giovedì 15 settembre 2022

18 Settembre 2022 – XXV Domenica del Tempo Ordinario

Lc 16,1-13 
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

 Dopo le “parabole della misericordia” di domenica scorsa, siamo passati, col capitolo 16 di Luca, alla parabola del “fattore infedele”: una parabola che, all’inizio, potrebbe anche indurre in errore, visto che Gesù sembra elogiare un truffatore, un amministratore infedele, un ladro. 
Cerchiamo allora di leggere con maggior attenzione i singoli particolari, nella loro sequenza: prima di tutto l’accusa anonima di infedeltà (“fu accusato”): l’amministratore non si difende, non ammette alcuna colpa, non si pente e non chiede scusa: non si preoccupa neppure per le imminenti conseguenze, ma, al contrario, cerca in fretta di sistemare la situazione a suo favore: considerato che non ha più l’età per cercare un nuovo lavoro, e che si vergogna di andare per le strade a chiedere l’elemosina, si inventa una mossa molto astuta, da manuale: continua cioè a rubare al suo padrone, ma questa volta non dalla cassa, ma investendo per il futuro, a fini “pensionistici”, gli utili derivanti dal suo ultimo malaffare. È un ladro professionista: sa che il padrone, come si usava allora, paga lo stipendio sulla base di una percentuale calcolata sul totale dei proventi, ovviamente ad incasso avvenuto; egli allora che fa? Convoca tutti i debitori del padrone, s’informa sull’entità del loro debito, detrae immediatamente da esso l’importo che egli ritiene di sua competenza, e registra a debito, con loro grande soddisfazione, soltanto le somme decurtate. Insomma una truffa in piena regola, ma che per lui truffa non è; pensa infatti: “Queste somme mi spettano di diritto: non le potrò più incassare personalmente, ma le investo ora, per poterle riavere un giorno direttamente dai debitori del padrone; sono certo che essi, grati per quanto hanno risparmiato oggi, provvederanno in seguito a restituirmele direttamente”. 
È chiaro che l’amministratore non è un esempio di correttezza: anzi l’aver irregolarmente e astutamente “decurtato” i crediti del padrone, è un’azione da furfante, da ladro professionista.
Ma è proprio in questa sua scaltrezza mefistofelica che sta la sua “grandezza”: perso per perso, costretto a vivere senza lo stipendio, unica sua fonte di sostentamento, provvede a crearsi in fretta, finché è ancora in tempo, un investimento per il futuro che non gli assicurerà di certo una ricchezza smisurata, ma un ritorno sicuro, graduale, in termini di denaro, di aiuti, di amicizia e collaborazioni varie. 
Dice il vangelo: “Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”; da notare però che Luca nel riferirsi al “padrone”, usa qui di proposito il termine kùriosche significa sì “padrone”, ma è anche l’appellativo usuale con cui egli indica la persona di Gesù: precisamente 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti. Un apprezzamento quindi che viene espresso dal “padrone”, dal vero “kùrios”, che è Gesù stesso: un elogio, un giudizio positivo nei confronti di un ladro, che ci lascia un po’ interdetti, ritenendolo in stridente contrasto con quanto da lui insegnato e praticato nella sua vita.
Dobbiamo però capire che qui Gesù non esalta, non si compiace della disonestà, della malafede, dell’ingiustizia, dei furti compiuti dall’amministratore. Ad essere elogiata, e quindi portata ad esempio, è l’intraprendenza, l’intuizione, la prontezza di spirito del servo: tutte doti in sé ampiamente positive: qui purtroppo vengono usate a scopo negativo, ma sono doti assolutamente condivisibili, tant’è che Gesù le consiglia vivamente, per la loro rarità, proprio a chi si adopera nel fare il bene, a chi lo vuol seguire. Egli infatti conclude la parabola, constatando un po’ amaramente:
“I figli di questo mondo, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce”. Un’osservazione appunto che ci fa pensare ad un Gesù scoraggiato, un po’ demoralizzato: dopo tanto lavoro, dopo tanto impegno profuso, suo malgrado, deve ammettere che i figli di questo mondo, i figli delle tenebre sono più scaltri, più furbi, più “svegli”, più reattivi nel fare il male, rispetto ai “suoi” figli, i figli della luce, nel fare il bene. Parole, le sue, che contengono chiaramente l’invito pressante ad adottare nel bene una pari scaltrezza, a comportarsi insomma da persone “sveglie”, dotate di altrettanta prontezza e inventiva. 
Questa pagina del vangelo, ci offre inoltre altri messaggi importanti, altre conferme del pensiero di Gesù sulla “ricchezza”, che meritano attenzione. 
