Gv 10,1-10
«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».
Ma non è proprio così: le sue
parole, vanno poste al contrario in un contesto di dura realtà, sono critiche severe,
di aperta denuncia; indirizzate alle autorità religiose, in risposta all’aperta
avversione da queste più volte dimostrata nei confronti di Gesù.
Siamo infatti in prossimità del
Tempio, esattamente all’ingresso chiamato “Porta delle pecore”, particolare che
sicuramente avrà offerto a Gesù lo spunto per parlare di pastori e di greggi.
Davanti e intorno a lui si è schierata tutta la classe religiosa, forte,
arrogante, particolarmente agguerrita, che in quel nuovo e grandioso tempio
ricostruito da Erode si sente nel proprio ambiente esclusivo: sono gli scribi,
conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che
rimaneva del potere giudeo, e infine i farisei, gli ultras della fede, i duri e
puri.
Gesù, con voce ferma e
solenne, si rivolge ad essi con un lungo discorso che potremmo così
parafrasare: “Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni
legali, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto
a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza poter capire o ribattere alcunché.
Avete distorto l’aspetto essenziale della religiosità, il volto amorevole del
Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in
termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità usurpata. Non
vi importa nulla di come e di cosa vive la gente; voi la giudicate e basta, la
usate per i vostri comodi. Ora però la gente non vi ascolta più, non ha più
fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da
pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai
scordarsi la sua origine e la sua missione. Io sono quel pastore”.
Questo in pratica è quanto Gesù
afferma nella sua requisitoria, consapevole della gravità delle sue parole,
cosciente della durezza del suo giudizio. Il popolo che lo segue, infatti, è
stanco di mercenari senza scrupoli, di pastori ingordi e ladri, di parolai senza
vergogna. La gente vuole ascoltare parole nuove, parole che nascono dal cuore,
proclamate con amore, con passione, con la forza della verità: vuole ascoltare messaggi
positivi, come dimostrano le folle che accorrono ad ascoltare il suo “Vangelo”,
il suo annuncio “buono”.
E cosa dice Gesù, il
messia-pastore, di tanto importante, di così promettente, a gente tanto provata
e demotivata? Che Lui è l’unico pastore in grado di farli uscire da quella
“prigione” morale in cui sono rinchiusi, per portarli ai liberi pascoli del
Padre. Egli solo è il “buon” pastore: anzi lui solo è il pastore “o kalòs”, come dice il testo greco: il “pastore bello”, l’unico
in grado di amare, di proteggere il suo gregge, di ridare agli uomini quella
dignità che Dio stesso ha riservato loro. Egli è il pastore che conduce verso
la vita, verso i ricchi pascoli, verso il nutrimento divino; è colui che difende,
che protegge dagli attacchi del maligno, che aiuta nei momenti di difficoltà; è
il riferimento che indica dove andare, quale strada percorrere, come arrivarci.
È il pastore che chiama le “sue” pecore una ad una: immagine bellissima; il suo
essere nostro pastore arriva perfino a conoscere ciascuno di noi in profondità,
intimamente, a chiamarci ciascuno per nome. Per Lui non contano i grandi
numeri, le assemblee oceaniche; per Lui contano i singoli individui, ognuno col
suo nome. I grandi numeri sono anche belli, danno soddisfazione, ma implicano l’anonimato,
l’estraneità reciproca, il disinteresse.
Con Gesù invece ognuno si
sente personalmente conosciuto, amato, scelto, accudito: ognuno di noi entra a
far parte di Lui, della sua intimità, acquista con Lui una familiarità, una
confidenza tale, da consentirci di riconoscere immediatamente la sua voce tra
le migliaia di altre voci del mondo.
Per Gesù non contano i ruoli,
gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la nostra risposta individuale, come
ci relazioniamo con Lui, se siamo cioè in grado di riconoscere la sua “voce” e soprattutto
se la seguiamo.
Da notare come questa volta
l'evangelista Giovanni, alludendo al Signore, non ricorra ai soliti termini
“Verbo”, “Parola”, ma semplicemente al vocabolo “Voce”: una voce rassicurante,
tranquilla, come in genere quella del pastore; forse perché si rende conto che
una “terminologia” più impegnativa potrebbe scoraggiare persone deboli e
confuse come noi; egli sa perfettamente che l’uomo ha bisogno assoluto di
sentire la vicinanza costante di un “pastore” che, come Gesù, sia chiaro, comprensibile,
alla sua portata; ha bisogno di una presenza benevola, rassicurante, invitante,
una presenza che solo chi ha una “voce” amica può assicurargli.
