggio divino e per confermare nella fede i fratelli, hanno invece provveduto a manipolarlo, travisarlo, umiliarlo, assecondando le ideologie di una società corrotta. Purtroppo capita spesso di ricevere, per questo, espressioni di scherno e di commiserazione da parte dei non credenti: “ma tu credi ancora al Dio dei preti? Non ti accorgi che le loro prediche sulla misericordia, sulla carità, sul perdono, vengono apertamente contraddette dai loro comportamenti autoreferenziali, astiosi, vendicativi?”.
Ebbene, non lasciamoci irretire in tali provocazioni: rivolgiamo invece le nostre preghiere a Dio per quanti sono venuti meno ai loro doveri di pastori.
Non solo: ma dobbiamo pregare Dio soprattutto per noi, perché ci aiuti ad essere noi, con la nostra vita, una sincera “lettura vivente” del suo Vangelo, convinti che dalla falsità, dall’ambiguità, dalla disonestà, dall’ignoranza, non potrà mai uscire nulla di caritatevole, di gradito a Dio. Solo la sua Verità assoluta ci rende liberi, anche se talvolta per ottenerla, dobbiamo affrontare difficoltà, dispiaceri, delusioni. Una realtà però ci consola, ci aiuta, ci sorregge nel nostro cammino: ogni volta che ci avviciniamo personalmente a Gesù, ogni volta che ascoltiamo le sue Parole, ogni volta che leggiamo e meditiamo il suo Vangelo, Lui riesce sempre ad infiammarci l’anima, ad appassionarci profondamente, a riscaldarci il cuore: perché il suo Vangelo, non è semplicemente un testo da leggere, ma una persona viva e palpitante che ci parla: è un Maestro indulgente, benevolo ma esigente; un Padre paziente che desidera abbracciare i suoi figli, un Dio tutto misericordia e amore, che si aspetta da essi di essere riamato con gioia. Amen.