giovedì 6 ottobre 2022

09 Ottobre 2022 - XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17, 11-19
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 Gesù entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era infatti un morto vivente, un escluso, uno che non poteva avere più contatti con nessuno, che andava assolutamente evitato. Avere la lebbra significava essere condannato a morte lenta. Qualora il malato guarisse, cosa molto rara, aveva l’obbligo di presentarsi, prima di tutto, ai sacerdoti del tempio, l’unica autorità che, dopo averlo sottoposto a severi controlli rituali, era in grado di dichiararlo “puro”, cioè guarito, e quindi libero di reinserirsi nella società. 
Qui Gesù – contrariamente al suo solito nei casi di guarigione - non fa ai dieci nulla di particolare: non li tocca, non si informa su di loro, sulla loro vita, non li guarisce immediatamente. Si limita semplicemente a mandarli dai sacerdoti, così come sono, ancora malati, ancora lebbrosi. Come mai? Non poteva prima guarirli? Oppure la guarigione dipendeva proprio da questo loro “andare” dai sacerdoti? In effetti è così: i poveretti non chiedono spiegazioni, non oppongono alcuna resistenza, ma eseguono immediatamente l’ordine di Gesù: essi credono sinceramente in Lui, hanno una fede profonda, sono convinti che Lui li guarirà. 
Non doveva essere facile per loro presentarsi a quell’autorità che, proprio per la loro malattia, li aveva cacciati, segregandoli dalla comunità; tuttavia essi, senza frapporre indugi, sfidano a testa alta il giudizio del pubblico e delle stesse autorità. Ecco; il segreto della loro guarigione sta proprio qui: nell’aver recuperato, grazie a Gesù, la fiducia in sé stessi, una fiducia che li determina ad affrontare e risolvere questa loro situazione particolarmente difficile e problematica. 
Se anche noi non proviamo a muoverci, a raggiungere concretamente una migliore condizione di vita, un ideale, un sogno, saremo sempre fermi nelle retrovie, non riusciremo mai a raggiungere alcun traguardo. Così, se non siamo convinti che Dio ci ama, che Lui può cambiare la nostra condizione, se dubitiamo, se siamo scettici, non potremo mai collaborare con Lui alla nostra “guarigione”. Se rimaniamo nell’idea di non poter mai guarire, in nessun modo, non guariremo mai! 
Se ci troviamo in qualche situazione critica, particolarmente brutta, negativa, vergognosa, il nostro naturale impulso è quello di nasconderci, di scappare, di isolarci, per evitare di dover fornire spiegazioni a chiunque ci conosce. Gesù invece ordina: “Fuori. Hai paura di esporti? Bene: è lì che devi andare! Vai, cammina, apriti, fatti vedere, chiedi aiuto e agisci: non vergognarti di rimediare, di guarire”.  
Ai lebbrosi che invocano la sua misericordia, Egli non dice: “Mettetevi qui a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”; egli cioè ordina loro di raggiungere una destinazione ben precisa, una strada da percorrere, non un rassegnato immobilismo, una staticità passiva. Qualunque “richiesta” di aiuto, qualunque preghiera rivolta a Dio, presuppone quindi una convinta disponibilità a soddisfare le sue condizioni, altrimenti le nostre preghiere, le nostre richieste, si riducono ad un inutile lamento, ad una filastrocca di suppliche vuote e superficiali. Per pregare Dio con fede vera, dobbiamo prima di tutto spogliarci completamente del nostro “ego”, delle nostre pretese, delle nostre presunzioni; quindi, spalancare la nostra mente, liberare da ogni costrizione il nostro cuore, la nostra anima, completamente disponibili a muoverci, a partire, a cambiare direzione, a fare esattamente cioè quello che Gesù ci chiede.
Non cadiamo in un qualunquismo religioso, non trasformiamo il Vangelo, la Parola di Dio, in una egoistica e distorta religione personale, a servizio esclusivo di ciò che ci fa comodo: non pretendiamo che Dio sia sempre pronto ad intervenire con i suoi miracoli, ad ogni nostro minimo cenno. I miracoli avvengono, certamente, di continuo, ma solo per chi crede in Dio seriamente, con una fede autentica, intima, cristallina, per chi ha stabilito con Lui un rapporto sincero di convivenza, di collaborazione; Lui, infatti, non può intervenire a favore di qualcuno, quando dall’altra parte non c’è alcun interesse, ma solo il vuoto, il nulla. Non basta averne bisogno, non basta volerlo, tanto meno pretenderlo: il miracolo, la nostra guarigione, si verificherà solo se noi la chiediamo umilmente, con fede, se ne siamo convinti, se ci mettiamo completamente a sua disposizione. 
Altro particolare importante nel racconto di Luca: tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare Gesù. Come mai? Perché, sottolinea, soltanto quell’uno si è accorto di essere stato guarito: “vedendosi guarito. Ebbene: è proprio questa constatazione improvvisa che riempie il suo cuore di gioia, di soddisfazione, ma soprattutto di riconoscenza. All’inizio tutti e dieci sono unanimi nel chiedere, sono tutti ugualmente spinti dallo stesso desiderio, ma a cose fatte, uno solo “vede”, uno solo si accorge, uno solo si rende conto di ciò che gli è successo: riconosce cioè che quanto accadutogli, è un dono soprannaturale incommensurabile, una immeritata benedizione divina. E gli altri? Il vangelo non dice nulla, non ne parla: hanno eseguito materialmente l’ordine di Gesù, sono andati dai sacerdoti, sono guariti: punto. Hanno obbedito al suo ordine, e si sentono a posto; l’idea del “grazie” non li sfiora, la loro fede è rimasta ferma ad uno sterile livello “contabile”: tu mi ordini una cosa, io la eseguo, entrambi siamo pari. Non hanno “visto”, non si sono accorti del “dono”; non sono stati “toccati” nel profondo dell’anima; sono guariti dalla malattia esteriore, epidermica, ma non da quella interiore, dalla loro superficialità, dal loro disinteresse, dalla loro aridità, dalla loro “cecità” spirituale: sono guariti, ma non hanno “visto” Dio. Non hanno percepito nulla: nessun sussulto, nessuna meraviglia, nessuna gratitudine, nessun pensiero di lode, nessun ringraziamento: erano assetati, hanno chiesto un bicchier d'acqua, hanno bevuto, e tutto è finito lì: non hanno capito che a pochi passi da loro c’era la “Sorgente di acqua limpida”, dalla quale potevano attingere e bere a volontà, potevano inondare l’anima, il cuore, di quella stessa Forza, di quell’Amore, che poco prima li aveva gratuitamente e generosamente lavati, purificati, guariti. 
Solo le persone aride, presuntuose, arroganti, pensano che nella vita tutto sia loro dovuto: sono sempre insoddisfatte, insofferenti, vantano continuamente pretese sempre più alte, esagerate, eccessive: i privilegi, i favori, i doni, a loro non bastano mai; anzi, sono un loro “diritto”, ottenuto il quale, proprio perché “dovuto”, non è previsto alcun “grazie”, alcuna riconoscenza. 
C’è da dire che la gente in genere è molto avara nel ringraziare. Anche noi cristiani “praticanti” siamo, in questo, particolarmente distratti: siamo anche noi un po’ refrattari alla gratitudine. Prendiamo per esempio la grande occasione che abbiamo per esprimere il nostro “grazie” a Dio: mi riferisco alla Messa, alla nostra “Eucarestia”, (dal greco eukarizomai, ringraziare, esprimere gratitudine, riconoscenza): dovrebbe rappresentare per tutti l’opportunità ideale, la celebrazione perfetta, in cui “rendere grazie” ufficialmente a Dio, per averci son solo “riscattati” dal peccato originale, grazie al sacrificio di Gesù, suo Figlio: ma anche per le successive, continue “guarigioni” dalle nostre malattie spirituali, per la sua costante presenza di “pronto intervento” nella nostra vita. Purtroppo, dobbiamo invece ammettere che le nostre Eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; sono viste perlopiù come un precetto, un obbligo da compiere; sono tristi, senza gioia, senza vitalità, senza passione; non c'è sussulto, non c’è calore, non c’è “partecipazione”, non c’è soprattutto “ringraziamento”: esserci o non esserci è indifferente per la giornata, quella che dovrebbe essere la nostra “dies dominica”: non riusciamo a “vedere”, non ci “accorgiamo”, non ci rendiamo conto del “passaggio” di Dio, della sua presenza; non ci interessa ascoltare e capire con profitto la sua Parola; non diamo insomma alcun peso a quel divino “memoriale” dell’estremo sacrificio e dell’amore di Cristo per noi, che al contrario meriterebbe un “grazie” ininterrotto, lungo come l’intera nostra vita. 
Tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, è assolutamente gratuito: noi non ci meritiamo nulla, nulla ci è dovuto, tutto è dono, tutto è grazia: è insomma la conferma che tutti noi rappresentiamo una minuscola tessera di quell’immenso, meraviglioso mosaico divino, di quel mistero incomprensibile di Dio-amore, di quel mistero che ci trascende, che ci supera vertiginosamente, nel quale scoprirci totalmente immersi. 
Ecco perché dobbiamo fare del nostro vivere una lode perenne a Dio: per dimostrare la felicità intima, profonda, concreta, di saperci amati come figli suoi; per esprimere la gioia umile e serena di dirgli sempre di sì, per accoglierlo in noi, per dargli voce, per “tornare indietro” continuamente, per esternargli la nostra riconoscenza di autentici “miracolati”: perché è grazie a Lui che abbiamo “visto” e abbiamo “toccato con mano” i segni del suo infinito, insostituibile amore. Amen. 



