giovedì 1 giugno 2023

04 Giugno 2023 – SANTISSIMA TRINITÀ


Gv 3,16-18
“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio»

Oggi la chiesa celebra la festa della Trinità, un Dio che è Padre, Figlio e Spirito santo. Un mistero, quello trinitario, che è al centro della vita cristiana, e che noi ricordiamo continuamente anche nel farci il semplice segno della croce, anche se è un gesto che ripetiamo ormai meccanicamente, senza pensare a quello che facciamo, a cosa diciamo, e soprattutto a come lo facciamo.
Dobbiamo riconoscere che la questione della profonda identità di Dio uno e trino, pur essendo un dogma fondamentale della nostra fede, oggi purtroppo non interessa più nessuno; anzi, voler spiegare la divinità di un Figlio uguale al Padre, pur nella diversità della sua azione storico salvifica, e a disquisire sulla realtà personale dello Spirito Santo, viene considerato un inutile esercizio teologico, lontano dai problemi esistenziali ben più importanti e urgenti: che Dio sia uno o trino, infatti, è l’ultima preoccupazione di una società laica come la nostra, in cui l’idea di Dio (uno o trino che sia) viene sempre più estromessa dalla vita personale e sociale degli stessi cristiani.
Eppure la Trinità divina ─ almeno a livello di semplice “intuizione” ─ non ha bisogno di uno “sforzo speculativo” di equilibrismi intellettuali per essere afferrata dalla nostra mente: è un concetto abbastanza comprensibile, semplice; consiste infatti nel fare una conoscenza “vissuta” di Dio, quella stessa conoscenza acquisita senza problemi dai primi discepoli, che non erano certo degli intellettuali; e cioè: Gesù, loro amico, loro compagno e loro maestro, affermava di essere figlio di Dio; e nella realtà si comportava esattamente così, da figlio di Dio. In quell'uomo c'era veramente Dio! E in quell'uomo, essi sperimentarono un mondo infinito di amore, di comunione; constatarono in Lui una vita “divina” talmente grande e intensa, un qualcosa di così profondo e intimo da risultare innato, connaturale: e collegarono questa loro esperienza all’immagine che meglio poteva esprimerla, l’idea di “famiglia”, composta da un Padre-madre, da un Figlio e dal loro amore reciproco, lo Spirito; in altre parole un Dio “trino”, un “unicum” che si esplica in tre funzioni: un Dio che sta “sopra” di noi, che è il nostro creatore, la nostra origine, che noi chiamiamo “Padre”; un Dio uomo come noi, nato come noi, che si chiama Figlio, compagno del nostro cammino, che con la sua morte e risurrezione ci ha riscattati; e c'è infine un Dio che abita “dentro” di noi come “entusiasmo” (dal greco “enthousiasmós” che deriva da “én-theòs” = “il dio dentro”), come creatività, come forza, amore, passione, energia: il Dio, in una parola, che ci ha fatto “chiesa”, e che si chiama Spirito Santo.
Tutto il creato risente di questa impronta trinitaria. In particolare la famiglia umana che, come ho detto, è la prima cellula sociale eminentemente trinitaria: l’uomo e la donna pur essendo nella loro identità due persone distinte (Padre-madre), si fondono in unità nel loro relazionarsi mediante l’amore reciproco (Spirito), generando un’altra persona (Figlio), un figlio identico in tutto a loro, ma ben distinto da loro. La reale esistenza di questo “amore”, come terzo elemento connaturale, uguale e distinto, appare quindi evidente.

Noi tutti sicuramente abbiamo avuto modo, almeno una volta, di vivere, magari inconsapevolmente, una certa esperienza “trinitaria”: per esempio, quando eravamo ancora nel grembo materno, inconsciamente sentivamo di essere una realtà unica, indissolubile: eravamo un tutt’uno con nostra madre, completamente fusi con lei: oltre noi due non c’era nessun altro, noi due eravamo il “tutto”. Poi, una volta entrati nel mondo, ci siamo accorti che non era proprio così: oltre noi e la mamma, c'era anche un Papà, e tantissime altre persone; ci siamo accorti che tutti eravamo diversi gli uni dagli altri; ognuno era “unico” in sé stesso, ma allo stesso tempo era in “comunione” con gli altri; abbiamo scoperto che qualcosa ci univa, ci legava, si intesseva con le nostre vite, e che, maturando, abbiamo individuato come legame spirituale, amicizia, rispetto, amore. Venire al mondo, uscire dal nostro involucro materno, nascere, è stato sicuramente il dono più bello che l’amore potesse riservarci; è stato scoprire il senso della vita, ma è stato anche il momento che ci ha resi però più indifesi, più deboli, perché in quello stesso istante siamo diventati “altri”: ognuno, da solo che era, ha dovuto confrontarsi con tanti altri, ha dovuto cioè “altrificarsi”.
Un fenomeno che, con la crescita, non tutti accettano come dono meraviglioso: per molte persone, infatti sentirsi “altre”, sentirsi cioè diverse - da “di-vertere”, separarsi, seguire vie differenti, avere scopi disuguali - diventa un problema, perché le obbliga ad esporsi, a mettersi in gioco, a combattere, quando invece preferirebbero rimanere nell’anonimato, nel “così fan tutti”, immergersi nel conformismo, nell'indifferenza, nelle mode. Molte altre invece, vivono al contrario la loro “alterità” come “competizione”, un doversi continuamente confrontare con gli “altri”: la loro vita si trasforma in una “lotta” permanente, impegnata a stabilire la loro superiorità, puntualizzare il loro assolutismo, chiarire che non temono confronti; il che, purtroppo, riduce la loro vita solo ad un affrontarsi, a farsi guerra, a considerare stupidamente l'altro come un nemico, un pericolo incombente per il loro ego smisurato.
Il mondo familiare, il mondo del lavoro, e a volte anche le nostre comunità cristiane, sono purtroppo piene di queste particolari personalità, che vivono in continua tensione nei confronti degli altri, in lotte estremamente feroci, ancorché silenziose, intime, segrete, in cui l’altro è un “nemico” che va costantemente zittito, eliminato, ucciso, certo non fisicamente, ma con le parole, con le insinuazioni, con i “giudizi” taglienti. Giudicare, dal greco “krino”, vuol dire infatti “dividere”, “separare”. Solo che un tale comportamento dimostra chiaramente la totale mancanza di amore sia per gli altri che per sé stessi; colui infatti che si ritiene strutturalmente “diverso, superiore”, non ama, non accetta gli altri, perché non accetta neppure sé stesso, non si ama così com’è, pretende sempre molto di più, è insofferente, intollerante; per cui sparla, trancia giudizi velenosi, riserva solo maldicenze e cattiverie, dimostrando nei fatti la propria nullità esistenziale.
Certo, nei rapporti interpersonali, per vivere l'esperienza trinitaria di reciproche “alterità” che vengono armonizzate in un unico spirito d’amore, c’è ancora molta strada da fare: c’è bisogno soprattutto di tanta umiltà, di tanta pazienza, di tanto rispetto delle identità diverse: perché solo così l'incontro con Dio nella profondità delle anime dei fratelli, riuscirà a fonderci insieme, tramite quell’amore unico, vero, creativo, “oblativo”, che Lui ci ha lasciato in eredità.
Dio è Amore donato: ecco perché anche il nostro amore deve diventare dono, “relazione”: tra noi, i fratelli e Dio, deve pertanto attuarsi una speciale pericoresi trinitaria: vale a dire quella compenetrazione reciproca di tre entità separate e distinte che si offrono, si donano, e si ricevono, confluendo unite nell’amore dell’unico Dio e Padre di tutti.
Inondati dal dono dello Spirito della recente Pentecoste, lasciamoci allora convertire al Dio Trinità, a quel Dio che Gesù ci ha rivelato con la sua stessa vita: quel Dio che ci ha creati “a sua immagine e somiglianza”, imprimendo dentro di noi il suo DNA trinitario, grazie al quale siamo stati pensati fin dall’inizio per vivere appunto in comunione la sua stessa vita d'amore, di fraternità, di condivisione.
Festeggiare la Trinità significa allora riscoprire questo nostro DNA; significa verificare se lo viviamo fedelmente nelle nostre scelte familiari, professionali, vocazionali, in tutte quelle nostre priorità su cui stiamo costruendo faticosamente la nostra vita di cristiani. Amen.



