giovedì 1 settembre 2022

04 Settembre 2022 – XXIII Domenica del Tempo Ordinario


Lc 14, 25-33 
Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
 

Gesù prosegue il suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste di ciò che dice e di ciò che fa, e per questo vogliono continuare a seguirlo, solo che non sanno bene in che cosa consista “seguire” Gesù: essere entusiasti, suoi grandi ammiratori, e “seguirlo”, sono due cose molto, ma molto, diverse tra loro. Un conto è ammirarlo stando per conto proprio, un altro è “seguirlo”; “seguire” Gesù non significa “rilassarsi”, è una cosa molto seria, significa mettere completamente in gioco se stessi, significa arrivare a conclusioni difficili, dover fare delle scelte spesso dolorose, andare là dove magari non vorremmo proprio andare. 
Per sottolineare l’importanza di quello che Gesù sta per dire, Luca fa notare che “si voltò”, usando il verbo “strafeis”: ora, il verbo greco “strefo”, girarsi”, ha una connotazione di severità, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un “girarsi” tranquillo, per parlare del più e del meno con i compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. 
Cerchiamo allora di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, determinato, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua morte in croce ormai imminente, la sua apoteosi d’amore. Vi sono poi quelli che lo seguono: molti dei quali però cominciano ad accusare la stanchezza, iniziano a mugugnare, a brontolare: un borbottio che progressivamente cresce, arrivando infine a distogliere Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quelli che lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Allora abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a camminare con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”. 
Parole che colgono tutti di sorpresa, perché ciascuno si sente personalmente chiamato in causa: quante volte capita infatti anche a noi di intraprendere con entusiasmo un certo percorso, salvo poi abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile!”. Sissignori, è vero: condividere completamente la propria vita con un’altra persona, è sicuramente difficile, ma non impossibile; se ci impegneremo seriamente, se metteremo in gioco volontà e amore, tutto diventerà più facile! Dobbiamo però avere ben chiaro che se rinunciamo, se ci fermiamo, se perdiamo la voglia di faticare, di lottare, di sfidare le frequenti contrarietà, perdiamo completamente la nostra affidabilità, la nostra serietà personale; quel poco che avevamo conquistato, si dissolve, ci troviamo senza più nulla, impossibilitati a raggiungere positivamente qualunque altro obiettivo. Diventiamo insomma come il sale che ha perduto il suo sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili. 
È in questo contesto che Gesù, in tono serio e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da accettare e capire: «Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo»
Se questa frase non fosse scritta nel Vangelo, esattamente in questi termini, sarebbe impossibile attribuirla a Gesù. “Possibile che dica proprio che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sissignori, sono esattamente le sue parole. Ha usato veramente il verbo odiare? Sì, il verbo utilizzato, “miseo”, in greco significa proprio odiare, detestare, disprezzare”.
A questo punto viene naturale chiederci: “ma cosa intende veramente Gesù con queste parole?”. Chiariamo prima di tutto che Egli per principio non ha mai invitato nessuno all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è quindi di “odiare” qualcuno, di nutrire cioè sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro. Al contrario, come Egli stesso ci ordina, dobbiamo sempre ricambiare il loro amore con altrettanto amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per tutto quanto ci offrono, poiché nulla ci è dovuto, la nostra stessa vita!
Gesù in realtà vuole quindi stabilire non una “regola” generale, universale,
