giovedì 27 aprile 2023

30 Aprile 2023 – IV DOMENICA DI PASQUA


Gv 10,1-10 
«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. 
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

 Le parole di Gesù riportate oggi dal vangelo di Giovanni, possono sembrare dolci, rassicuranti, lusinghiere: forse perché le colleghiamo alle tante immagini di un “buon pastore” patinato, con barba curatissima, capelli fluenti, un lungo bastone in mano e un grazioso agnellino sulle spalle, che precede, con sguardo sognante, alcune pecore belanti e mansuete.
Ma non è proprio così: le sue parole, vanno poste al contrario in un contesto di dura realtà, sono critiche severe, di aperta denuncia; indirizzate alle autorità religiose, in risposta all’aperta avversione da queste più volte dimostrata nei confronti di Gesù.
Siamo infatti in prossimità del Tempio, esattamente all’ingresso chiamato “Porta delle pecore”, particolare che sicuramente avrà offerto a Gesù lo spunto per parlare di pastori e di greggi. Davanti e intorno a lui si è schierata tutta la classe religiosa, forte, arrogante, particolarmente agguerrita, che in quel nuovo e grandioso tempio ricostruito da Erode si sente nel proprio ambiente esclusivo: sono gli scribi, conoscitori della scrittura e della Legge, i sacerdoti, detentori di quel che rimaneva del potere giudeo, e infine i farisei, gli ultras della fede, i duri e puri.
Gesù, con voce ferma e solenne, si rivolge ad essi con un lungo discorso che potremmo così parafrasare: “Avete imprigionato il popolo in un recinto fatto di prescrizioni legali, di lacci e di lacciuoli, di regole e di interdizioni. Lo avete ridotto a un gregge di pecoroni, costretti ad obbedire senza poter capire o ribattere alcunché. Avete distorto l’aspetto essenziale della religiosità, il volto amorevole del Dio di Israele. E lo avete fatto perché avete tutti il vostro tornaconto in termini di potere, di denaro, di influenza politica, di dignità usurpata. Non vi importa nulla di come e di cosa vive la gente; voi la giudicate e basta, la usate per i vostri comodi. Ora però la gente non vi ascolta più, non ha più fiducia in voi. La gente aspetta un nuovo re-messia, come quel Davide che da pastore è diventato condottiero, senza mai montarsi la testa, senza mai scordarsi la sua origine e la sua missione. Io sono quel pastore”.
Questo in pratica è quanto Gesù afferma nella sua requisitoria, consapevole della gravità delle sue parole, cosciente della durezza del suo giudizio. Il popolo che lo segue, infatti, è stanco di mercenari senza scrupoli, di pastori ingordi e ladri, di parolai senza vergogna. La gente vuole ascoltare parole nuove, parole che nascono dal cuore, proclamate con amore, con passione, con la forza della verità: vuole ascoltare messaggi positivi, come dimostrano le folle che accorrono ad ascoltare il suo “Vangelo”, il suo annuncio “buono”.
E cosa dice Gesù, il messia-pastore, di tanto importante, di così promettente, a gente tanto provata e demotivata? Che Lui è l’unico pastore in grado di farli uscire da quella “prigione” morale in cui sono rinchiusi, per portarli ai liberi pascoli del Padre. Egli solo è il “buon” pastore: anzi lui solo è il pastore “o kalòs”, come dice il testo greco: il “pastore bello”, l’unico in grado di amare, di proteggere il suo gregge, di ridare agli uomini quella dignità che Dio stesso ha riservato loro. Egli è il pastore che conduce verso la vita, verso i ricchi pascoli, verso il nutrimento divino; è colui che difende, che protegge dagli attacchi del maligno, che aiuta nei momenti di difficoltà; è il riferimento che indica dove andare, quale strada percorrere, come arrivarci. È il pastore che chiama le “sue” pecore una ad una: immagine bellissima; il suo essere nostro pastore arriva perfino a conoscere ciascuno di noi in profondità, intimamente, a chiamarci ciascuno per nome. Per Lui non contano i grandi numeri, le assemblee oceaniche; per Lui contano i singoli individui, ognuno col suo nome. I grandi numeri sono anche belli, danno soddisfazione, ma implicano l’anonimato, l’estraneità reciproca, il disinteresse.
Con Gesù invece ognuno si sente personalmente conosciuto, amato, scelto, accudito: ognuno di noi entra a far parte di Lui, della sua intimità, acquista con Lui una familiarità, una confidenza tale, da consentirci di riconoscere immediatamente la sua voce tra le migliaia di altre voci del mondo.
Per Gesù non contano i ruoli, gli uffici, le gerarchie; per Gesù conta la nostra risposta individuale, come ci relazioniamo con Lui, se siamo cioè in grado di riconoscere la sua “voce” e soprattutto se la seguiamo.