  

mercoledì 24 maggio 2023

28 Maggio 2023 – SOLENNITÀ DI PENTECOSTE


Gv 20,19-23
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

 Dopo la morte di Gesù, gli apostoli vengono presi da un profondo sconforto, dalla paura, dalla delusione. Si sono rinchiusi nel Cenacolo, stanno tutti insieme, hanno una paura folle. Il Cenacolo, in cui tutto ricorda ancora la presenza di Gesù, è per loro una specie di grembo materno, si sentono avvolti, protetti, nascosti, al sicuro. Nei cinquanta giorni successivi alla Pasqua, hanno ricordato le parole di Gesù, hanno cercato in esse un senso, hanno rivissuto tutti quei momenti nei quali egli cercava di prepararli, di educarli al “dopo”: ma ancora non capiscono completamente, sono ancora vittime della loro profonda e sofferta delusione interiore. 
Improvvisamente un terremoto, un vento impetuoso si abbatte su di loro: lo Spirito di Dio è sceso dal cielo e invade i loro cuori, spazza via dalle loro menti la paura, la debolezza, lo sgomento: i pensieri, le certezze, la vita, all’istante cambiano; con la presenza spirituale di Gesù in loro, si sono trasformati, sono diventati irriconoscibili, sono “altri”. 
Ora parlano una lingua “nuova, diversa”, che però tutti capiscono, perché lo Spirito fa da interprete simultaneo tra loro e gli altri. Prima Gesù stava materialmente con loro, aveva un corpo, mangiava e parlava con loro, trascorrevano insieme le giornate intere. Dopo essere salito al cielo, Gesù è tornato per stare stabilmente con loro, non corporalmente, ma spiritualmente, dentro di loro: essi ora lo sentono più forte e chiaro, potente e presente, e quel che conta, capiscono immediatamente il significato delle sue parole. Il loro terrore di perderlo, di rimanere soli, si è trasformato nella certezza che niente e nessuno avrebbe mai potuto privarli della sua presenza. 
Ecco questa è la Pentecoste degli apostoli, questa è la Pentecoste della Chiesa: un evento straordinario che deve segnare anche per noi cristiani, l’irruzione dello Spirito dentro di noi, una nuova forza che sconvolge la nostra tiepidezza, che rovescia, rigenera, infonde nuovo vigore, proprio a quell’iniziale “soffio” di vita con cui Dio ci ha generati, a quell’anima, cioè che noi troppo spesso dimentichiamo, per la quale purtroppo proviamo un certo interesse solo in rare occasioni. 
Essere dello Spirito, allora, essere veramente “spirituali”, non vuol dire pregare molto, frequentare assiduamente la chiesa compiere azioni, buone, pie, religiose; questi sono gli effetti, le conseguenze positive della sua presenza; essere “spirituali”, vuol dire invece, “appartenere” allo Spirito, essere un tutt’uno con Lui; vuol dire che se noi esistiamo, è solo grazie a Lui. 
Quando guardiamo una persona, noi in genere ci fermiamo al solo aspetto esteriore. Ma è qui che sbagliamo, perché dobbiamo andare oltre, dobbiamo guardare l’anima delle persone, dobbiamo vedere Dio in loro, proprio come faceva Gesù: Lui fu l’uomo che ha sempre guardato oltre le apparenze, oltre la realtà materiale di chi gli stava davanti, guardava insomma il “modo di vivere” della persona: Egli “vedeva” i sofferenti, i poveracci, i bisognosi, e mentre tutti cercavano di evitarli, Egli li avvicinava, li abbracciava, coglieva il loro bisogno d’amore, donava amore; vedeva i peccatori e mentre tutti li consideravano nemici di Dio, Egli entrava dentro la loro anima, ne coglieva la luce nascosta, la loro forza, il desiderio nuovo, intimo, profondo, di rinascere; vedeva in loro il tocco creatore del Padre, quelle creature cioè che il Padre stesso gli aveva affidato per essere riscattate e ricondotte al suo amore eterno.
Oggi dunque è Pentecoste, è la festa dello Spirito: preghiamo allora Dio, nostro Padre, perché mandi su tutti i popoli della terra il suo Spirito, il Consolatore, l’Avvocato: perché oggi, più che mai, abbiamo tanto bisogno di Lui, della sua Pentecoste!
Viviamo infatti in una società in cui i valori universali stanno scomparendo definitivamente: valori come giustizia, amore, famiglia, obbedienza, carità, sacrificio, sono stati cancellati dai vocabolari della nostra cultura, relegati ad una interpretazione personale, limitativa, utilitaristica.
C’è un mondo che si rifiuta di elevarsi a Dio, una cultura che rigetta l’idea di Dio, una società ottenebrata, che irride all’aspirazione di stabilire una “connessione” stabile con il “Padre celeste”, dimostrando di non capire che senza di essa la vita non sarà mai vita, che qualunque aspirazione, qualunque progetto, continueranno ad essere motivo di prevaricazione, odio, egoismo.
La Chiesa stessa, che dovrebbe apertamente, coraggiosamente, difendere i valori inalienabili, fondamento della nostra fede cattolica, oggi è spaesata, confusa, disorientata: il suo magistero, una volta potente, compatto, corale, autoritario, oggi è quasi completamente afono: le chiese sono sempre più deserte, i cristiani latitano: iniziative come quella recente di inviare quanti le sono ancora fedeli “in tutti i crocicchi delle strade” per attirare più gente possibile alle “nozze” con lo Sposo celeste, non potrà essere risolutiva, perché oggi nessuno più parla dell’obbligo conseguente di indossare la “veste nuziale”; oltretutto, nessuno più si espone a spiegare cosa realmente verrà offerto di “regale” nel banchetto ecclesiale, poiché nel frattempo le celebri e ricche risorse, lasciate in consegna da Cristo stesso, si sono deteriorate, avariate, ammuffite.
Questa, Signore, è la situazione che tu ben conosci: questo è il motivo per cui umilmente ti chiediamo una nuova, urgente Pentecoste: abbiamo veramente bisogno che il tuo Spirito scenda ancora dal cielo, e col suo fuoco ardente bruci gli ammassi di sterpaglie ideologiche che paralizzano ogni tentativo dei fragili credenti di elevarsi a Te; e soprattutto, ripeta ancora una volta il miracolo delle lingue: sì, perché, in questa nostra convivenza sociale non c’è più dialogo, non ci sono più parole di bontà e di perdono, non c’è più condivisione di amore sincero, di gioia spirituale.
Per questo, Signore, ti pregiamo: “Vieni, Santo Spirito, manda a noi dal cielo un raggio della tua luce. Lava ciò che è sordido, irriga ciò che è arido, guarisci ciò che sanguina. O luce beatissima, dona ai tuoi fedeli, che solo in te confidano, i tuoi santi doni! Amen.

