giovedì 7 febbraio 2008

10 Febbraio 2008 - I DOMENICA DI QUARESIMA



Essenzialità
Lasciate le barche per seguire Gesù nel territorio di Zabulon e Neftali, ai confini della storia, accolta la sconcertante notizia di un Dio che è povero e misericordioso, siamo chiamati a diventare sale che dona sapore all'insipido mondo, luce che indica la strada ai cercatori di beatitudine.
Ma, lo sappiamo, la strada è in salita e il vento pungente della disperazione rischia di spegnere la flebile fiamma della fede.
Abbiamo bisogno di convertirci alla gioia, abbiamo bisogno di tenere stretto in mano lo spago che si dipana nel delirio quotidiano per condurci alla pace interiore.
Inizia la Quaresima, fratelli, inizia il deserto.
Quaranta giorni alla sequela di Gesù che inizia la sua vita pubblica nell'assordante silenzio del deserto, là dove l'essenziale emerge. A imitazione del popolo di Israele che vaga quarant'anni nel deserto del Sinai prima di entrare nella terra promessa, Gesù prende estremamente sul serio la sua missione, e cerca nel silenzio e nel digiuno il percorso da seguire. Gesù, vero uomo e vero Dio, ha di fronte a sé delle scelte da compiere: come eserciterà il suo ministero? Userà prodigi e miracoli? Scuoterà il cielo e farà piovere il fuoco dal cielo? Cavalcherà la connaturale idea di Dio che portiamo nel cuore per stupirci e intimorirci?
Il colloquio fatto con l'avversario è pieno di umano buon senso: bisogna sostenersi fisicamente per affrontare il faticoso compito dell'annuncio, bisogna usare qualche prodigio per attirare l'attenzione, occorre tenersi buoni i potenti della terra per avere appoggio nella missione.
Proposte sensate che Gesù rifiuta, usando la Parola (che conosce bene) per discernere cosa deve fare.
Gesù sceglie quale Messia essere: un Messia dimesso e misericordioso, non ricorrerà ai prodigi, né alla forza; Dio vuole essere amato per ciò che è, non per ciò che dà.
Gesù sceglie ispirandosi alla Parola, riesce a dribblare le trappole dell'avversario tenendo nel cuore la Scrittura, decide alla luce di Dio Padre come compiere la sua missione.
E noi fratelli, sorelle, abbiamo deciso quale uomo, quale donna diventare?
Il nostro carattere, la nostra educazione, le esperienze della vita hanno profondamente influenzato il nostro percorso, determinato ciò che siamo; ma c'è nel nostro cuore un immenso spazio di libertà che possiamo gestire, orientare, portare a maturazione: è ciò che ci rende simili a Dio.
Ci sono dati quaranta giorni di deserto nella città, quaranta giorni per tornare all'essenziale, per chiederci, una volta all'anno, se ciò che siamo è ciò che abbiamo scelto e, se non abbiamo potuto scegliere, se la vita che viviamo la viviamo nella tenerezza di Dio.
Quaresima è il tempo della concentrazione e della verifica, per essere capaci di accogliere la straordinaria gioia della resurrezione di Gesù. La gioia è l'obiettivo ultimo della Quaresima, tempo in cui aprire il cuore alla conversione.
Per molti di noi occorrerà mortificarsi: togliere dai piedi ciò che c'impedisce di essere liberi, ciò che ci distrae e ci fa vivere nella dimenticanza.
Per molti di più occorrerà vivificarsi, lasciare la tristezza, abbandonarla, non amarla, per convertirsi, infine, alla gioia.
La quaresima, in ogni caso, diventa il tempo in cui rimettiamo un centro nella nostra vita.
Quaresima, palestra che ci diamo una volta all'anno, esercizio per ritrovare l'unità, tempo di deserto, sull’esempio di Gesù che seguiamo e che - come noi - ha voluto fare l'esperienza di deserto per scegliere come vivere, per far ordine intorno alle sue scelte.
Mercoledì abbiamo iniziato il cammino con un gesto simpaticamente tragico: l'imposizione delle ceneri con il monito: “Ricordati che sei polvere…”
Ce lo ricordassimo quando ci scanniamo per questioni di eredità o scaliamo la scala sociale! Se lo ricordassero i super-iper-tutto dell'umanità che qualche anno dopo la loro serena dipartita saranno polvere! Ce lo ricordassimo quando – senza patemi o tristezze – indaghiamo sul senso della storia e della vita!
Il delirio di onnipotenza che - talora - prende la nostra umanità verrebbe guarito da questa semplice considerazione: siamo polvere.
Ma polvere che Dio illumina e trasfigura, accende e rende capolavoro e meraviglia...
Quali le strade della desertificazione? Ne indichiamo tre soltanto: il digiuno, sia simbolico, ad esempio spegnere la tivù, dedicare più tempo a sé e alla famiglia, allentare le tensioni, che reale, alleggerendo la cucina per solidarietà con i poveri e per liberare cuore e corpo dalle tossine; la preghiera, intesa soprattutto come esercizio quotidiano (un quarto d'ora, come minimo) di silenzio, di meditazione, di lettura della Parola col desiderio autentico di comunicare con Dio; l'elemosina, come rinuncia ai beni superflui per sostenere chi vive nella miseria. Tre itinerari che, se percorsi con cuore sincero, ci possono condurre alla vicinanza con Dio.