giovedì 29 settembre 2022

02 Ottobre 2022 - XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17, 5-10
«In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: Sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di maturare, di capire, di crescere; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già ad un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non stabilisce neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero affrontare, per raggiungere un livello ottimale di efficienza; si limita semplicemente a dire che se avessero una quantità di fede, anche solo minima, sarebbero in grado di realizzare le imprese più ardue: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Da notare le caratteristiche opposte dei due elementi: un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile; il gelso, invece, è un albero secolare che ha radici molto profonde, che si saldano tenacemente col terreno: è un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si trasferisca addirittura nel mare, ad un solo soffio di volontà, beh non solo è difficile, ma realisticamente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta un soffio di fede, una fede microscopica, purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile. In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
La fede infatti è fondamentale: nel vangelo troviamo molti riferimenti sulla sua importanza: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a sapere se la nostra fede è veramente all’altezza, se abbiamo cioè una fede autentica, di completa fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: dobbiamo osservare come reagiamo di fronte alle difficoltà che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Dobbiamo spostare il “gelso”, l’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Quel gelso fastidioso, che è paura dell’ignoto, di non essere all’altezza, di rimanere soli, di malattie improvvise, di dover morire? Sicuramente la nostra prima ovvia reazione è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai a sradicarlo quel gelso! È un’impresa troppo grande, impossibile per me”. Invece no! ci assicura Gesù: “se hai anche un briciolo di fede (il granello di senape!), tu ci riuscirai sicuramente, perché con essa puoi fare miracoli”. Niente infatti sarà impossibile con un po’ di fede, niente sarà più insuperabile, niente insopportabile.
Allora capiremo finalmente che aver fede non è una questione di “quantità”, (“Accresci in noi la fede, aumentala, dammene di più”), ma solo una questione di “qualità”: la fede in Dio, cioè, dev’essere necessariamente sincera, autentica, profonda.
Non cadiamo nell’errore di identificare “l’aver fede” con “l’andare in chiesa”: sono due cose diverse. “L’andare in chiesa a pregare” non implica automaticamente anche il “farlo con fede: “io vado in chiesa, prego, e questo significa che ho fede”; non è vero: tant’è che chi prega, non sempre lo fa con fede: ci sono tanti, infatti, che pregano solo per ottenere qualcosa, per soddisfare il proprio esibizionismo, il proprio egoismo, quasi per “sfidare” Dio, per costringerlo ad ascoltarli! In quante Eucaristie la fede sembra completamente assente negli stessi ministri: si comportano distrattamente, con la testa altrove; eseguono riti e movimenti meccanicamente, per abitudine, nonostante Cristo in persona, con la sua carne e il suo sangue, sia presente (“hic et nunc”) proprio tra le loro mani! Non parliamo poi di noi “fedeli”, in quella stessa occasione: un disastro! Ritardi, convenevoli, chiacchere, cellulari, noia, sguardi nel vuoto: tutto meno che fede! Noi, poi, siamo convinti che partecipare a raduni di preghiera esclusivi, magari con esibizioni e coreografie spettacolari, che visitare santuari di fama internazionale, con folle urlanti e distratte, siano occasioni irrinunciabili, uniche, per dimostrare agli altri la nostra “grande” fede; e non ci rendiamo conto invece che spiritualmente è molto più proficuo, più edificante per tutti, partecipare con devozione, nella propria sconosciuta parrocchia, all’Eucaristia domenicale, nella quale, in un contesto più riservato e umile, lontano da folle invadenti, chiassose, innamorate di protagonismo, possiamo incontrare Dio, possiamo ospitarlo realmente, concretamente dentro di noi, condividendo con Lui momenti intensi, personali, profondi, della nostra vita. 
La fede non è esibizionismo! È una disposizione intima dell’anima, del cuore, è prestare attenzione a Dio, alla sua volontà, al suo vangelo, è seguire e praticare i suoi insegnamenti; è sapersi protetti e amati pur non meritandolo, è vivere il presente amando Dio, nell’attesa di raggiungerlo un giorno nel suo Regno celeste, e unirci a Lui nella gloria eterna: perché la fede è profonda convinzione, piena fiducia, incrollabile certezza. Aver fede in Dio, pertanto, non vuol dire sapere tutto di Dio: la “fede” non è una scienza, una nozione, una materia scolastica, che si studia nel catechismo, nei libri di teologia, nei trattati di mistica, a completamento della nostra cultura; “l’aver fede”, al contrario, consiste nel “come viviamo il tempo che viviamo”, “quanto viviamo del suo Vangelo”, di tutto ciò che Egli silenziosamente continua a suggerire alla nostra anima: la “fede”, insomma, non è una “conoscenza” sterile asettica, ma sentimento, forza, energia, entusiasmo, amore, intima emozione, regola di vita. 
Certo, la fede non elimina i problemi, le contrarietà, le difficoltà della vita: ma l’uomo di fede è costantemente sorretto da una fiducia incrollabile: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. È quindi con tale certezza, con tale serenità, che egli affronta e supera qualunque ostacolo si delinei sul suo cammino. 
Luca, nel vangelo di oggi, introduce infine una breve parabola, per la verità di non immediata comprensione, dalla quale però possiamo ricavare non tanto il comportamento di Dio nei confronti dell’uomo, quanto piuttosto il comportamento dell’uomo nei confronti di Dio: un comportamento cioè che deve essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza ricorsi a fantomatici “accordi”. 
«Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili»
In pratica, non si entra nello spirito del vangelo con la mentalità di un lavoratore salariato: “lavoro tot, guadagno tot, niente di più, niente di meno”. Non possiamo, dopo aver lavorato la nostra giornata, esclamare soddisfatti: “ho finito, ora me ne vado, sono libero di fare ciò che voglio”: la nostra giornata lavorativa non conosce pause, interruzioni; inoltre se abbiamo fatto degli “extra” fuori orario, non possiamo pretendere riconoscimenti straordinari; non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto o di come l’abbiamo fatto: mai fare confronti, mai criticare il lavoro degli altri, ma riconoscere sempre con umiltà che tutto quanto abbiamo fatto, lo abbiamo fatto solo perché Dio ci ha aiutato lavorando per noi: “è vero, Signore, senza di Te siamo proprio dei servi inutili”. 
È una constatazione, quella di Gesù, che ci colpisce in particolare quando avanziamo delle pretese nei suoi confronti: se organizziamo iniziative caritatevoli, se facciamo delle donazioni, delle offerte generose, se siamo sempre puntuali nei nostri doveri di cristiani, ci comportiamo con Dio come se fossimo in “credito” con Lui: siamo cioè convinti di meritare un trattamento particolare, ricco di grazie e di benedizioni, esente da malattie, da disgrazie, e via dicendo. Dobbiamo stare molto attenti in questo: mai mercanteggiare con Dio, mai imporgli la nostra volontà, soprattutto quando preghiamo: la nostra preghiera, deve servire sempre e solo per aprirgli il nostro cuore, per accettare docilmente la Sua volontà, per ringraziarlo di tutto, per esprimergli il nostro amore, la nostra riconoscenza. Nel pregare Dio, dobbiamo insomma saper ascoltare umilmente la sua voce, imitando il comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta(1Sam 3,10)
Noi cristiani “impegnati”, allora, accantoniamo una buona volta le nostre arie di superiorità, sempre meschine e inopportune; evitiamo di armarci di quel sacro “zelo” da “invasati”, purtroppo così frequente, che ci spinge ad imbarcarci in “sante crociate”, a sentirci protagonisti in “visioni soprannaturali”, destinatari prescelti di “volontà divine”. 
Non pretendiamo riconoscimenti per il nostro impegno nella comunità in cui viviamo, non aspiriamo a incarichi “onorifici”, di “particolare evidenza”, per i quali siamo oltretutto inadeguati, incapaci, impreparati. Rimaniamo umilmente al nostro posto, accettando di buon grado le scelte dei nostri responsabili, ancorché non condivise. Quello che Gesù desidera da noi è che viviamo semplicemente, con grande fede, proseguendo sempre in avanti per la strada che Lui ci ha tracciato, con cuore umile, sincero e generoso, nei confronti dei nostri fratelli: sempre con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Lasciamo che Dio faccia tranquillamente il suo mestiere! Noi, “servi inutili”, non abbiamo proprio nulla da insegnargli. Amen. 