 

  

giovedì 18 maggio 2023

21 Maggio 2023 – ASCENSIONE DEL SIGNORE


Mt 28,16-20
Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

 Il vangelo di oggi offre alla nostra meditazione le ultime raccomandazioni di Gesù, prima del suo commiato definitivo da questa terra. Egli se ne va e lascia ai discepoli, i più stretti collaboratori, il suo testamento spirituale, le sue parole più preziose.
Parole solenni, importanti, che rimarranno per sempre a conforto e guida anche di quanti nei secoli vorranno mettersi al suo servizio. A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. Con queste parole, Gesù mette in chiaro le sue credenziali: dice chi è, quali sono i suoi poteri, quale il suo campo d’azione: Egli se ne va, ma continua a rimanere il Signore della storia, ad avere il potere assoluto sulle cose, sugli eventi, su ogni uomo. Egli è la salvezza per tutti gli uomini, nessuno escluso: è e sarà sempre di tutti, per tutti: Padre misericordioso, ma anche giudice giusto e imparziale.
Oggi, Gesù dunque sale al cielo, e lascia gli Apostoli sulla terra. Prima era Lui che si occupava di annunciare la buona Parola, il messaggio del suo Vangelo; ora lui non c'è più; è rimasta la Chiesa, ci siamo noi. Siamo noi i nuovi responsabili. Da questo momento in poi, non possiamo lasciare più nulla al caso; la nostra vita non può più essere la stessa; dobbiamo diventare “spirituali” e insieme “materiali”, dobbiamo cioè vivere nella contemplazione di Dio, nella preghiera, nella meditazione, prenderci cura dei fratelli, trasmettere loro i suoi insegnamenti, accoglierli col battesimo nella sua Chiesa, e allo stesso tempo occuparci concretamente delle loro esigenze materiali.
Sappiamo bene che il mondo è molto più soddisfatto quando vede che ce ne stiamo per conto nostro, rinchiusi nelle nostre Chiese, impegnati nelle nostre preghiere, nelle nostre liturgie: l’importante per lui è che ce ne stiamo lì, buoni, che non pretendiamo di immischiarci nei “suoi” problemi, nei suoi affari, nei suoi equilibrismi; non sopporta cioè che la Chiesa si impicci di politiche sociali, di tipologie di “famiglie”, di unioni omosessuali, di trasformazioni genetiche, di sfruttamento dei minori, di malcostume imperante. Solo in questo modo possiamo venir tollerati dai potenti della terra, da chi domina finanziariamente il mondo.
Ma Gesù non vuole dei fantocci, non vuole che stiamo zitti: vuole che ci comportiamo come Lui: la sua voce di condanna si è sempre espressa chiaramente contro ogni sopruso, contro ogni male, e questo deve essere anche il nostro unico criterio di azione, perché siamo noi i Gesù di oggi, i “messia” di questo nostro tempo: non dimentichiamolo mai!
Lui non c'è più, è vero, ma al suo posto ci siamo noi; noi, scelti a mandati in questo mondo per trasmettere il suo Vangelo, per illustrare a tutti, con la nostra vita, la bontà del suo messaggio.
Questa è la nostra missione di cristiani: questa è la volontà di Gesù, espressa chiaramente prima di partire: se non ci sta bene, se non ci interessa, se non proviamo alcun entusiasmo, smettiamo di definirci cristiani, di farci passare per “discepoli del Maestro”: smettiamo di ingannare noi stessi e gli altri, ricordandoci però che lontani da Lui, siamo soltanto delle nullità, dei falliti, siamo una sua immagine sbiadita, completamente disallineati dal suo Spirito.
Tradiamo in pieno il suo importante messaggio: “Apritevi, Andate, Fate discepoli, battezzate!”.
Una fede chiusa, circoscritta, è infatti una fede morta. La vera fede, al contrario, è aperta, dinamica, in continua crescita, in costante progressione e affermazione.
La fede della Chiesa non può sopravvivere vivendo da sola, alimentandosi della sua storia, immergendosi soltanto nel suo vissuto secolare: il vangelo, la tradizione, il magistero, che costituiscono la sua spina dorsale, devono rimanere sempre il suo motore trainante, la forza che la spinge in avanti, a conquistare, a farsi conoscere dal mondo. Perché la vera Chiesa di Cristo, per dare copiosi frutti spirituali, oltre che “cristiana”, legata cioè indissolubilmente a Cristo, deve essere soprattutto “cattolica”, cioè universale, deve aprirsi a tutti gli uomini, al mondo intero, senza mai perdere la sua brillantezza, la sua originalità, la sua fedeltà.
Noi chiesa, nei confronti di chi è lontano per errore o per scelta, dobbiamo essere i maestri autentici, i trascinatori, quelli che si sentono incaricati ufficialmente da Cristo di rappresentarlo, di combattere per Lui, per trasmettere quanto Lui ci ha comandato.
Purtroppo, abbiamo un nemico sempre pronto a debilitarci: con il passare del tempo, come tutte le cose, anche il nostro entusiasmo, la nostra fede ardente, sono destinati a mutare, ad affievolirsi, deteriorarsi, per poi scomparire: anche se all’esterno tutto può sembrare identico, immobile, invariato, nella realtà, nel profondo, tutto cambia: anche la nostra risposta alla chiamata di Dio, anche il nostro rapporto d’amore con Lui. Ecco perché dobbiamo avere la costanza di alimentare continuamente la nostra fede, ecco perché dobbiamo averne la massima cura: se non la custodiamo gelosamente, se non l’approfondiamo, se non la purifichiamo, se non la difendiamo da ogni attacco del mondo contro la sua originale purezza e integrità, col tempo anch’essa si ammutolirà, perderà ogni fascino, e alla fine la perderemo inesorabilmente.
Di fronte alle nuove sfide innovative che si materializzano continuamente, alle nuove battaglie culturali e religiose, di fronte ai tanti virus letali delle false ideologie che quotidianamente si impongono, la nostra fede, la fede della Chiesa, deve essere sempre vigorosa, pronta a combattere, a difendere la sua indipendenza, la sua originalità, la sua divinità.
Non dobbiamo pensare che questa sia una possibilità molto remota: è infatti evidente a tutti che anche nella nostra cattolicissima Italia, l’autentica fede cristiana è ormai disorientata, allo sbando: debilitata, trascurata, fagocitata dalle subdole ideologie imperanti, ha smarrito il suo entusiasmo vincente, ogni sua vitalità appassionante, coinvolgente.
Sarebbe ingeneroso scaricare come al solito l’intera responsabilità di tale situazione sui preti, sulla Chiesa, sul magistero: la colpa principale, questa volta, è soprattutto nostra, di noi cristiani, tiepidi, indifferenti, senza orgoglio; cristiani completamente apatici, senza stimoli religiosi; cristiani che ambiscono magari di “esibirsi” in particolari ambiti clericali per proprio insensato prestigio, piuttosto che offrire umilmente a Dio un valido e decoroso servizio alla sua Chiesa.
Grazie a Dio, in questo triste disorientamento, Cristo continuerà a rimanere sempre l’unico vincente, continuerà ad essere per noi, per la chiesa intera, l’instancabile Paraclito, il solerte e infallibile Avvocato: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”.
Ecco: questa certezza che Dio è sempre con noi - ieri, oggi, domani - è la nostra polizza di assicurazione sulla vita: è quel “vento” salutare dello Spirito, che soffiando su di noi ridà energia e vigore al fuoco languente della nostra fede. Amen.

 

  