ma indicare una esigenza, una necessità per coloro che vogliono essere suoi discepoli, cioè suoi imitatori e collaboratori nel far conoscere al mondo il suo annuncio di salvezza; in altre parole, Egli fa chiaramente capire che quanti intendono “seguirlo”, mettendosi al suo servizio, devono adottare uno stile di vita completamente libero da qualunque altra distrazione, interesse o affetto: devono cioè affrancarsi da qualunque altra “priorità” che non sia l’amore per Lui. Solo in questo modo sarà possibile riconoscerGli quel primo posto in assoluto, così come Egli merita ed esige. Quindi, perché questo principio rimanesse chiaro nella memoria di tutti, Gesù ha usato parole molto dure, forti, difficili da accettare (come possiamo “odiare” le persone che ci sono più care?) ma, ripeto, l’ha fatto solo per sottolineare il giusto comportamento di ogni suo discepolo: il verbo “odiare”, un verbo sicuramente di forte “contrasto”, sta solo ad indicare che se accettiamo di “seguirlo”, non possiamo in alcun modo scendere ad alcun compromesso: qualunque distrazione, qualunque deconcentrazione infatti sarebbe di ostacolo, e va necessariamente evitata in modo radicale, deciso, risoluto.
Possiamo avere la conferma di ciò direttamente dalla lingua ebraica, che nella sua costruzione non ricorre mai a “paragoni”, ma preferisce esprimersi per mezzo di “opposizioni”: Gesù, quindi, invece di esprimersi, come leggiamo nel Vangelo di Matteo: «Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10,37) ha preferito ricorrere qui allo stile della lingua semitica contrapponendo i sentimenti amore-odio, dicendo: «Se uno non odia suo padre, sua madre… per amare e seguire me ecc.”; dove l’espressione “odiare”, acquista pertanto il significato di “posporre, mettere al secondo posto”. Ecco allora che quello che Gesù esige dai suoi discepoli, non è “odio”, ma un subordinare, uno spogliarsi, un distaccarsi, da quegli affetti particolari che potrebbero distoglierci dall’amarLo al di sopra di tutti e di tutto.
Proseguendo poi nella lettura del testo, troviamo un altro detto o “loghion” di Gesù, che si presta anch’esso ad essere male interpretato: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo».
Molti infatti sono convinti che “croce” sia qui sinonimo di sofferenza, tormento, pena. Sentiamo ripetere spesso, di fronte alle difficoltà, alle disgrazie: “Questa è la croce che Dio mi ha imposto!”. Con il termine “croce” si allude pertanto alle varie sofferenze, alle avversità della vita, convinti che sia Dio a mandarle, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Siamo dunque al “Vangelo del sacrificio”? Certo, il Vangelo è anche croce, è anche sacrificio: ma Gesù non obbliga a vivere nella sofferenza, non invita a soffrire, non ha benedetto il dolore. La croce, le sofferenze, non vengono da Dio, sono una eredità, un retaggio dell’umanità peccatrice. Dio al contrario ci chiama alla gioia, alla vita. La meta del cristiano è di seguire con gioia Cristo per condividere un giorno la sua gloria. 
Nel Nuovo Testamento, infatti, il termine greco “stàuros, croce”, appare 73 volte, ma in nessun contesto questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. Gli evangelisti infatti, per dire “prendere, portare la propria croce”, non usano mai verbi come “fèro” o “dèchomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un dover accettare qualcosa imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambàno” o “bastàzo” che significano “prendere volontariamente, accettare, sollevare spontaneamente”: è il gesto, descritto da Giovanni, con cui Gesù, condannato a morte, si carica spontaneamente sulle spalle la croce patibolare. Egli non ha cercato la croce, ma quando gli è stata imposta, non si è tirato indietro, non l’ha rifiutata, ma se l’è caricata sulle spalle, senza reagire: un gesto libero, di grande responsabilità, di fondamentale insegnamento per noi. 
Del resto “prendere la croce” non è obbligatorio per tutti, ma solo per chi lo vuole! È solo per chi ha scelto liberamente di seguire Gesù, di amarlo in maniera particolare, esclusiva: “Se uno viene a me...”. Questo significa testimoniare la nostra libera adesione a Cristo: non importa se per questo, il mondo senza Dio cercherà di distruggere la nostra fede, le nostre scelte, i nostri principi, la nostra stessa reputazione, la nostra onorabilità; non è una novità per noi Chiesa di Cristo, Lui ci aveva già preavvertiti: “Sarete odiati da tutti a causa mia!”. Ebbene: è proprio questa “causa” che ci procura fin da ora determinazione, gioia, soddisfazione, amore! 
Il cristiano è infatti un essere umano, ricco di gioia interiore, che anela alla gioia senza fine: egli sa che per giungervi vi è una sola strada, quella stessa strada percorsa da Cristo, contrassegnata da dolori e da croci. Lo sa e la percorre con gioia, in vista della sfolgorante Pasqua celeste. Amen.

 

 

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