  

giovedì 22 settembre 2022

25 Settembre 2022 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario


Lc 16,19-31 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

 

Il vangelo di oggi ci presenta in primo piano due personaggi: uno ricco e l’altro povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, una casa signorile, cibo a volontà per sfamarsi lautamente e abbondantemente tutti i giorni; ha “fratelli”, cioè amici, relazioni, amore; alla sua morte ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi, i potenti, potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, non è malvagio, non fa niente di male. Decisamente ha tutto, non gli manca nulla, non gli serve proprio niente. L’unica cosa che gli manca è un nome: il testo lo identifica semplicemente come “un uomo ricco”.
Poi c’è l’altro personaggio che, a differenza del primo, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i suoi cani, indifeso, affamato, malato, ricoperto di piaghe, bisognoso di cibo e di cure. L’unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro.
Per la Bibbia, il nome è fondamentale, perché in qualche modo riassume la vita della persona che lo porta, è la sua immagine speculare; persona e nome coincidono. Avere un nome significa conoscere in proiezione la propria vita, vuol dire conoscere la propria identità, quale sarà il futuro, quale il programma preciso da realizzare, insomma, vuol dire “essere vivi”. Nel nostro caso il nome “Lazzaro” significa “Dio aiuta, Dio provvede, Dio salva”. Il poveretto, trovandosi infatti in una situazione disperata, di assoluta necessità, può contare solo sull’aiuto di qualcuno, spera che qualcuno si prenda cura di lui, che gli dia una mano, che lo salvi dalla sua condizione: in pratica si affida a Dio, ha bisogno di Lui.
Il ricco, invece, non avendo un nome come quasi tutti i ricchi del vangelo di Luca, non ha un progetto di vita, un programma, non è interessato a nulla; è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa, nulla attira la sua attenzione; non si accorge neppure di Lazzaro: eppure egli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere, come ha potuto non vederlo? Ecco, questo è stato il suo problema, la causa della sua condanna: non accorgersi, non voler prendere coscienza di nulla.
Ebbene, questo ci dice il vangelo di oggi: che anche a noi sarà riservato lo stesso trattamento del ricco, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di amore, di aiuto, di tenerezza, di comprensione e nessuno ci ha soccorso! Non sentirci amati, aiutati, considerati, è sicuramente tremendo: fa tanto male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, per pregare qualcuno che ci presti attenzione, ascoltandoci, e lenisca il nostro dolore, ricolmando il vuoto abissale del nostro cuore: c’è sempre il timore di ricevere un no, di venire apertamente ignorati, rifiutati! Viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e così ci perdiamo nella ricerca irrazionale dell’effimero, di apparire, almeno esteriormente, importanti, di sembrare qualcuno.
Ma “Lazzaro” sono anche quelli che ci stanno vicini: sono le persone che sono tristi, che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: e noi spesso facciamo finta di nulla, di non sentirle: vediamole, queste persone, accogliamole, ascoltiamole! Se chi ci è vicino non parla mai, ammutolisce, è sempre chiuso in sé stesso, vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Se chi ci è vicino è sempre di malumore, non ci rivolge la parola, anzi ci evita, fermiamolo, ascoltiamolo, cerchiamo di capire i motivi del suo urlo silenzioso. Come facciamo a non accorgerci che proprio accanto a noi ci sono tanti “Lazzaro” bisognosi della nostra presenza, della nostra vicinanza, delle nostre dimostrazioni di stima, del nostro amore? Come facciamo a non vedere i loro dolori, i pesi, le delusioni, che opprimono il loro cuore? Purtroppo noi continuiamo a non vederli, a non sentirli: siamo distratti, immersi solo nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri inutili svaghi, e non ci accorgiamo del loro inferno: l’inferno della mancanza di amore, della solitudine, dell’abbandono, delle porte del nostro cuore e della nostra mente completamente sbarrate; l’inferno drammatico del sentirsi dimenticati dal prossimo, di non sentire più il calore dell’amore, di non percepire, dentro il loro cuore, ascolto, liberazione, pace, misericordia, ma solo solitudine, sofferenza, tormento.
Ecco perché il nostro futuro, i nostri paradiso o inferno finali, sono già nelle nostre mani: perché siamo noi che decidiamo oggi se soccorrere i vari Lazzaro o abbandonarli a loro stessi. 
Tutti noi abbiamo a disposizione “Mosè e i Profeti”, il Vangelo e quant’altro; ma molto spesso ignoriamo i loro messaggi, preferiamo vivere a modo nostro, condurre una vita insensata, da sordi; ci tappiamo le orecchie per non udire, ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi ripetuti inviti alla conversione. 
In questa vita abbiamo ogni possibilità per imparare, per fare esperienze, per crescere spiritualmente, per coltivare la nostra sensibilità, la nostra anima: ma i risultati sono pochi. Ci serve forse qualcos’altro di speciale per salvarci? Abbiamo bisogno di altri profeti? No: sono sufficienti due cose soltanto: la fede che ci indichi il “come”, e la carità con cui “metterla in pratica”! Ci servono altri “segni”, altri miracoli? Neppure: il miracolo più bello lo viviamo ogni giorno: risvegliarci al mattino, aprire gli occhi e vivere, vivere ogni istante di questo splendido dono divino che è la vita, l’amore, il cielo, il sole, il creato! Abbiamo già tutto per poterci elevare, per far risplendere nel mondo e nei fratelli, il meglio della nostra dignità umana. Eppure tutto ciò non ci entusiasma, non ci stupisce, non ci commuove. 
Purtroppo siamo esseri impastati di ombra e di luce: possiamo cioè essere contemporaneamente sia “ricchi” come l’epulone gaudente, che “poveri” come Lazzaro, il sofferente; possiamo cioè essere sia quelli che si disinteressano dei bisognosi, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita senza far nulla, quelli che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo, ed essere anche i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti, che tuttavia, con fede e carità spendono le loro energie nel seguire Dio. 
Siamo insomma creature miseramente “umane” se preferiamo girarci dall’altra parte, chiudere gli occhi, far finta di nulla, e scegliere di non vivere: ma siamo anche e soprattutto creature splendidamente “divine”, create dall’Amore di Dio, in costante cammino verso la sua Luce: e quando una Sua scintilla, ancorché piccolissima, riesce a squarciare le tenebre del nostro cuore, immediatamente tutto diventa più sopportabile, tutto diventa gioiosamente più vivibile; e se la condividiamo con i nostri fratelli dimenticati, allora anche il loro “inferno” improvvisamente si attenua. Questo perché, nonostante tutte le nostre inadeguatezze, siamo sempre figli di quel Padre che ci ama e che pazientemente aspetta il nostro “cambiamento”, il nostro definitivo “riscatto”, per meritare anche noi un giorno, come Lazzaro, di sedere alla sua destra, nello splendore del suo Amore eterno. Amen.