giovedì 11 maggio 2023

14 Maggio 2023 – VI DOMENICA DI PASQUA


Gv 14,15-21 
«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

Giovanni continua oggi a riferirci il discorso di addio di Gesù iniziato domenica scorsa: i particolari da chiarire sono ancora molti e importanti, perché devono essere capiti bene.
Siamo ancora nel cenacolo: Gesù ha appena annunciato il suo prossimo ritorno al Padre, in quel luogo dove non c'è più nulla da temere e dove c'è posto per tutti. Anzi, lì ognuno ha il suo posto, unico e insostituibile, un posto che lui stesso sta andando a prepararci.
Egli torna dunque a parlare ai discepoli di questa sua partenza, di questo suo distacco: ma nello stesso tempo assicura loro che il Padre non li avrebbe lasciati soli, avrebbe assicurato la presenza di un “Paraclito” che sarebbe rimasto per sempre accanto a loro, e quindi a noi, Chiesa di ogni tempo: anche se materialmente nessuno potrà più vedere il suo volto, Egli continuerà a rimanere con il suo Spirito con noi, in noi, in maniera diversa, in maniera spirituale. 
“Il Padre vi darà un altro Paraclito. In greco, “Paràcletos” significa “Avvocato”: avremo cioè un “professionista” che ci difenderà contro le insidie del male, che ci assisterà quando siamo in pericolo, quando ci sentiremo soli, deboli, impotenti; uno che ci suggerirà sempre cosa dobbiamo fare, come comportarci al meglio. Ma “Paràcletos” significa anche “Consolatore”: avremo sempre cioè uno che ci capisce, che condivide i nostri problemi, le nostre ansie, le nostre paure; uno che ci consola quando pensiamo di non farcela, che lenisce il dolore delle nostre ferite, che sa entrare nel nostro mondo interiore, nella nostra anima, che sa parlare al nostro cuore.
Gesù sa perfettamente che senza la sua costante presenza, i discepoli, noi in particolare, avremmo facilmente dimenticato la sua immagine e le sue parole. Per questo ha assicurato la presenza di “un protettore”, un avvocato, un “chiarificatore”: di uno insomma alla cui scuola tutti, in ogni tempo, avrebbero potuto imparare a fondo cosa significhi veramente fare “esperienza di Dio”.
Da qui, una considerazione: tutti dobbiamo entrare in familiarità con questo “Paraclito”; dobbiamo cioè imparare a conoscere lo “Spirito” di Dio, dobbiamo incontrare il Gesù dentro di noi, entrare in Lui, amarlo, vivere di Lui.
Parole facili a dirsi, ma non altrettanto da mettere in pratica, anche se, in realtà, di occasioni per incontrare Gesù nei vari momenti delle nostre giornate, della nostra vita, ne abbiamo tantissime: dobbiamo solo aprire bene gli occhi, indossare gli occhiali della fede, della nostra anima, del nostro cuore; dobbiamo insomma calarci in quella dimensione del nostro io occupata dallo Spirito: una dimensione “spirituale” di cui dovremmo avere la massima cura, e che invece, purtroppo, con grande disinvoltura, noi mortifichiamo in continuazione, riducendo il nostro cristianesimo a una inutile religione di facciata.
Non è possibile continuare a comportarci sempre da immaturi; ciascuno di noi ad un certo punto deve diventare padrone della propria vita. Nessuno può continuare a giustificarsi dicendo: “faccio solo quello che mi dicono”. Se Dio avesse voluto che l’uomo rimanesse sempre ignorante, che non diventasse “adulto”, una persona responsabile, autonoma, non lo avrebbe dotato di un cervello. Al contrario gli ha detto: “hai le gambe, cammina; hai gli occhi, osserva; hai le orecchie, ascolta; hai il cervello, usalo”.
Sì, perché di fronte a Lui dobbiamo essere completi, autonomi, non mezze calzette, non dei piagnucoloni! La sua Chiesa ha bisogno di uomini liberi, di uomini veri, dalla grande personalità; uomini forti, integerrimi nei costumi; uomini lungimiranti che sappiano interpretare la storia, che sappiano prevederla; uomini “alternativi”, come lo è stato Lui qui in terra; devono, in una parola, volare alto. E “volare” non significa solo muovere le ali, significa restare in aria autonomamente, senza alcun sostegno, convinti di poterlo fare.
Oggi, in particolare, i “pastori”, i “maestri” del Vangelo, quelli scelti da Gesù per guidare, per istruire, per consolidare la fede della sua Chiesa, dovrebbero dimostrare di essere veramente dei “posseduti” da Dio, dei “depositari” del Paraclito, lo Spirito della Verità; dovrebbero veramente pensare, agire, insegnare sempre, come autentici “illuminati” dallo Spirito: perché solo così potranno trasmettere il messaggio di Cristo ai fratelli, insegnando loro a conquistare, coltivare, accrescere, custodire la fede in Lui, a vivere nel Suo amore; solo così, potranno insegnare ai fratelli di meritarla, questa fede, di difenderla, e soprattutto di “perseverare” in essa.
“Perseverare nella fede”: un’espressione che purtroppo è completamente sparita da catechesi, prediche, pubblicazioni cattoliche: perché “perseverare” è un verbo che implica fatica, lotta, fedeltà e amore per un ideale, che mal si coniuga con l’idea oggi predominante di un Dio bonaccione, che passa sopra a qualunque offesa, che lascia correre, che perdona comunque tutto a tutti. Che Dio sia bontà, amore illimitato, è una “sua” esclusiva proprietà ontologica, che non ci autorizza a pensare che, grazie ad essa, Egli giustifichi automaticamente ogni nostra infedeltà o ribellione.
Purtroppo, la società di oggi è fagocitata dall’anticristo contemporaneo: il totale e assoluto relativismo; la gente si sente affascinata non dalla Verità del Vangelo, ma da una congerie di insulsaggini, propagandate da pseudo preti, maghi, santoni e indovini che, lautamente retribuiti, sproloquiano dalle loro cattedre televisive.
Per la gente ormai è una moda rinunciare alla propria autonomia intellettuale, affittare il cervello e la propria vita a questi falsi profeti, a questi squallidi buffoni, che pretendono di ergersi a Divinità infallibili, a visionari di ogni genere, a sedicenti interlocutori diretti con Dio e con la Madonna.
In questa situazione drammatica la Chiesa fallirebbe in pieno il suo mandato divino, se si accontentasse di trasmettere ai fedeli un Dio “immagine”, in formato “regalo”, un Dio semplicemente da ammirare, da pregare, da esporre, da esibire. Il Dio di Cristo non è così! Gesù non ha trasmesso un Dio statico, immobile, un Padre buonista, facilmente manipolabile dal nostro scaltro “savoir faire”: ci ha rivelato invece un Dio attento, onnipresente, che va cercato, seguito e amato tra mille difficoltà, tra mille dubbi, tra continue sconfitte e piccoli progressi; la nostra è una fede che non “impone” nulla, è vero; è una fede senza “regole” capestro, che offre semplici “consigli” di vita: ma è una fede che esige onestà intellettuale, amore sincero, fedeltà! Non assicura “tout court” una vita eterna, soprannaturale, ma al contrario ci insegna come costruirla, perfezionarla, alimentarla quotidianamente con i suggerimenti dello Spirito di Dio che abita in noi. La strada da percorrere è ovviamente in salita, lunga e difficile: è un percorso che esige da ciascuno serietà, maturità, convinzione, costanza.
Non basta infatti “vivere”, ma bisogna “saper vivere”, saper capire, saper giustificare, saper amare, saper dare un riscontro tangibile a ciò che professiamo, a ciò che confessiamo, a come e perché lo traduciamo in vita vissuta.
È proprio per questo che il nostro “credo” cristiano, se è coerente e fedele allo Spirito, va sempre contro corrente, è in perenne disaccordo con gli schemi individualistici dell’uomo, è motivo di rottura e di abbandono da parte dei nullafacenti, oggetto di critica atroce da parte del “mondo”: perché, come dice Gesù, il “mondo” non può relazionarsi “de visu” con lo Spirito, non lo vede, non lo sente, non lo conosce: è totalmente diverso, è proiettato in tutt’altra dimensione!
“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama”, dice Gesù.
Qui Giovanni parla di “comandamenti”: e noi li colleghiamo immediatamente ai “dieci comandamenti” del catechismo; ma, se pensiamo bene, Gesù ci ha lasciato un solo “comandamento”: “Ama il Signore tuo Dio e il prossimo tuo come te stesso”.
È il “comandamento” dell’amore: ma neppure questa definizione è esatta, perché, in realtà, l'amore non si può imporre a nessuno. Non si può comandare di amare: l'amore è libero, nasce spontaneamente, in piena libertà. Nessun genitore può dire ad un figlio: “Amami”. Può sperarlo, desiderarlo, può augurarselo. Ma non può costringerlo ad amare. L'amore vive solo dove c'è libertà.
Gesù, infatti, non l’ha “ordinato”, ma lo ha caldamente consigliato. L’unico comandamento vincolante, per chi vuole seguirlo, è quello di “vivere come Lui”, di “seguire i suoi passi”, di diventare, cioè, come Lui, uomini veri, liberi, trasparenti, pieni di vita e di Dio.
Per raggiungere qualunque obiettivo è necessario “volerlo” sul serio, sentire nel cuore quell’intimo impulso che ci spinge all’azione. Infatti i “maestri”, gli educatori, possono certamente pretendere dai loro allievi che si impegnino seriamente nella vita, che osino, che puntino sempre più in alto, in una parola che siano “aquile”: ma se questi in cuor loro non sono convinti, se hanno paura di volare, se non sentono alcuna attrazione per l’altezza, per la bellezza, se non sentono il fascino del volo, poveretti! ci proveranno anche, ma non arriveranno mai a nulla: una gallina, per quanto si sforzi, non potrà mai diventare un'aquila!
Gesù, anche per questo, ci ha assicurato la presenza del suo Spirito: proprio perché, grazie a Lui, trasformati da Lui, potessimo abbandonare la nostra naturale “pesantezza umana” per librarci fin lassù, in alto, tra le braccia del Padre: guidati dai suoi consigli potremo infatti diventare veri “esseri spirituali”. Lui può: perché è il nostro Maestro, la nostra forza, la nostra guida, il nostro avvocato, il nostro Consigliere, il Dio in noi. Con Lui nulla ci sarà impossibile. Gesù ce l’ha promesso!
Accogliamolo, allora, questo Paraclito Consolatore; apriamogli le braccia e il cuore, accettiamo i suoi suggerimenti, i suoi insegnamenti. Viviamo uniti in Lui con Cristo, nell’amore del Padre. Come? Amando. Semplicemente amando. Perché questo solo è lo Spirito di Dio: Amore! È Lui che alimenta questo nostro cuore, creato dal Padre per ricevere e dare Amore: lo presuppone, lo suscita, lo incarna in noi. È lo Spirito Amore che tiene compatta la nostra vita, nonostante le fratture, le contraddizioni, i fallimenti. È lo Spirito Amore che la motiva, la indirizza, la rinvigorisce. Tutto in noi, di noi, viene continuamente nobilitato dallo Spirito Amore; ecco: questa è la “buona notizia” di oggi. Amen.