Dobbiamo ricordare che Luca è l’unico evangelista che affronta ripetutamente il tema della “ricchezza”, dell’arricchirsi, esponendo puntualmente di volta in volta le varie regole comportamentali dettate da Gesù: lo ha fatto per esempio nel capitolo 12, parlando della insensatezza di quell’uomo molto ricco, che invece di godersi la vita con il suo ingente patrimonio, continua ad affannarsi nell’aumentarlo, senza rendersi conto che nessuno è padrone del tempo, e quanto prima potrebbe finire quello a sua disposizione, e perdere tutto; per lui la ricchezza è l’unica garanzia di felicità, ma nel suo costante delirio di onnipotenza, nella sua lacerante insoddisfazione, si ostina a vivere i suoi giorni come se fosse già “morto”; lo fa anche con la parabola di oggi, e lo farà ugualmente con la parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro, di cui ci occuperemo domenica prossima. 
In tutte le occasioni, la ricchezza per Gesù è sempre disonesta, ingiusta: un'offesa, un danno, un pregiudizio (adikìa): essa infatti è sempre il prodotto di un’ingiustizia, perché chi vuole "accumulare", in qualche modo "sottrae" agli altri. Il termine “ricchezza”, tradotto da Luca con “mammona” (m-ame/on-a), nella radice ebraica significa più in particolare “accumulo di beni, sicurezza materiale, certezza per il domani”. Ma, nella vita, è veramente la “ricchezza”, il bene che ci tranquillizza, che ci dona fiducia, che ci rassicura, che ci offre l’autentica certezza per il nostro futuro? Certamente no, perché tutto ciò che riguarda questa nostra vita, tutto ciò che si riferisce al materiale, è passeggero, provvisorio, temporaneo! Pensare quindi che la ricchezza, il “mammona”, l’accumulare i beni ci faccia felici, è pura illusione! 
La ricchezza deve invece servirci solo per procurarci “degli amici” (filous): «Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne», raccomanda Gesù. Ma chi sono questi “amici” così potenti che possono accoglierci nelle dimore eterne? Ovviamente nessun uomo, nessun amico terreno, “fisico”, materiale, può farlo: c’è un solo amico, veramente fedele, potente, su cui possiamo contare: un amico divino, “spirituale”, un amico che ci ama, cui sta a cuore esclusivamente la salvezza nostra e della nostra anima: insomma, l’unico vero amico che può accoglierci nelle “dimore eterne” è Dio, Dio soltanto! È Lui, infatti, la nostra vera ricchezza, è Lui l’amico fidato, sincero che manterrà ogni sua promessa, l’amico che ci salverà, che ci solleverà da ogni delusione. È Lui che dobbiamo cercare con fede, è in Lui che dobbiamo confidare, in Lui che dobbiamo abbandonarci: con Lui e in Lui, la morte, il crollo di ogni nostra sicurezza materiale, non sarà più un dramma, ma il mezzo per raggiungere il definitivo possesso della Ricchezza Vera, quella del suo amore, quella che non viene mai meno, che niente e nessuno potrà mai distruggere. 
«Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto». Non ci sono vie di mezzo: non esiste una fedeltà nel poco e una fedeltà speciale nel molto. La fedeltà è unica. Ma come possiamo definirla? “È una virtù, una dote, un modus operandi che si fonda sull’essere leali e coerenti, nel mantenere gli impegni presi, i legami, gli obblighi assunti; quindi un concentrato di verità, lealtà, perseveranza. 
Se non possediamo questa “fedeltà”, se non riponiamo esclusivamente in Dio ogni nostra certezza, siamo “infedeli”, siamo cioè “senza fede”, siamo “disonesti”, nel poco come nel molto, esattamente come l’amministratore del vangelo di oggi. Perché, conclude Gesù, “non potete servire Dio e mammona”
In effetti, nella nostra vita, siamo spesso carenti di “fedeltà”: continuiamo a dimenticarci di Dio, ci lasciamo sedurre dai beni terreni (soldi, prestigio, carriera, riconoscimenti, potere): siamo affascinati proprio da quei beni che non offrono certezza, che sono passeggeri, corruttibili; beni che possiamo perdere in qualunque momento; beni per ottenere i quali siamo spesso pronti a vendere anche l’anima. Viviamo una “non-vita” in continua tensione, con la paura di perderli; cerchiamo di tenerceli stretti con ogni mezzo, e non ci rendiamo conto che, prima o poi, li perderemo comunque. Siamo stolti! Non abbiamo ancora capito che il “mammona” non è mai un investimento: è solo un grande imbroglio, un bluff macroscopico, che riesce solo a soffocarci con l’ansia e la paura, rendendoci la vita, di per sé meravigliosa, un’esperienza sterile, vuota, arida, invivibile. 
Solo servendo Dio potremo vivere liberi dalla schiavitù di mammona, del denaro: solo vivendo con Dio, il nostro cuore diventerà “generosità”, “servizio”, “agape”, rimanendo sempre aperto, sensibile, attento alle necessità e alle sofferenze del prossimo; solo vivendo con Dio, un giorno verremo accolti nelle “dimore eterne” della Vita vera. Dio, infatti, nostra unica ricchezza, ha il grande vantaggio di non deteriorarsi mai, di non avere scadenze, di essere imperdibile, irrinunciabile: vivere con Lui vuol dire allora certezza, serenità, beatitudine, amore, gioia, Vita eterna! Amen.

  

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