 

giovedì 15 settembre 2022

18 Settembre 2022 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

Lc 16,1-13 
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

 Dopo le “parabole della misericordia” di domenica scorsa, siamo passati, col capitolo 16 di Luca, alla parabola del “fattore infedele”: una parabola che, all’inizio, potrebbe anche indurre in errore, visto che Gesù sembra elogiare un truffatore, un amministratore infedele, un ladro. 
Cerchiamo allora di leggere con maggior attenzione i singoli particolari, nella loro sequenza: prima di tutto l’accusa anonima di infedeltà (“fu accusato”): l’amministratore non si difende, non ammette alcuna colpa, non si pente e non chiede scusa: non si preoccupa neppure per le imminenti conseguenze, ma, al contrario, cerca in fretta di sistemare la situazione a suo favore: considerato che non ha più l’età per cercare un nuovo lavoro, e che si vergogna di andare per le strade a chiedere l’elemosina, si inventa una mossa molto astuta, da manuale: continua cioè a rubare al suo padrone, ma questa volta non dalla cassa, ma investendo per il futuro, a fini “pensionistici”, gli utili derivanti dal suo ultimo malaffare. È un ladro professionista: sa che il padrone, come si usava allora, paga lo stipendio sulla base di una percentuale calcolata sul totale dei proventi, ovviamente ad incasso avvenuto; egli allora che fa? Convoca tutti i debitori del padrone, s’informa sull’entità del loro debito, detrae immediatamente da esso l’importo che egli ritiene di sua competenza, e registra a debito, con loro grande soddisfazione, soltanto le somme decurtate. Insomma una truffa in piena regola, ma che per lui truffa non è; pensa infatti: “Queste somme mi spettano di diritto: non le potrò più incassare personalmente, ma le investo ora, per poterle riavere un giorno direttamente dai debitori del padrone; sono certo che essi, grati per quanto hanno risparmiato oggi, provvederanno in seguito a restituirmele direttamente”. 
È chiaro che l’amministratore non è un esempio di correttezza: anzi l’aver irregolarmente e astutamente “decurtato” i crediti del padrone, è un’azione da furfante, da ladro professionista.
Ma è proprio in questa sua scaltrezza mefistofelica che sta la sua “grandezza”: perso per perso, costretto a vivere senza lo stipendio, unica sua fonte di sostentamento, provvede a crearsi in fretta, finché è ancora in tempo, un investimento per il futuro che non gli assicurerà di certo una ricchezza smisurata, ma un ritorno sicuro, graduale, in termini di denaro, di aiuti, di amicizia e collaborazioni varie. 
Dice il vangelo: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”; da notare però che Luca nel riferirsi al “padrone”, usa qui di proposito il termine kùriosche significa sì “padrone”, ma è anche l’appellativo usuale con cui egli indica la persona di Gesù: precisamente 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti. Un apprezzamento quindi che viene espresso dal “padrone”, dal vero “kùrios”, che è Gesù stesso: un elogio, un giudizio positivo nei confronti di un ladro, che ci lascia un po’ interdetti, ritenendolo in stridente contrasto con quanto da lui insegnato e praticato nella sua vita.
Dobbiamo però capire che qui Gesù non esalta, non si compiace della disonestà, della malafede, dell’ingiustizia, dei furti compiuti dall’amministratore. Ad essere elogiata, e quindi portata ad esempio, è l’intraprendenza, l’intuizione, la prontezza di spirito del servo: tutte doti in sé ampiamente positive: qui purtroppo vengono usate a scopo negativo, ma sono doti assolutamente condivisibili, tant’è che Gesù le consiglia vivamente, per la loro rarità, proprio a chi si adopera nel fare il bene, a chi lo vuol seguire. Egli infatti conclude la parabola, constatando un po’ amaramente:
“I figli di questo mondo, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce”. Un’osservazione appunto che ci fa pensare ad un Gesù scoraggiato, un po’ demoralizzato: dopo tanto lavoro, dopo tanto impegno profuso, suo malgrado, deve ammettere che i figli di questo mondo, i figli delle tenebre sono più scaltri, più furbi, più “svegli”, più reattivi nel fare il male, rispetto ai “suoi” figli, i figli della luce, nel fare il bene. Parole, le sue, che contengono chiaramente l’invito pressante ad adottare nel bene una pari scaltrezza, a comportarsi insomma da persone “sveglie”, dotate di altrettanta prontezza e inventiva. 
Questa pagina del vangelo, ci offre inoltre altri messaggi importanti, altre conferme del pensiero di Gesù sulla “ricchezza”, che meritano attenzione. 
Dobbiamo ricordare che Luca è l’unico evangelista che affronta ripetutamente il tema della “ricchezza”, dell’arricchirsi, esponendo puntualmente di volta in volta le varie regole comportamentali dettate da Gesù: lo ha fatto per esempio nel capitolo 12, parlando della insensatezza di quell’uomo molto ricco, che invece di godersi la vita con il suo ingente patrimonio, continua ad affannarsi nell’aumentarlo, senza rendersi conto che nessuno è padrone del tempo, e quanto prima potrebbe finire quello a sua disposizione, e perdere tutto; per lui la ricchezza è l’unica garanzia di felicità, ma nel suo costante delirio di onnipotenza, nella sua lacerante insoddisfazione, si ostina a vivere i suoi giorni come se fosse già “morto”; lo fa anche con la parabola di oggi, e lo farà ugualmente con la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro, di cui ci occuperemo domenica prossima. 
In tutte le occasioni, la ricchezza per Gesù è sempre disonesta, ingiusta: un'offesa, un danno, un pregiudizio (adikìa): essa infatti è sempre il prodotto di un’ingiustizia, perché chi vuole "accumulare", in qualche modo "sottrae" agli altri. Il termine “ricchezza”, tradotto da Luca con “mammona” (m-ame/on-a), nella radice ebraica significa più in particolare “accumulo di beni, sicurezza materiale, certezza per il domani”. Ma, nella vita, è veramente la “ricchezza”, il bene che ci tranquillizza, che ci dona fiducia, che ci rassicura, che ci offre l’autentica certezza per il nostro futuro? Certamente no, perché tutto ciò che riguarda questa nostra vita, tutto ciò che si riferisce al materiale, è passeggero, provvisorio, temporaneo! Pensare quindi che la ricchezza, il “mammona”, l’accumulare i beni ci faccia felici, è pura illusione! 
La ricchezza deve invece servirci solo per procurarci “degli amici” (filous): «Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne», raccomanda Gesù. Ma chi sono questi “amici” così potenti che possono accoglierci nelle dimore eterne? Ovviamente nessun uomo, nessun amico terreno, “fisico”, materiale, può farlo: c’è un solo amico, veramente fedele, potente, su cui possiamo contare: un amico divino, “spirituale”, un amico che ci ama, cui sta a cuore esclusivamente la salvezza nostra e della nostra anima: insomma, l’unico vero amico che può accoglierci nelle “dimore eterne” è Dio, Dio soltanto! È Lui, infatti, la nostra vera ricchezza, è Lui l’amico fidato, sincero che manterrà ogni sua promessa, l’amico che ci salverà, che ci solleverà da ogni delusione. È Lui che dobbiamo cercare con fede, è in Lui che dobbiamo confidare, in Lui che dobbiamo abbandonarci: con Lui e in Lui, la morte, il crollo di ogni nostra sicurezza materiale, non sarà più un dramma, ma il mezzo per raggiungere il definitivo possesso della Ricchezza Vera, quella del suo amore, quella che non viene mai meno, che niente e nessuno potrà mai distruggere. 
«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto». Non ci sono vie di mezzo: non esiste una fedeltà nel poco e una fedeltà speciale nel molto. La fedeltà è unica. Ma come possiamo definirla? “È una virtù, una dote, un modus operandi che si fonda sull’essere leali e coerenti, nel mantenere gli impegni presi, i legami, gli obblighi assunti; quindi un concentrato di verità, lealtà, perseveranza. 
Se non possediamo questa “fedeltà”, se non riponiamo esclusivamente in Dio ogni nostra certezza, siamo “infedeli”, siamo cioè “senza fede”, siamo “disonesti”, nel poco come nel molto, esattamente come l’amministratore del vangelo di oggi. Perché, conclude Gesù, “non potete servire Dio e mammona”
In effetti, nella nostra vita, siamo spesso carenti di “fedeltà”: continuiamo a dimenticarci di Dio, ci lasciamo sedurre dai beni terreni (soldi, prestigio, carriera, riconoscimenti, potere): siamo affascinati proprio da quei beni che non offrono certezza, che sono passeggeri, corruttibili; beni che possiamo perdere in qualunque momento; beni per ottenere i quali siamo spesso pronti a vendere anche l’anima. Viviamo una “non-vita” in continua tensione, con la paura di perderli; cerchiamo di tenerceli stretti con ogni mezzo, e non ci rendiamo conto che, prima o poi, li perderemo comunque. Siamo stolti! Non abbiamo ancora capito che il “mammona” non è mai un investimento: è solo un grande imbroglio, un bluff macroscopico, che riesce solo a soffocarci con l’ansia e la paura, rendendoci la vita, di per sé meravigliosa, un’esperienza sterile, vuota, arida, invivibile. 
Solo servendo Dio potremo vivere liberi dalla schiavitù di mammona, del denaro: solo vivendo con Dio, il nostro cuore diventerà “generosità”, “servizio”, “agape”, rimanendo sempre aperto, sensibile, attento alle necessità e alle sofferenze del prossimo; solo vivendo con Dio, un giorno verremo accolti nelle “dimore eterne” della Vita vera. Dio, infatti, nostra unica ricchezza, ha il grande vantaggio di non deteriorarsi mai, di non avere scadenze, di essere imperdibile, irrinunciabile: vivere con Lui vuol dire allora certezza, serenità, beatitudine, amore, gioia, Vita eterna! Amen.