Quaresima, tempo per fare “giustizia”.
Gesù nel grande discorso della montagna, ci indica qual è la “nuova giustizia del Regno”, la nuova sedaqah ossia il vero modo di vivere il nostro rapporto con Dio e con i fratelli.
Il termine ebraico sedaqah non indica tanto l’obbedienza ad una norma, quanto la condizione ottimale che ciascuno deve avere nei suoi rapporti interpersonali e con Dio. Significa rispondere adeguatamente e in giusta misura all’amore di Dio. Il giusto, quindi, che osserva la torah, realizza la sua fedeltà a Dio e al popolo: in altre parole fa giustizia, pareggia i conti, fa sedaqah.
Il Nuovo Testamento ha ripreso questo concetto veterotestamentario di giustizia, conferendogli una nuova valenza: dikaiusìne, una giustizia-comportamento che è grazia di Dio, che è un dono, e che quindi non può essere considerato né un vanto né una conquista umana, perché come dice Paolo, in Rom 3,26 è Dio che è “giusto e giustificante” (dìkaion kai dikaiùnta”); è Lui che con la sua grazia, con il suo amore, con il suo sostegno, rende “giusto” l’uomo, gli consente di “pareggiare” il conto con una adeguata risposta nei confronti di Dio e del prossimo.
Ecco perché la sedaqah-dikaiusìne che deve animare le tre pratiche fondamentali del cammino cristiano - la preghiera, l'elemosina e il digiuno – non può essere considerata un merito personale di cui vantarsi, di cui andare fieri (come ci mette in guardia il vangelo).
Gesù infatti, proprio qui, ricorda lo spirito che ci deve guidare nel nostro percorso di perfezione, quale la molla interiore che deve animare le nostre opere, se vogliamo che la nostra sedaqah-dikaiusìne, il nostro rendere giustizia a Dio, sia l’espressione di un sincero e autentico rapporto di amore con Lui.
Gesù parla a ragion veduta: è fin troppo evidente che anche oggi il comportamento di molti - quando pregano, fanno carità e digiunano - è ben lontano dallo spirito della autentica sedaqah: lo fanno semplicemente “per essere ammirati”, “lodati”, “visti”, “per apparire”.
E Gesù conclude: “hanno già avuto la loro ricompensa, non avranno altro”.
Allora riflettiamo un momento, fratelli: esaminiamoci nell’intimo del cuore, per stabilire se qualche volta anche noi nel fare le nostre pratiche religiose, non cadiamo nella tentazione di cercare la nostra gratificazione. Perché in questo caso, di fronte a Dio le nostre opere di conversione non servono a nulla, sono sterili.
Domandiamoci umilmente e in tutta sincerità “a quale frutto miriamo”, a quale ricompensa aspiriamo, quale gratificazione cerchiamo nel nostro vivere da cristiani.
E dunque, seguendo l’insegnamento che Gesù qui ci ha lasciato, evitiamo che il bene che facciamo, diventi uno strumento di soddisfazione personale, un mezzo di autoaffermazione, una strada per arrivare alla nostra auto-celebrazione.
In questo modo però la nostra ricompensa sta già nel sentirci bravi, buoni, a posto, giusti.
Invece, fratelli, la nostra vita deve mirare soltanto a Dio, perché è Lui la vera ricompensa, perché è per lui, per Lui solo, che noi dobbiamo fare sedaqah, essere operatori di “giustizia”.
E senza pretendere nulla in cambio: non siamo nella condizione di poterlo fare… perché è lui il dìkaion, il giusto, che per primo fa il dikaiùnta, il “giustificante”, nei nostri confronti.
Allora accettiamo riconoscenti quello che Lui vorrà darci, affidiamo semplicemente a lui il frutto del nostro impegno.
Non sappiamo come questo frutto si concretizzerà, ma sappiamo con certezza che esso ci sarà; sarà un frutto di salvezza, di amore, che il Padre continuerà ad effonderci a piene mani e che, se ci pensiamo bene, altro non è che la stessa essenza divina dell’Amore, il suo stesso Spirito vivificante e consolatore, che Egli ha inviato ad inabitare nei nostri cuori.
Solo così ci sentiremo completamente soddisfatti, forti, convinti, umili, sinceri, innamorati di Dio: solo così saremo beati, i “makarioi” delle beatitudini, perché sentiremo dentro di noi la tranquilla, dolcissima sicurezza di aver fatto sedaqah, di aver risposto con dikaiusine all’infinito amore di Dio nei nostri confronti.