Da notare come questa volta l'evangelista Giovanni, alludendo al Signore, non ricorra ai soliti termini “Verbo”, “Parola”, ma semplicemente al vocabolo “Voce”: una voce rassicurante, tranquilla, come in genere quella del pastore; forse perché si rende conto che una “terminologia” più impegnativa potrebbe scoraggiare persone deboli e confuse come noi; egli sa perfettamente che l’uomo ha bisogno assoluto di sentire la vicinanza costante di un “pastore” che, come Gesù, sia chiaro, comprensibile, alla sua portata; ha bisogno di una presenza benevola, rassicurante, invitante, una presenza che solo chi ha una “voce” amica può assicurargli.
Nel nostro cammino di fede è quindi normale incontrare il Signore, frequentarlo, cercare di seguirlo, ma è fondamentale prima di tutto riconoscere la sua voce, dargli del “tu”, entrare in confidenza con Lui, capire al volo le sue parole, instaurare con Lui un rapporto diretto di fiducia, di entusiasmo, di amicizia.
Gesù col Battesimo è entrato nel nostro “recinto”, ci ha chiamato per nome, ci ha chiesto di seguirlo lungo la via che ci riporta al Padre. Egli è la “porta delle pecore” attraverso cui tutti noi dobbiamo passare: è il “varco” attraverso cui dobbiamo uscire dal nostro “io”, dal recinto del nostro “egoismo” per seguirlo fedelmente.
Egli ci chiama e noi dobbiamo riconoscerlo: perché la sua è una voce che parla direttamente al cuore, una voce che salva, che riempie, che consola, che scuote, che perdona, che inquieta, che sconcerta.
Che un Gesù-Pastore ci conduca fuori dal “nostro recinto”, è bello, è rassicurante, certamente promettente: Dio non è uno che ci ostacola, non è uno che ci imprigiona dentro; è al contrario il Maestro, che ci vuole fuori, liberi, pronti a seguire docilmente quella strada su cui Egli ci precede dandoci sicurezza. Quante volte infatti Gesù ci chiama per nome proprio per farci uscire da certe situazioni particolari che mortificano la nostra vita, per farci uscire dal nostro io, dalle nostre chiusure, per aprirci agli altri, per guardare l'altro come un fratello, una sorella; ci fa uscire dall’eccessiva concentrazione su noi stessi, per aprirci alla gratuità, alla solidarietà.
Contemporaneamente però ogni volta Egli ci mette in guardia dai ladri, dai briganti, ci ricorda di essere prudenti, guardinghi: “Stai attento, dice, perché sono molti quelli che vengono in nome di Dio e in nome dell'amore, che dicono di volere solo il tuo bene: stai attento perché spesso sono dei briganti, dei ladri, travestiti da pastori!”. Un avvertimento che dobbiamo avere sempre presente nella vita: ecco perché dobbiamo essere fermi, vigili, prudenti, intransigenti con chi cerca di conquistare la nostra fiducia con facili e allettanti prospettive. Non fidiamoci, non facciamoli entrare! Difendiamoci!
Dio ci ha donato la vita per vivere: noi siamo stati creati per crescere, per realizzarci, per diventare sempre più somiglianti a come Lui stesso ci ha pensati. Ogni volta che noi non lottiamo per noi stessi, per la nostra vita, che permettiamo al male di calpestare la nostra dignità, noi umiliamo noi stessi, tradiamo l’originale progetto divino della nostra persona, preferiamo rimanere oggetti manipolabili da chiunque, senza alcun valore. Siamo cioè pecore che invece di passare per la porta dell’ovile, al seguito del nostro pastore, preferiamo buttarci oltre il recinto, verso l’ignoto. Tutt’altra cosa sarà invece entrare nei pascoli della vita passando attraverso la “porta” di Gesù: allora tutto sarà più sopportabile, più agevole da affrontare, perché potremo contare sempre sulla sua presenza, sul suo amore. E saremo felici: sì, perché ci sentiremo non dei pecoroni allo sbaraglio, storditi dal delirio della contemporaneità, ma docili pecore guidate dall'unico Pastore che ci conosce singolarmente, che ci chiama per nome, che ci ama veramente! Ci sentiremo cristiani amati e appagati, perché ci sentiremo veramente partecipi di quella Chiesa, sogno del Risorto. E potremo diventare a nostra volta pastori entusiasti, capaci di Dio, chiamati a vegliare e a condurre i fratelli più deboli: non come mercenari tiranni, ma come custodi attenti, come guide responsabili nell’indicare in Cristo, con la nostra vita, l’unica porta sicura attraverso cui uscire dal recinto temporale per entrare anch’essi nei pascoli eterni della Vita e dell’Amore assoluto del Padre. Amen.

 

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