  

giovedì 8 settembre 2022

11 Settembre 2022 – XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Lc 15,1-32 
In quel tempo, si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte». 
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. 
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

 

Gesù nel Vangelo di oggi racconta le tre parabole famose: della pecora perduta, della dramma perduta, del figlio perduto; in esse Egli chiarisce di essere venuto su questa terra proprio per cercare chi si è perduto. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che sono amati da Lui. Tutti devono sapere, tutti devono capire, che Dio è un dono assolutamente gratuito di amore, di misericordia.
Mi soffermo in particolare sulla parabola del “figliol prodigo”. 
Ebbene: quel Padre che fa festa quando il figlio torna a casa, è Dio. Il fratello maggiore, invidioso, sottomesso al Padre, rappresenta gli scribi e i farisei, “servi” di Dio, ma non “figli” di Dio. Al padre essi diranno: “Ecco, da tanti anni io ti “servo” (in greco dulèuo, sono schiavo) e tu non mi hai mai dato un capretto...”. Solo che i capretti, per tutti quegli anni, erano già ampiamente a loro disposizione! 
La religione senza l’amore, crea solo persone giudicanti, invidiose di chi ha di più, di chi riesce meglio, di chi è felice. La religione senza l’amore non sa sorridere, non sa far festa, perché è corrosa dalla rabbia che cova dentro di sé. 
La parabola però è anche una stupenda fotografia di uno spaccato famigliare, di come cioè si svolgano in realtà le relazioni tra i componenti di una famiglia. 
Il racconto parla di “un padre con due figli”. E la madre? La madre talvolta non c’è, o se c’è, è come se non ci fosse. Sono le madri “aspirapolvere”, le madri “lavastoviglie”, le madri che fanno un sacco di cose, che si danno da fare tutto il giorno, che, dicono loro, “sacrificano la loro vita per i figli”, ma che in realtà non ci sono, non dimostrano il loro amore, sono come assenti. Fare tanto per i figli non vuol dire amare: vuol dire solo “fare tanto”. Amare è al contrario valorizzare, coccolare, giocare insieme, ridere, rendere autonomi i figli, aver fiducia in loro, non essere ansiosi; amare è avere qualcosa da dare al figlio; amare non è fare un figlio per ricevere qualcosa in cambio, perché qualcuno ci ami! 
Da un’indagine risulta che le mamme italiane sono le più ansiose d’Europa, soffrono di “figliolite” acuta: credono, cioè, che il figlio abbia sempre bisogno di loro. Sorge però il dubbio che siano loro ad aver bisogno del figlio. 
I due figli della parabola sono dunque diversi e hanno comportamenti apparentemente opposti. In realtà hanno lo stesso problema: hanno lo stesso padre e non si sentono riconosciuti da lui. Sono nati entrambi dallo stesso padre, che non è riuscito a trasmettere loro l’amore; un padre che entrambi considerano un “ostacolo”, un nemico. Entrambi sono schiavi, entrambi sono dipendenti, entrambi si comportano da mercenari. 
Il primo, il minore, dice al padre: “Dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. Ma non gli spetta niente! Egli cerca solo di arraffare più che può: è chiaro, non conosce l’amore del padre. Anzi va contro di lui. L’eredità si otteneva solo dopo la morte del padre: dicendogli così, in pratica gli dice: “Tu sei già morto per me. Io non ho più nulla a che vedere con te. Tu per me non esisti più!”. 
Il maggiore invece gli dice: “Io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando”. Egli si percepisce come un servo del padre, come uno schiavo: non fa altro che ubbidire ai suoi ordini, ma dentro cova rabbia. 
La loro diversità è solo sulla scelta, sulla strategia che utilizzano per avere un rapporto con il padre. Il maggiore si sottomette: è il suo dovere. Rinuncia alla sua vita perché “deve” rispetto e obbedienza al proprio padre. Ma una persona che “fa tutto quello che deve”, una persona brava, che non si ribella, che non trasgredisce mai, è sicuramente molto amata da chi sta sopra (genitori, autorità), ma non conosce l’amore. Perché? Perché tenta di avere l’amore mediante una ubbidienza meticolosa, con una vita di precisione; cerca cioè di ottenere comunque, ciò che sente di non poter avere altrimenti (ma l’amore è gratuito!). La sua strategia è: “Rinuncio alla mia vita e faccio quello che vuoi tu, per ottenere in cambio il tuo amore”. I genitori: “Ti amo se vai bene a scuola”: e il bambino si sottomette per avere l’approvazione del genitore. “Ti amo se non disturbi”: e il bambino si sottomette e diventa adulto per avere l’approvazione. “Ti amo se fai così”: e il bambino si sottomette per avere l’amore del genitore. Ma uno che rinuncia alla propria vita per ricevere amore, come si sentirà dentro? Ovviamente come il maggiore: pieno di rabbia. 
Il minore, invece, non sentendosi accettato dal padre, si ribella e se ne va: “Mi rifiuti? Ti rifiuto anch’io!”. D’altronde cosa poteva fare il secondo, il minore? Suo fratello più grande aveva trovato il modo per accaparrarsi la stima del padre, facendo il figlio bravo e ubbidiente. A lui non rimaneva altro che differenziarsi dal fratello. Se in casa c’è già chi fa il bravo, all’altro non rimane che fare il contrario. Se in casa c’è chi rimane, all’altro non aspetta che andarsene. Se uno fa una cosa, l’altro dovrà per forza farne un’altra! D’altronde si sa: biologicamente il primogenito è il responsabile, il custode della tradizione e della famiglia, il serio, l’osservante. Il secondo invece è il comunicativo, l’uomo delle relazioni, abile nel sociale, efficiente fuori casa: è infatti ciò che fa il figlio minore: se ne va in giro per il mondo. 
A volte i genitori dicono: li abbiamo educati nella stessa maniera, e sono diversissimi tra loro. Ma guai se i figli fossero uguali! Ogni figlio esige una relazione unica, diversa: non si ama allo stesso modo i figli, perché essi hanno esigenze diverse. Ciò che conta è amarli, non trattarli tutti in maniera identica. 