 

giovedì 4 maggio 2023

07 MAGGIO 2023 – V DOMENICA DI PASQUA


Gv 14,1-12 
«Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». 
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse. In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

Il vangelo di oggi ci riporta alle ore immediatamente precedenti la passione di Gesù. Siamo nel cenacolo, durante l’ultima cena. Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù fa un lungo discorso di addio: Egli sta per andarsene, e affida loro il suo testamento spirituale, parla delle cose più intime, più profonde, che più gli stanno a cuore.
Giuda è già uscito per tradirlo, e quindi, poco dopo le guardie sarebbero arrivate per arrestarlo; il tempo stringe, tutto ormai è pronto per il “consummatum est” finale: lo spettro della croce proietta già la sua ombra sinistra lassù, sulla cima del Golgota.
Gesù ha ancora molte cose da dire ai suoi; soprattutto vuol far capire bene lo scopo della sua missione terrena, vuol spiegare ancora una volta il rapporto intimo e indissolubile che esiste tra lui e il Padre. “Quando sarò andato da Lui e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me. Io me ne vado e voi sarete un po' tristi. Ma state tranquilli, non temete: vado a prepararvi un posto. Non scappo via. Vado, ma poi torno a prendervi! Ora siete impauriti perché tutte le vostre previsioni, le vostre certezze, sembrano crollare. Questa è la vostra impressione: ma non è così! Perché nulla andrà perduto di quanto vi ho promesso. Guardate il tempo: dopo ogni notte, dopo il buio, dopo la solitudine, puntualmente la nuova luce del mattino torna sempre a tranquillizzare, a rischiarare la vita”.
Ecco: questo, detto in altre parole, è quanto Gesù promette ai suoi: esattamente quanto, ogni giorno, Egli continua a ripetere anche a tutti noi. Le sue sono parole importanti, parole che ci devono tranquillizzare contro le tante incognite della vita, contro le difficoltà, le sconfitte, le paure, nostre abituali compagne di viaggio.
In ogni momento difficile dobbiamo ricordarci sempre “chi siamo” e “chi è nostro Padre”. Anche se gli altri ci discriminano, ci ignorano, ci evitano, Lui è sempre presente, Lui ci capisce sempre, perfettamente: questa deve essere la nostra unica certezza! Inoltre, anche di fronte alle nostre continue infedeltà, ai nostri tradimenti, non perdiamo mai la speranza del perdono, affrontiamo umilmente ma con fermezza il nostro riscatto, perché Lui ci sta aspettando a braccia aperte; anche di fronte al più tragico evento della nostra vita, ripetiamo a noi stessi con grande fiducia e abbandono: “Dio è con me, sono suo figlio: Egli mi ama, è mio Padre, niente può distruggermi, mi fido di Lui”. E quando la notte della vita si presenterà alla nostra porta, sarà sempre Lui che ci prenderà per mano e ci condurrà nella casa del Padre, ad occupare quel “posto”, che Lui ha preparato per ciascuno noi.
Poniamo allora la nostra fiducia in Dio, non una, ma dieci, cento volte; mettiamoci completamente nelle sue mani: trasformiamo la nostra vita, la nostra gioia e il nostro dolore in umile preghiera: probabilmente non risolveremo immediatamente i nostri problemi, ma sicuramente riacquisteremo la nostra fiducia, la nostra voglia di combattere, la nostra forza, nella certezza che, se anche tutto dovesse crollare intorno a noi, potremo sempre contare su quel “posto” sicuro, che Lui ha preparato per noi “nella casa del Padre”. 
È lì che ognuno ha il suo posto personalissimo da figli prediletti; nessun altro può averne uno uguale, perché tutti noi siamo figli unici. Spesso molte persone si sentono soddisfatte, in perfetta regola, nel giusto cammino, solo perché si vedono uguali a tante altre che si comportano esattamente come loro. Dovrebbero invece sentirsi in difetto, perché Dio non crea doppioni, non ama duplicati; non pretende da tutti la stessa condotta standard: ogni vita “copiata” è un falso, una vita sbagliata, non realizzata, non vissuta, mai osata. 
Dare il buon esempio ai fratelli è importante: tutti abbiamo bisogno di guardare gli altri, di studiarli per imparare, per capire, per maturare; purtroppo quel Dio che ciascuno di noi manifesta agli altri con la propria vita, è solo un’immagine sfocata del vero Dio Amore: quello che noi trasmettiamo all’esterno è la nostra limitata interpretazione, è la vaga somiglianza di Dio. Egli fin dall’inizio ci ha creati tutti a sua “immagine e somiglianza”: mentre però l’essere sua “immagine” dipende da Lui, dal suo “tocco creatore”, identico per tutti gli uomini, il “somigliare a Dio” è di nostra esclusiva competenza, spetta singolarmente a ciascuno di noi. Il grado di rassomiglianza con l’originale, dipende quindi dalla fedeltà, dalla sincerità, dall’amore con cui noi rispondiamo alla Sua chiamata; è esattamente proporzionale all’impegno con cui investiamo quei “carismi” che Dio ci ha donato: per cui la “somiglianza” divina che ognuno di noi raggiungerà, sarà unica, personale, diversa da tutte le altre. 
Per questo Dio dice: “Ognuno ha il suo posto”: perché ognuno potrà occuparlo solo se avrà percorso fedelmente la “sua” strada, se avrà risposto generosamente alla “sua” chiamata, elementi che nella vita di ciascuno sono unici, induplicabili e che, pertanto, come tali vanno curati e vissuti. A Dio non interessa la forma, ma il contenuto di ogni singola esistenza.
Non per nulla Gesù si identifica con “la via, la verità, la vita!”; osserviamo bene l’ordine con cui le nomina, perché non è casuale: Gesù infatti è la “Via” che conduce alla “Verità”, perché solo nella verità la “Vita” sarà piena, sensata, realizzata, degna di essere vissuta. 
Non dice: “Io vi indico una via”, ma: “Io sono la via!”. Gesù non ha bisogno di darci altre regole, altri codici, altre indicazioni da seguire: dobbiamo semplicemente seguire Lui; Egli è tutto; è il cammino, l'unico cammino che ciascuno deve percorrere. A quanti gli chiedevano cosa fare per avere la vita eterna, per essere felici, per andare al Padre, Egli ha sempre detto a tutti: “Seguimi!”. Un invito che compendia la sua Vita e l’intero suo Vangelo. 
Non dice: “Io ho la verità”, ma dice: “Io sono la Verità”. A questo proposito, di fronte alla domanda di Pilato: “Quid est veritas?”, (che cos’è la verità?), sant’Agostino, anagrammandola magistralmente, ipotizza questa risposta di Gesù: “Est vir qui adest” (è l’uomo che ti sta davanti): “La Verità sono Io”, punto! Non sono ammessi fraintendimenti! Ci sono invece molte “verità” che oggi circolano, molte sedicenti “chiese”, molte religioni (o pseudo tali), molti santoni, innumerevoli veggenti e ciarlatani di ogni genere, che si arrogano il diritto di affermare: “Io ho la verità, io ho Dio, seguimi e farò diventare anche te un avatar, una reincarnazione di Dio”. Siamo seri, non perdiamo tempo con tali idiozie! La Verità non si possiede, si vive, è vita. Questa gente confonde la “verità” con delle vaghe “conoscenze” personali che applicano ai loro discorsi, quasi sempre a sproposito. Per Gesù, la Verità (in greco alètheia, togliere il velo) è scoprire quello che Dio vuole da noi, significa aprire la nostra mente a ciò che lo Spirito di Dio ci suggerisce nell’anima. 
Infine Gesù dice: “Io sono la vita”; non dice: “Io ho la vita”, non è un’assicurazione da stipulare, per campare tranquillamente, a scanso di preoccupazioni e problemi. Gesù è “la” Vita, quella che dobbiamo fare nostra, che dobbiamo conquistare: “Vuoi vivere? Eccomi: Vivi!”. 
Sbaglia chi pensa che “vivere” coincida con il fare tante esperienze, con il possedere molte ricchezze, con il godere al massimo i piaceri di questo mondo: “vivere” non è buttarsi allo sbaraglio, dove capita, con chi capita (domanda molto frequente: “dove andiamo a vivere questa sera?”): ma vivere è sentire, percepire la “Vita” divina che vive in noi, per realizzarla esteriormente nel quotidiano.
E concludo con le parole di Filippo: “Signore, mostraci il Padre e ci basta!”.
Ebbene: facciamo nostra questa preghiera. Facciamo nostro questo accorato invito rivolto a Gesù perché ci renda partecipi dell’abbondanza di bene e di amore che il Padre rappresenta.
Approfittiamo per sgomberare la nostra mente da tutte quelle immagini fasulle di Dio, che nel corso della nostra vita ci siamo creati per soddisfare il nostro egoismo e la nostra accidia: un Dio qualunque, un Dio imprecisato e vago, un Dio indifferente, un Dio a tempo perso. Siamo adulti! Comportiamoci come tali! Il Dio Padre di Gesù è infatti un Dio “adulto” che ci tratta da adulti; un Dio che non ci considera degli sprovveduti, degli incapaci, dai quali dover accorrere continuamente per risolvere i loro problemi: ci aiuta ad affrontarli, questo sì: magari facendoci capire che spesso è inutile ostinarsi contro quelli che in realtà non sono problemi, ma situazioni irrilevanti e senza senso; che potremmo occupare molto meglio il nostro tempo, interessandoci maggiormente degli aspetti belli e positivi della vita, rendendola più gradevole, più appagante. 
Il Dio di Gesù è un Dio splendido, affascinante, innamorato delle sue creature; è insieme un Dio lontano e vicino, accessibile e misterioso, seducente e libero; un Dio che svela a ciascuno di noi, nel profondo della nostra anima, chi siamo, come dobbiamo realizzare la Via, la Verità, la Vita. 
Cerchiamo allora di conoscerlo questo Dio che ci conosce uno ad uno, che ci ama da sempre; cerchiamo di non sfuggire al suo amore, di essere il più possibile attenti alle sottili sfumature del suo Spirito, alle meravigliose percezioni che ci trasmette nell'anima, ai suoi paterni suggerimenti per vivere serenamente questa nostra esistenza terrena. Mettiamoci umilmente alla scuola del Maestro Gesù, e chiediamogli se il nostro Dio, il Dio che professiamo, che celebriamo, che trasmettiamo, corrisponde veramente a quel Dio, Padre vivificante, che Egli ci ha svelato. E non stanchiamoci mai di ascoltare e di meditare la sua Parola, misurandoci con essa, affinché ci illumini, ci guidi, ci aiuti, ci converta. Amen.