Nel nostro
cammino di fede è quindi normale incontrare il Signore, frequentarlo, cercare
di seguirlo, ma è fondamentale prima di tutto riconoscere la sua voce, dargli
del “tu”, entrare in confidenza con Lui, capire al volo le sue parole,
instaurare con Lui un rapporto diretto di fiducia, di entusiasmo, di amicizia.
Gesù col Battesimo è entrato nel nostro “recinto”, ci
ha chiamato per nome, ci ha chiesto di seguirlo lungo la via che ci riporta al
Padre. Egli è la “porta delle pecore” attraverso cui tutti noi dobbiamo
passare: è il “varco” attraverso cui dobbiamo uscire dal nostro “io”, dal
recinto del nostro “egoismo” per seguirlo fedelmente.
Egli ci chiama e noi dobbiamo riconoscerlo: perché la
sua è una voce che parla direttamente al cuore, una voce che salva, che
riempie, che consola, che scuote, che perdona, che inquieta, che sconcerta.
Che un Gesù-Pastore ci conduca fuori dal “nostro
recinto”, è bello, è rassicurante, certamente promettente: Dio non è uno che ci
ostacola, non è uno che ci imprigiona dentro; è al contrario il Maestro, che ci
vuole fuori, liberi, pronti a seguire docilmente quella strada su cui Egli ci
precede dandoci sicurezza. Quante volte infatti Gesù ci chiama per nome proprio
per farci uscire da certe situazioni particolari che mortificano la nostra
vita, per farci uscire dal nostro io, dalle nostre chiusure, per aprirci agli
altri, per guardare l'altro come un fratello, una sorella; ci fa uscire
dall’eccessiva concentrazione su noi stessi, per aprirci alla gratuità, alla
solidarietà.
Contemporaneamente però ogni volta Egli ci mette in
guardia dai ladri, dai briganti, ci ricorda di essere prudenti, guardinghi:
“Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in
nome dell'amore, che dicono di volere solo il tuo bene: stai attento perché spesso
sono dei briganti, dei ladri, travestiti da pastori!”. Un avvertimento che
dobbiamo avere sempre presente nella vita: ecco perché dobbiamo essere fermi, vigili,
prudenti, intransigenti con chi cerca di conquistare la nostra fiducia con
facili e allettanti prospettive. Non fidiamoci, non facciamoli entrare!
Difendiamoci!
Dio ci ha donato la vita per
vivere: noi siamo stati creati per crescere, per realizzarci, per diventare
sempre più somiglianti a come Lui stesso ci ha pensati. Ogni volta che noi non
lottiamo per noi stessi, per la nostra vita, che permettiamo al male di
calpestare la nostra dignità, noi umiliamo noi stessi, tradiamo l’originale
progetto divino della nostra persona, preferiamo rimanere oggetti manipolabili
da chiunque, senza alcun valore. Siamo cioè pecore che invece di passare per la
porta dell’ovile, al seguito del nostro pastore, preferiamo buttarci oltre il
recinto, verso l’ignoto. Tutt’altra cosa sarà invece entrare nei pascoli della
vita passando attraverso la “porta” di Gesù: allora tutto sarà più
sopportabile, più agevole da affrontare, perché potremo contare sempre sulla
sua presenza, sul suo amore. E saremo felici: sì, perché ci sentiremo non dei
pecoroni allo sbaraglio, storditi dal delirio della contemporaneità, ma docili
pecore guidate dall'unico Pastore che ci conosce singolarmente, che ci chiama
per nome, che ci ama veramente! Ci sentiremo cristiani amati e appagati, perché
ci sentiremo veramente partecipi di quella Chiesa, sogno del Risorto. E potremo
diventare a nostra volta pastori entusiasti, capaci di Dio, chiamati a vegliare
e a condurre i fratelli più deboli: non come mercenari tiranni, ma come custodi
attenti, come guide responsabili nell’indicare in Cristo, con la nostra vita,
l’unica porta sicura attraverso cui uscire dal recinto temporale per entrare
anch’essi nei pascoli eterni della Vita e dell’Amore assoluto del Padre. Amen.
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