I due fratelli della parabola infatti non si incontrano mai! Il maggiore non lo chiama mai “fratello”, ma si rivolgerà al padre dicendogli: “Questo tuo figlio che ha divorato gli averi con le prostitute” (15,30). Sentite la rabbia? “Tuo figlio”: sentite quanto lo odia? Si sente defraudato: “Io ho fatto sempre il bravo, io mi sono sempre comportato bene con te; perché tratti “tuo figlio” esattamente come me?”. 
“Con le prostitute”: un particolare che non risulta dal racconto. Che sia vero o no, è comunque un tentativo del maggiore di screditare il minore, di metterlo in cattiva luce, di denigrarlo. Non sappiamo infatti se egli sia andato con le prostitute. Forse non ci ha mai pensato, ma il maggiore sì. Il cervello non conosce altri che noi, e quindi quando parliamo degli altri, parliamo sempre di noi! 
Cosa c’è dunque in gioco? In superficie i soldi, ma in profondità l’amore del padre. Il minore si vendica sperperando tutto. Perde tutto perché dentro di sé sente di aver perso l’amore del padre: suo padre ha scelto l’altro. E quando tornerà, tornerà solo per interesse: solo per non morire di fame. 
Ma il padre dov’era? Come ha fatto a non vedere tutto ciò che accadeva in casa? Non si è mai accorto che il minore era insoddisfatto? E quando il minore gli dice: “Dammi la parte di patrimonio”, perché non dice neppure una parola? Perché non gli dice, com’era giusto: “Mi dispiace ma finché sono vivo non avrai nulla”? Inoltre: non si era mai accorto che il maggiore si comportava da semplice esecutore? Non si era mai accorto che voleva un “capretto”, un riconoscimento, un gesto d’approvazione, d’affetto, solo per sé? E quando il minore se ne va perché in padre non lo interpella, visto che anche lui era parte in causa? 
Quanti padri (e madri) sono così! Non si accorgono di niente. Succedono un sacco di cose nella vita dei figli, ma loro non vedono! Poi dicono: “Guarda cos’è successo!!”. Per forza, erano ciechi! 
È chiaro che il padre non sa rapportarsi con il figlio: non sa parlargli al cuore, non sa ascoltarlo, non sa cosa dirgli, non ha niente da dirgli. Perché se non conosce il suo di cuore, non può certo conoscere il cuore degli altri, di suo figlio! 
L’unica cosa che sa fare è “dare” comunque, a ciascuno, le “cose” che gli spettano: al minore come al maggiore. Ma quando un genitore dà al figlio solo “cose” materiali, vuol dire che non ha altro da dargli, vuol dire che non ha anima, spirito, emozioni, vitalità, niente di sé stesso da passargli. È il fallimento dell’educazione. 
Molti genitori riempiono i loro figli di “cose”: di giocattoli, di vestiti, di telefonini, di soldi, di divertimenti; ma tutto questo non può sostituire la cosa più importante che è l’amore. Un figlio ha bisogno del padre, del suo amore, di un rapporto concreto con lui, ha bisogno delle sue parole, di momenti esclusivi con lui, di abbracci. Ha bisogno della madre, del suo amore, di un rapporto con lei, fatto di parole, di carezze, di sentimenti. Ha bisogno di entrambi! L’uno non sostituisce l’altra. In nessun caso un padre può sostituire la madre, come nessuna madre può sostituire un padre. Inutile cercare oggi di dimostrare il contrario! È un’assurdità! Una stupidaggine. 
I genitori a volte dicono spazientiti: “Mio figlio ha tutto!”. È vero, perché gli danno tutto di materiale, ma non gli trasmettono nulla di spirituale, nulla dell’anima, nessun sentimento, nessuna emozione intima. Non c’è colloquio, non c’è scambio di emozioni. 
La parabola del figliol prodigo, sotto questo profilo, è un po’ la parabola del “non detto”, della non comunicazione; in essa, dopo la richiesta iniziale del figlio minore, nessuno parla: per metà racconto nessuno dice nulla, nessuno si rivolge a qualcun altro. Solo alla fine parlano tutti: il minore riconosce il suo errore, esprime il suo pentimento, rivela la sua fame d’amore; il padre parla e si commuove: esprime la sua gioia, il suo pianto, la paura che ha avuto di perdere suo figlio; anche il maggiore parla: della sua rabbia, del suo odio, della sua invidia, del mostro che ha dentro e della bestia che lo assale sapendo del ritorno del fratello. Ma forse è troppo tardi! 
È un po’ il quadro di tante nostre famiglie: “Tutto bene; nessun problema”, quando, invece, ci sono un sacco di cose che non vanno: parole che non vengono dette, che rimangono dentro; emozioni che non vengono espresse, che restano ignorate, accantonate. Di problemi in famiglia ce ne sono sempre in abbondanza, ma spesso non se ne parla, ognuno fa finta di niente. Per la tranquillità di tutti, “per il bene dei figli”, si dice, è sempre meglio non parlarne, è meglio fingere che tutto vada bene! Salvo poi, quando i problemi esplodono, cadere tutti dalle nuvole: “Com’è potuto succedere? Come mai? Era tanto bravo! Chi l’avrebbe mai pensato?”. 
I problemi vanno invece affrontati sempre: con carità, lealtà, onestà! Quand’è che la parabola ha una svolta? Quand’è che tutto cambia? Quand’è che in quella famiglia torna la normalità, la serenità, una nuova vita? Quando i personaggi iniziano a parlarsi e l’amore prende il sopravvento. 
Così vale per noi. Se stiamo male come il minore, parliamone del nostro male. Non facciamo finta di nulla. Se nutriamo odio e rabbia come il maggiore, tiriamoli fuori questi sentimenti, discutiamo di questo: perché dietro l’odio c’è sempre una persona profondamente ferita. Se siamo felici, emozionati, pieni di vitalità come il padre, esprimiamolo apertamente. Infatti il padre e il figlio minore, aprendosi, “guariscono”. Il maggiore non è ancora guarito, ma si capisce che anche lui sente il bisogno di un nuovo percorso di vita! Amen.