giovedì 27 aprile 2023

30 Aprile 2023 – IV DOMENICA DI PASQUA


Gv 10,1-10 
«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. 
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

 Le parole di Gesù riportate oggi dal vangelo di Giovanni, possono sembrare dolci, rassicuranti, lusinghiere: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un “buon pastore” patinato, con barba curatissima, capelli fluenti, un lungo bastone in mano e un grazioso agnellino sulle spalle, che precede, con sguardo sognante, alcune pecore belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue parole, vanno poste al contrario in un contesto di dura realtà, sono critiche severe, di aperta denuncia; indirizzate alle autorità religiose, in risposta all’aperta avversione da queste più volte dimostrata nei confronti di Gesù.
Siamo infatti in prossimità del Tempio, esattamente all’ingresso chiamato “Porta delle pecore”, particolare che sicuramente avrà offerto a Gesù lo spunto per parlare di pastori e di greggi. Davanti e intorno a lui si è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, che in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode si sente nel proprio ambiente esclusivo: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, e infine i farisei, gli ultras della fede, i duri e puri.
Gesù, con voce ferma e solenne, si rivolge ad essi con un lungo discorso che potremmo così parafrasare: “Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni legali, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza poter capire o ribattere alcunché. Avete distorto l’aspetto essenziale della religiosità, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità usurpata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente; voi la giudicate e basta, la usate per i vostri comodi. Ora però la gente non vi ascolta più, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione. Io sono quel pastore”.
Questo in pratica è quanto Gesù afferma nella sua requisitoria, consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. Il popolo che lo segue, infatti, è stanco di mercenari senza scrupoli, di pastori ingordi e ladri, di parolai senza vergogna. La gente vuole ascoltare parole nuove, parole che nascono dal cuore, proclamate con amore, con passione, con la forza della verità: vuole ascoltare messaggi positivi, come dimostrano le folle che accorrono ad ascoltare il suo “Vangelo”, il suo annuncio “buono”.
E cosa dice Gesù, il messia-pastore, di tanto importante, di così promettente, a gente tanto provata e demotivata? Che Lui è l’unico pastore in grado di farli uscire da quella “prigione” morale in cui sono rinchiusi, per portarli ai liberi pascoli del Padre. Egli solo è il “buon” pastore: anzi lui solo è il pastore “o kalòs”, come dice il testo greco: il “pastore bello”, l’unico in grado di amare, di proteggere il suo gregge, di ridare agli uomini quella dignità che Dio stesso ha riservato loro. Egli è il pastore che conduce verso la vita, verso i ricchi pascoli, verso il nutrimento divino; è colui che difende, che protegge dagli attacchi del maligno, che aiuta nei momenti di difficoltà; è il riferimento che indica dove andare, quale strada percorrere, come arrivarci. È il pastore che chiama le “sue” pecore una ad una: immagine bellissima; il suo essere nostro pastore arriva perfino a conoscere ciascuno di noi in profondità, intimamente, a chiamarci ciascuno per nome. Per Lui non contano i grandi numeri, le assemblee oceaniche; per Lui contano i singoli individui, ognuno col suo nome. I grandi numeri sono anche belli, danno soddisfazione, ma implicano l’anonimato, l’estraneità reciproca, il disinteresse.
Con Gesù invece ognuno si sente personalmente conosciuto, amato, scelto, accudito: ognuno di noi entra a far parte di Lui, della sua intimità, acquista con Lui una familiarità, una confidenza tale, da consentirci di riconoscere immediatamente la sua voce tra le migliaia di altre voci del mondo.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la nostra risposta individuale, come ci relazioniamo con Lui, se siamo cioè in grado di riconoscere la sua “voce” e soprattutto se la seguiamo.
Da notare come questa volta l'evangelista Giovanni, alludendo al Signore, non ricorra ai soliti termini “Verbo”, “Parola”, ma semplicemente al vocabolo “Voce”: una voce rassicurante, tranquilla, come in genere quella del pastore; forse perché si rende conto che una “terminologia” più impegnativa potrebbe scoraggiare persone deboli e confuse come noi; egli sa perfettamente che l’uomo ha bisogno assoluto di sentire la vicinanza costante di un “pastore” che, come Gesù, sia chiaro, comprensibile, alla sua portata; ha bisogno di una presenza benevola, rassicurante, invitante, una presenza che solo chi ha una “voce” amica può assicurargli.
Nel nostro cammino di fede è quindi normale incontrare il Signore, frequentarlo, cercare di seguirlo, ma è fondamentale prima di tutto riconoscere la sua voce, dargli del “tu”, entrare in confidenza con Lui, capire al volo le sue parole, instaurare con Lui un rapporto diretto di fiducia, di entusiasmo, di amicizia.
Gesù col Battesimo è entrato nel nostro “recinto”, ci ha chiamato per nome, ci ha chiesto di seguirlo lungo la via che ci riporta al Padre. Egli è la “porta delle pecore” attraverso cui tutti noi dobbiamo passare: è il “varco” attraverso cui dobbiamo uscire dal nostro “io”, dal recinto del nostro “egoismo” per seguirlo fedelmente.
Egli ci chiama e noi dobbiamo riconoscerlo: perché la sua è una voce che parla direttamente al cuore, una voce che salva, che riempie, che consola, che scuote, che perdona, che inquieta, che sconcerta.
Che un Gesù-Pastore ci conduca fuori dal “nostro recinto”, è bello, è rassicurante, certamente promettente: Dio non è uno che ci ostacola, non è uno che ci imprigiona dentro; è al contrario il Maestro, che ci vuole fuori, liberi, pronti a seguire docilmente quella strada su cui Egli ci precede dandoci sicurezza. Quante volte infatti Gesù ci chiama per nome proprio per farci uscire da certe situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalle nostre chiusure, per aprirci agli altri, per guardare l'altro come un fratello, una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva concentrazione su noi stessi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà.
Contemporaneamente però ogni volta Egli ci mette in guardia dai ladri, dai briganti, ci ricorda di essere prudenti, guardinghi: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore, che dicono di volere solo il tuo bene: stai attento perché spesso sono dei briganti, dei ladri, travestiti da pastori!”. Un avvertimento che dobbiamo avere sempre presente nella vita: ecco perché dobbiamo essere fermi, vigili, prudenti, intransigenti con chi cerca di conquistare la nostra fiducia con facili e allettanti prospettive. Non fidiamoci, non facciamoli entrare! Difendiamoci!
Dio ci ha donato la vita per vivere: noi siamo stati creati per crescere, per realizzarci, per diventare sempre più somiglianti a come Lui stesso ci ha pensati. Ogni volta che noi non lottiamo per noi stessi, per la nostra vita, che permettiamo al male di calpestare la nostra dignità, noi umiliamo noi stessi, tradiamo l’originale progetto divino della nostra persona, preferiamo rimanere oggetti manipolabili da chiunque, senza alcun valore. Siamo cioè pecore che invece di passare per la porta dell’ovile, al seguito del nostro pastore, preferiamo buttarci oltre il recinto, verso l’ignoto. Tutt’altra cosa sarà invece entrare nei pascoli della vita passando attraverso la “porta” di Gesù: allora tutto sarà più sopportabile, più agevole da affrontare, perché potremo contare sempre sulla sua presenza, sul suo amore. E saremo felici: sì, perché ci sentiremo non dei pecoroni allo sbaraglio, storditi dal delirio della contemporaneità, ma docili pecore guidate dall'unico Pastore che ci conosce singolarmente, che ci chiama per nome, che ci ama veramente! Ci sentiremo cristiani amati e appagati, perché ci sentiremo veramente partecipi di quella Chiesa, sogno del Risorto. E potremo diventare a nostra volta pastori entusiasti, capaci di Dio, chiamati a vegliare e a condurre i fratelli più deboli: non come mercenari tiranni, ma come custodi attenti, come guide responsabili nell’indicare in Cristo, con la nostra vita, l’unica porta sicura attraverso cui uscire dal recinto temporale per entrare anch’essi nei pascoli eterni della Vita e dell’Amore assoluto del Padre. Amen.

 