 

  

 

giovedì 1 settembre 2022

04 Settembre 2022 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 14, 25-33 
Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
 

Gesù prosegue il suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste di ciò che dice e di ciò che fa, e per questo vogliono continuare a seguirlo, solo che non sanno bene in che cosa consista “seguire” Gesù: essere entusiasti, suoi grandi ammiratori, e “seguirlo”, sono due cose molto, ma molto, diverse tra loro. Un conto è ammirarlo stando per conto proprio, un altro è “seguirlo”; “seguire” Gesù non significa “rilassarsi”, è una cosa molto seria, significa mettere completamente in gioco se stessi, significa arrivare a conclusioni difficili, dover fare delle scelte spesso dolorose, andare là dove magari non vorremmo proprio andare. 
Per sottolineare l’importanza di quello che Gesù sta per dire, Luca fa notare che “si voltò”, usando il verbo “strafeis”: ora, il verbo greco “strefo”, girarsi”, ha una connotazione di severità, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un “girarsi” tranquillo, per parlare del più e del meno con i compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. 
Cerchiamo allora di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, determinato, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua morte in croce ormai imminente, la sua apoteosi d’amore. Vi sono poi quelli che lo seguono: molti dei quali però cominciano ad accusare la stanchezza, iniziano a mugugnare, a brontolare: un borbottio che progressivamente cresce, arrivando infine a distogliere Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quelli che lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Allora abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a camminare con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”. 
Parole che colgono tutti di sorpresa, perché ciascuno si sente personalmente chiamato in causa: quante volte capita infatti anche a noi di intraprendere con entusiasmo un certo percorso, salvo poi abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile!”. Sissignori, è vero: condividere completamente la propria vita con un’altra persona, è sicuramente difficile, ma non impossibile; se ci impegneremo seriamente, se metteremo in gioco volontà e amore, tutto diventerà più facile! Dobbiamo però avere ben chiaro che se rinunciamo, se ci fermiamo, se perdiamo la voglia di faticare, di lottare, di sfidare le frequenti contrarietà, perdiamo completamente la nostra affidabilità, la nostra serietà personale; quel poco che avevamo conquistato, si dissolve, ci troviamo senza più nulla, impossibilitati a raggiungere positivamente qualunque altro obiettivo. Diventiamo insomma come il sale che ha perduto il suo sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili. 
È in questo contesto che Gesù, in tono serio e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da accettare e capire: «Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo»
Se questa frase non fosse scritta nel Vangelo, esattamente in questi termini, sarebbe impossibile attribuirla a Gesù. “Possibile che dica proprio che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sissignori, sono esattamente le sue parole. Ha usato veramente il verbo odiare? Sì, il verbo utilizzato, “miseo”, in greco significa proprio odiare, detestare, disprezzare”.
A questo punto viene naturale chiederci: “ma cosa intende veramente Gesù con queste parole?”. Chiariamo prima di tutto che Egli per principio non ha mai invitato nessuno all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è quindi di “odiare” qualcuno, di nutrire cioè sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro. Al contrario, come Egli stesso ci ordina, dobbiamo sempre ricambiare il loro amore con altrettanto amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per tutto quanto ci offrono, poiché nulla ci è dovuto, la nostra stessa vita!
Gesù in realtà vuole quindi stabilire non una “regola” generale, universale,
ma indicare una esigenza, una necessità per coloro che vogliono essere suoi discepoli, cioè suoi imitatori e collaboratori nel far conoscere al mondo il suo annuncio di salvezza; in altre parole, Egli fa chiaramente capire che quanti intendono “seguirlo”, mettendosi al suo servizio, devono adottare uno stile di vita completamente libero da qualunque altra distrazione, interesse o affetto: devono cioè affrancarsi da qualunque altra “priorità” che non sia l’amore per Lui. Solo in questo modo sarà possibile riconoscerGli quel primo posto in assoluto, così come Egli merita ed esige. Quindi, perché questo principio rimanesse chiaro nella memoria di tutti, Gesù ha usato parole molto dure, forti, difficili da accettare (come possiamo “odiare” le persone che ci sono più care?) ma, ripeto, l’ha fatto solo per sottolineare il giusto comportamento di ogni suo discepolo: il verbo “odiare”, un verbo sicuramente di forte “contrasto”, sta solo ad indicare che se accettiamo di “seguirlo”, non possiamo in alcun modo scendere ad alcun compromesso: qualunque distrazione, qualunque deconcentrazione infatti sarebbe di ostacolo, e va necessariamente evitata in modo radicale, deciso, risoluto.
Possiamo avere la conferma di ciò direttamente dalla lingua ebraica, che nella sua costruzione non ricorre mai a “paragoni”, ma preferisce esprimersi per mezzo di “opposizioni”: Gesù, quindi, invece di esprimersi, come leggiamo nel Vangelo di Matteo: «Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10,37) ha preferito ricorrere qui allo stile della lingua semitica contrapponendo i sentimenti amore-odio, dicendo: «Se uno non odia suo padre, sua madre… per amare e seguire me ecc.”; dove l’espressione “odiare”, acquista pertanto il significato di “posporre, mettere al secondo posto”. Ecco allora che quello che Gesù esige dai suoi discepoli, non è “odio”, ma un subordinare, uno spogliarsi, un distaccarsi, da quegli affetti particolari che potrebbero distoglierci dall’amarLo al di sopra di tutti e di tutto.
Proseguendo poi nella lettura del testo, troviamo un altro detto o “loghion” di Gesù, che si presta anch’esso ad essere male interpretato: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo».
Molti infatti sono convinti che “croce” sia qui sinonimo di sofferenza, tormento, pena. Sentiamo ripetere spesso, di fronte alle difficoltà, alle disgrazie: “Questa è la croce che Dio mi ha imposto!”. Con il termine “croce” si allude pertanto alle varie sofferenze, alle avversità della vita, convinti che sia Dio a mandarle, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Siamo dunque al “Vangelo del sacrificio”? Certo, il Vangelo è anche croce, è anche sacrificio: ma Gesù non obbliga a vivere nella sofferenza, non invita a soffrire, non ha benedetto il dolore. La croce, le sofferenze, non vengono da Dio, sono una eredità, un retaggio dell’umanità peccatrice. Dio al contrario ci chiama alla gioia, alla vita. La meta del cristiano è di seguire con gioia Cristo per condividere un giorno la sua gloria. 
Nel Nuovo Testamento, infatti, il termine greco “stàuros, croce”, appare 73 volte, ma in nessun contesto questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. Gli evangelisti infatti, per dire “prendere, portare la propria croce”, non usano mai verbi come “fèro” o “dèchomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un dover accettare qualcosa imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambàno” o “bastàzo” che significano “prendere volontariamente, accettare, sollevare spontaneamente”: è il gesto, descritto da Giovanni, con cui Gesù, condannato a morte, si carica spontaneamente sulle spalle la croce patibolare. Egli non ha cercato la croce, ma quando gli è stata imposta, non si è tirato indietro, non l’ha rifiutata, ma se l’è caricata sulle spalle, senza reagire: un gesto libero, di grande responsabilità, di fondamentale insegnamento per noi. 
Del resto “prendere la croce” non è obbligatorio per tutti, ma solo per chi lo vuole! È solo per chi ha scelto liberamente di seguire Gesù, di amarlo in maniera particolare, esclusiva: “Se uno viene a me...”. Questo significa testimoniare la nostra libera adesione a Cristo: non importa se per questo, il mondo senza Dio cercherà di distruggere la nostra fede, le nostre scelte, i nostri principi, la nostra stessa reputazione, la nostra onorabilità; non è una novità per noi Chiesa di Cristo, Lui ci aveva già preavvertiti: “Sarete odiati da tutti a causa mia!”. Ebbene: è proprio questa “causa” che ci procura fin da ora determinazione, gioia, soddisfazione, amore! 
Il cristiano è infatti un essere umano, ricco di gioia interiore, che anela alla gioia senza fine: egli sa che per giungervi vi è una sola strada, quella stessa strada percorsa da Cristo, contrassegnata da dolori e da croci. Lo sa e la percorre con gioia, in vista della sfolgorante Pasqua celeste. Amen.