giovedì 20 aprile 2023

23 Aprile 2023 – III DOMENICA DI PASQUA


Lc 24,13-35 
Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. 
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Dopo la sconvolgente esperienza di Maria di Magdala e la corsa di Pietro e Giovanni al sepolcro, dopo il misterioso ingresso del Signore risorto nel cenacolo, dopo aver tranquillizzato i suoi e aver donato loro la pace, in quello stesso giorno dopo il sabato, Gesù risorto, non più soggetto a condizionamenti spazio temporali, raggiunge due discepoli, che lo avevano seguito fino a Gerusalemme, in cammino verso Emmaus.
Tornano a casa loro, scappano da quella città “maledetta” che uccide i profeti. Sono tristi, pensierosi, commentano a bassa voce le ultime tragiche vicende, si lamentano, si caricano a vicenda. La tristezza è palpabile, la delusione e l’amarezza sono profonde, insostenibili, terribili, arrivando a mettere in discussione l’operato di Dio.
Gesù si avvicina e cammina con loro. Ma essi non lo riconoscono; sono troppo frastornati, confusi dai loro ricordi. Del resto, come potrebbero? Non riescono a rialzare lo sguardo da loro stessi, dalla loro sofferenza, e non possono quindi incrociare lo sguardo amoroso del Signore. Sono così presi dal loro “sacrosanto” dolore, incapaci di uscire dalla spirale di quel nulla in cui sono precipitati dopo la scomparsa del loro maestro, da non accorgersi che Egli è lì, al loro fianco.
Uno stato d’animo destabilizzante che spesso capita anche a noi di sperimentare: quante volte infatti ci sentiamo depressi, ci lamentiamo di tutto e di tutti, niente ci sta bene: invecchiando poi, non sopportiamo più nulla; perfino le chiacchierate tra amici, lo scambio delle proprie impressioni, l’amabile conversare del nulla: sono tutte cose che ci irritano; nulla più ci soddisfa. Con Dio, poi, è un disastro. Diventiamo pretenziosi, irriverenti, quasi insolenti.
E Lui, di fronte alla nostra idiozia, al nostro vuoto pretenzioso, tace paziente. Tace suo malgrado, perché Dio ama discutere con noi; egli è il nostro moderatore, vuole che riflettiamo, che cerchiamo, che impariamo, che ci documentiamo. Egli, rispettoso e discreto, ci considera intelligenze capaci di capire, di arrivare a conclusioni ragionevoli e positive; ci chiede di essere audaci nell’interrogarci. Non vuole dei cristiani beoti: vuole gente convinta, battagliera. Solo che noi, non appena ci accorgiamo della sua presenza al nostro fianco lungo il percorso della vita, diventiamo immediatamente ombrosi, insofferenti; ci offendiamo: “ma come si permette Dio di mettere in discussione il nostro dolore? Che ne sa lui della “nostra” situazione attuale? Delle “nostre” preoccupazioni, dei “nostri” problemi? Che ne sa lui delle condizioni in cui siamo costretti a vivere oggi? della disoccupazione, della difficoltà di arrivare a fine mese, della situazione internazionale, delle guerre, del terrorismo, del malcostume generale che ci opprime? Perché mai vuole scuoterci da questo nostro dolore? In fin dei conti è un dolore che ci rassicura, ci dona identità, ci identifica; finiamo cioè di coltivare il dolore per sé stesso; il dolore diventa il nostro segno di riconoscimento, ci “esibiamo” nel nostro dolore, vogliamo che tutti ci vedano così, ci compiaciamo scioccamente di inutili cenni di compassione, di improbabili condivisione e benevolenza. Siamo proprio degli illusi! Il dolore non deve mai ridursi ad un fenomeno da baraccone, non è una maschera da indossare per ottenere ammirazione e consensi: il dolore vero nasce dalla constatazione della nostra precarietà, della nostra fragilità, dei nostri tradimenti, dell’essere delle nullità. È la sola via che alla fine ci porta a capire che Dio soltanto può consolarci veramente, che Lui solo può offrirci motivi validi per risorgere dal nostro nulla, dalla nostra fragilità di creature: perché Lui è il nostro Creatore, è Colui che conosce perfettamente il nostro cuore, la nostra anima, è Colui che ci ha plasmati a sua immagine e somiglianza, Colui che, guardandoci, ci ha trasmesso con un soffio il suo amore perenne, la sua vita immortale.
“Cosa è successo?” Chiede il risorto ai due. “È mai possibile – essi pensano - che questo intruso sia tanto svanito da non conoscere, almeno per sentito dire, quel che è successo a Gerusalemme?
Si sentono offesi; e ne hanno veramente motivo, perché il loro lutto è troppo grave: sono rimasti improvvisamente orfani della loro guida paterna, della loro unica speranza di miglioramento. E gli rispondono parlando della passione, della croce, della morte di Gesù: ma nulla. Lui, che li ha affiancati, sembra non ricordarsene; Lui che ha affrontato personalmente tutto questo, sembra non sapere nulla.
“Noi speravamo che fosse Lui il liberatore di Israele”: rispondono. Parole che rivelano la loro profonda frustrazione! “Noi speravamo”: solo che la speranza si riferisce sempre ad un futuro, non va mai declinata al passato come fanno loro, perché così significa ammettere un totale fallimento. Nella vita è sempre difficile accettare la fine di qualcosa d’importante: ma il fallimento della speranza è addirittura tragico, perché con la delusione che ne segue, è causa inevitabile della morte interiore. La delusione è la punta estrema del fallimento di ogni prospettiva: è un dolore sordo, che suscita rabbia, che aggiunge alla sofferenza il sospetto di essere stati ingannati; un dolore che ci destabilizza, che mette in dubbio l’efficacia di ogni nuovo progetto, che ci impedisce di riprendere coraggio, confinati in un cocente pessimismo, tra speranze abbandonate e sofferenze dell’anima insopportabili. Eppure lì, proprio nel più profondo all’anima, alla soglia dello smarrimento finale, Dio ci aspetta con tutto il suo amore: Egli sa, ed è lì per ascoltarci, per soccorrerci, per rimetterci in piedi e camminare insieme a noi.