 

 

giovedì 25 agosto 2022

28 Agosto 2022 – XXII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 14,1.7-14

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Non è la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di essere oggetto di attenta osservazione e di andare incontro a inevitabili critiche e maldicenze: ma Egli è un uomo libero e non ha nulla da nascondere. Non si lascia condizionare dai pregiudizi e da quel clima chiaramente ostile, perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre a tutti qualcosa di nuovo: in particolare proprio a quelli che si considerano, come i suoi commensali, i più bravi, i più buoni, i più giusti, che credono di avere un posto garantito fin d’ora nel Regno dei cieli. Il suo andare a “pranzo” da questa gente, quindi, soddisfa sì la necessità materiale di nutrirsi, ma gli offre soprattutto l’occasione di servire a sua volta quel cibo spirituale della sua Parola, sano e incorruttibile, ben più necessario di quello materiale.  
Qui siamo di sabato; è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente accaduto: in quel giorno, infatti, al termine della riunione di preghiera nella sinagoga, tutti i partecipanti si intrattenevano per un “pranzo”, al quale partecipava anche il rabbi o il predicatore di turno, insieme ai personaggi più importanti e degni del luogo. È naturale quindi che in quel sabato, Gesù abbia notato, all’apertura delle porte, la corsa disordinata della gente per accaparrarsi i primi posti, quelli cioè più vicini all’invitato d’onore: nulla di strano, è cosa che di solito succede anche ai nostri giorni. “Notando come sceglievano i primi posti”, commenta infatti Luca.
Un particolare comunque che gli offre lo spunto per offrire in proposito una sua catechesi.
Gesù dunque non si indigna tanto per il fatto materiale in sé; è invece il “perché” ciò avviene, che lo infastidisce, è il motivo irrazionale per cui le persone sistematicamente si comportano sempre in questo modo: in altre parole Egli stigmatizza quella voglia innata, irrefrenabile degli uomini, di auto-esibirsi, di apparire ad ogni costo, di stare in alto, sempre ai primi posti, pur non meritandolo, non avendone alcun titolo, ricorrendo se necessario anche ad espedienti poco signorili.
Ecco allora che Egli pone un principio fondamentale: non è importante ottenere quello che ti qualifica esteriormente davanti agli uomini - sappiamo che tutto è apparenza - ma quello che ti qualifica davanti a Dio, come tu ti poni davanti a Lui. Sembra infatti dire: “Non ti accorgi che questa tua ansia di apparire ti rende completamente cieco, ingiusto, illogico, finendo col non apprezzare nessuno, neppure le persone che ami? Perché fai passare per insignificante, per una nullità, chiunque altro sia più meritevole, più degno di te ad occupare il posto d’onore?”.
Pertanto: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui, venga a dirti: Cedi il posto a questo. E tu debba con tua vergogna andare allora ad occupare l’ultimo posto”
È chiaro che qui Gesù vuol colpire soprattutto quel “modus operandi”, quel comportamento tipico della cultura farisaica, classista e individualistica, per il quale la priorità nel sociale, il primo posto occupato nelle sinagoghe, nei pranzi, nelle occasioni pubbliche, significava un tributo onorifico esclusivo e irrinunciabile.
Quello che Gesù rimproverava allora, e continua a rimproverare anche a noi oggi, sono quei comportamenti “maniacali”, ossessivi, con cui alimentiamo il nostro smisurato orgoglio; sono quelle rozze “sgomitate”, quegli accorgimenti insensati, grazie ai quali riusciamo puntualmente a presentarci tra i primi, a mischiarci tra i personaggi più importanti, tra quelli cioè che nella società contano molto; è quella eccessiva ricerca di onori, di riconoscimenti, di gratificazioni, con cui alimentiamo la nostra “fame” di protagonismo esibizionista. Gesù qui non condanna il dovuto e corretto riconoscimento dei meriti di una persona: tant’è che, subito dopo, proseguendo nella parabola, fa dire al padron di casa, che esorta l’invitato messosi umilmente all’ultimo posto: “Amico, vieni più avanti!”; e commenta: “Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali”.
Tuttavia il senso della parabola non si ferma qui: Gesù infatti intende condannare indirettamente anche un altro atteggiamento, altrettanto negativo, ma ancor più subdolo, più untuoso: si tratta cioè di quella falsa “modestia”, di quell’umiltà ipocrita con cui, purtroppo in tanti, si mettono di proposito all’ultimo posto, per sfoggiare in questo modo una carità, una sensibilità per gli umili, per i poveretti, che in realtà non hanno; il loro unico scopo, anche in questo caso, è quello di esaltare solo se stessi: è questa “farsa” a beneficio esclusivo della stampa e dei media che Gesù condanna vigorosamente. La differenza, per chi guarda dall’esterno, è minima, inesistente, ma all’interno, è stridente: perché pensare che la felicità risieda nell’essere considerati superiori agli altri, più importanti, più ricchi, più potenti, è solo una deformazione mentale, un inutile narcisismo, un turpe desiderio di auto-esibizione; significa in pratica accontentarsi di interpretare nella vita un inutile surrogato di sé stessi, anche se dentro di noi, nella solitudine, nel profondo dell’anima, sappiamo molto bene di essere delle autentiche nullità “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”
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Nessun travestimento, nessun protagonismo, nessuna nostra immagine esteriore, falsa e auto-costruita, per quanto grandiosa, per quanto perfetta, sarà mai in grado di renderci felici: non lo può per definizione! La felicità nasce solo da un vissuto reale, concreto, dalla sensazione meravigliosa di essere vivi, di essere utili; dal comunicare questa nostra vitalità agli altri, dal percepire nel nostro cuore tutti quei sentimenti, quelle emozioni che solo l’amore sa trasmettere. Al contrario, più l'immagine che inseguiamo è grande, falsa e ambiziosa, più ci allontaniamo intimamente dalla nostra vita spirituale, più i nostri sentimenti ci appariranno sfocati, scontornati, indistinti, distrutti. E allora capiremo che la nostra vita è destinata inesorabilmente ad un completo fallimento.
Le parole di Gesù ci propongono giustamente di reagire: in questa nostra vita dobbiamo imparare a capire, a distinguere, a seguire, la giusta via, quella corretta, fondamentale; quella “strada” interiore che Egli ci ha tracciato, e che ci consentirà di raggiungere la nostra ricompensa, l’autentico nostro reale “riconoscimento”, quando, “alla risurrezione dei giusti”, Egli ci inviterà ad entrare in quel “Regno dei cieli”, promesso ai “retti di cuore”.
Dobbiamo insomma, nel nostro breve “oggi”, creare relazioni, rapporti, amicizie, basati esclusivamente sull’amore, sulla carità, sulla bontà del cuore: dobbiamo cioè amare i fratelli umilmente e sinceramente, non per ostentazione, non per interesse, non per orgoglio, non per un malsano egoismo: soprattutto non sulla base di un vantaggio che ne potremmo ricavare, perché, come ci assicura Gesù, “sarai beato poiché non hanno nulla da ricambiarti”. Amen.