Noi speravamo” insistono i due: “ma siamo stati proprio degli stupidi a voler seguire il Nazareno, a credere che fosse lui il Messia! Che ingenui!”. “Speravamo, ma ci siamo illusi, siamo stati degli idioti abissali, non abbiamo giustificazioni! La nostra speranza è morta lassù, su quella maledetta croce. È morta e sepolta con Gesù, nel suo sepolcro”.
Ebbene: quanti ne abbiamo conosciuti di discepoli come questi, tristi e rassegnati! “Noi speravamo”, continuano a ripetersi. E non si accorgono che il Signore, creduto ancora morto, cammina con loro. I due si aspettano comprensione da questo compagno occasionale: si aspettano compassione, condivisione. Ottengono invece un sonoro schiaffone: “Stolti e tardi di comprendonio”, dice loro Gesù: “Stupidi, ignoranti!”. La sua è una evidente provocazione: vuole scuoterli, costringerli ad alzare lo sguardo, a guardare avanti. Dobbiamo infatti capire che non sempre chi ci dà una carezza ci vuole bene, e non sempre chi ci dà uno schiaffo ci vuole male. A volte nella vita un energico scossone ci distoglie dalla sofferenza, dall’autocommiserazione, e ci aiuta a vedere le cose in maniera diversa, in una prospettiva nuova, più costruttiva.
Essi si scuotono, è vero, ma continuano a non capire: “cosa sta dicendo questo sconosciuto? Come si permette?”. “Sciocchi e incapaci di capire le Scritture”, insiste lui. E giù a spiegare il senso di quella sofferenza, della Sua sofferenza, della Sua passione e morte, aiutandoli a rileggere gli ultimi eventi in una chiave diversa, più ampia, a leggere il dolore alla luce del grande disegno di Dio, perché i discepoli del risorto, non possono, non devono fermarsi alla croce, alla morte! Il loro sguardo deve trasmettere risurrezione!
Le parole di Gesù, è vero, sembrano offensive: ma dicono tantissimo a loro e a noi, perché il problema, quello vero, non è l’assenza di Dio, il fatto che Dio improvvisamente sia mancato al nostro sguardo, ma la nostra incapacità di vederlo, di riconoscerlo, la nostra tragica miopia. Siamo tutti talmente concentrati su noi stessi, sui nostri problemi, da non essere in grado di riconoscerlo neppure quando ci cammina accanto, quando ci aiuta ad attraversare la strada, ad evitare le buche e i pericoli del percorso. Egli è costantemente con noi; cammina sempre al nostro fianco: e continua a spiegarci pazientemente l’incomprensibile: ossia come Dio abbia accettato di cambiare sé stesso per adeguarsi alla nostra situazione, di abbandonare la sua rassicurante eternità, la perfetta autosufficienza, l’immobilità beata, per sporcarsi le mani con noi; ecco perché si è messo in viaggio, quel viaggio lunghissimo che l’ha portato dall’eterno al finito, dall’essere Dio al diventare uomo, dalla perfezione assoluta alla precaria incarnazione umana. E tutto ciò per amore, soltanto per amore. E continua a “camminare” con noi, perché non può fare a meno di noi: Egli ci ama e, si sa, l’amore è sempre in movimento: e a fronte di quel pochissimo che chiede, ci restituisce di gran lunga, in assoluto,  più di chiunque altro. 
Gesù dunque spiega loro le Scritture, apre loro l’intelligenza; e, attraverso la Parola, essi possono finalmente capire cosa è veramente successo... 
È un momento di grande tensione: i due ─ pur essendo stati amabilmente insultati ─ ascoltano col fiato sospeso. Non fanno gli offesi, anzi... percepiscono che quel tale li sta aiutando ad interpretare gli eventi, a capirli in profondità. Il loro cuore finalmente si riscalda. Poi il tepore diventa calore, il caldo diventa fuoco dalle ardenti fiamme incontenibili.
È così che Gesù ci educa; è così che ci insegna a fortificare la nostra fede: non prendendo vigore dallo stupore per i suoi miracoli, ma dal fascino che nasce da ogni parola e da ogni gesto con cui egli trasmette il suo messaggio d’amore. Egli allude proprio a questo quando, alla nostra richiesta di restare con noi, ci mette in condizione di superare ogni tristezza, ogni solitudine, il nostro vuoto, la nostra delusione...
Arrivati intanto al villaggio, Gesù con un sorriso saluta i discepoli. Ma essi, ancora incerti e impauriti, vengono presi nuovamente dal panico: “Come, te ne vai già? Resta con noi, è buio, fermati!”. E il Signore si ferma, resta con loro. Si ferma e resta con noi: Egli non ci abbandona, si ferma eccome! Perché è Lui che vuole “fermarsi”, è Lui che vuole “restare con noi”: è sufficiente che noi glielo chiediamo! E Gesù entra con loro.
Se lo invitiamo, Egli entra con ciascuno di noi: entra nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle nostre chiese, nelle nostre comunità, nei nostri cuori martirizzati. “Mane nobiscum Domine, rimani con noi Signore, perché si fa sera e il giorno sta per finire!”. No, Signore, non andartene! Non lasciarci mai soli, soprattutto in questi momenti, quando il giorno della nostra vita sta per concludersi!
Ed è qui, grazie alla sua presenza, che avviene il miracolo: durante la cena, allo spezzar del pane, gli occhi dei due finalmente si aprono, e lo riconoscono! “Ma egli sparì dalla loro vista”.
Scompare: noi non lo vediamo, ma Lui non se ne va: non può abbandonarci, non può lasciarci soli, mai! Lo ha promesso: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Cristo risorto, vivo, continua pazientemente a camminare al nostro fianco, a fianco di ogni uomo, gli parla con la sua Parola, si dona a lui nell’Eucaristia, lo nutre, lo illumina, lo guida attraverso tutte le Emmaus del mondo, verso quella salvezza che non conosce più “tramonti”, quella salvezza illuminata perennemente dalla luce del mattino di Pasqua, l’unica luce destinata a non scomparire mai. Amen.