giovedì 31 gennaio 2008

3 Febbraio 2008 - IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Dio è garante della mia gioia
Se da un lato questa pagina del vangelo è una delle più conosciute dalla gente (anche perché è rivolta proprio a tutti, “Gesù vendendo le folle”) è anche una delle pagine più ostiche, più difficili, una pagina che stravolge completamente quella che è la nostra comune concezione della vita:

Tutti infatti, credenti o meno, siamo dei mendicanti di gioia; ogni giorno ci accorgiamo e tocchiamo con mano di non essere veramente felici, non abbiamo ragioni sufficienti per essere davvero realizzati, totalmente appagati.
Sì, certo, viviamo momenti intensi, belli, memorabili, gioie semplici e vere che solcano – grazie a Dio! – il cuore e la vita.
Ma non sono sufficienti a realizzare tutto il desiderio di assoluto che portiamo impresso nel nostro cuore. Il nostro cuore è sempre “inquietum”
Il nostro mondo, la società in cui viviamo, poveri ingenui!, ci fanno credere che ottenere la felicità è cosa da poco: basta possedere, apparire, dominare, esagerare sempre.
Ma purtroppo chi davvero crede a questa menzogna, si ritrova inevitabilmente con un pugno di mosche in mano, inebriato, intimamente svuotato, fuori di sé.
Allora… è possibile arrivare alla pienezza della felicità? vivere la totalità dell'amore?

Matteo, nel suo discorso della montagna, ce ne traccia la via: come un nuovo Mosè, Gesù consegna alle genti la sua nuova legge, non più scolpita sulle tavole di pietra, ma incisa nel cuore dei discepoli.
Egli come al solito ci sconcerta: la beatitudine, la felicità, la gioia, corrispondono esattamente al contrario di ciò che noi consideriamo fonte di benessere: ricchezza, forza, calcolo, scaltrezza, arroganza.
Ma cosa sta esattamente dicendo Gesù? Esalta forse una visione di cattolicesimo rassegnato e perdente che troppe volte vediamo intorno a noi? Mi dice forse che, se le cose vanno male, se va tutto a rotoli, se sono povero (il testo greco è ancora più forte: “ptokòi” = pitocchi, accattoni, pezzenti), se subisco violenza, se provo dolore e piango, sono immensamente fortunato?
Allora ha ragione l'immenso Nietzsche, quando dice che i cristiani, non riuscendo a vincere, a emergere, a trionfare, dicono: "Allora beati gli sconfitti?

Non diciamo sciocchezze; lo sappiamo benissimo che non può essere così!
Dio non ama il dolore e Gesù stesso, per quanto gli è stato possibile, ha evitato la sofferenza.
E allora?
Gesù parla del Padre: ce ne descrive il vero volto, ci racconta l'inaudito di Dio, così come egli lo ha vissuto e lo vive.
Il Padre, il vero Dio, è un Dio povero, un Dio misericordioso, un Dio mite, un Dio che ama la pace, un Dio che, per amore, è pronto a soffrire. Un Dio così diverso da come ce lo immaginiamo; un Dio così straordinario e armonioso: solo Gesù ce lo può veramente svelare, perché lui e il Padre sono una cosa sola.

Dio non dona a ciascuno il suo, ma a ciascuno secondo quanto ha bisogno, privilegiando chi ha meno: un cuore povero, un cuore affranto riceve molta più attenzione e tenerezza di un cuore sazio che non ha bisogno di nulla.
La beatitudine non consiste dunque nel dolore, nella miseria, ma nel fatto che l'intervento di Dio colma il cuore di chi è affranto.
In altre parole Gesù ci dice: se, malgrado la sofferenza, la persecuzione, il pianto tu sei sereno, beato, significa che hai riposto in Dio la tua fiducia; è lui il tuo unico sostegno; stai felice: hai trovato Dio, la felicità che non ti è tolta, la risposta grande alla vita.
Le gioie che viviamo, sono un suo dono, e vanno vissute come tali, perché Dio ci chiederà conto anche di tutte le gioie che non avremo vissuto.
Ma immaginate quanta più gioia avremo nel nostro cuore se, nel dolore, resteremo aggrappati a lui, l'unico bene che non ci può essere tolto?
Conoscere Dio, sapere che in lui soltanto riposa il nostro cuore, sconvolge l'ordine delle cose.

Il mondo è aggressivo e ci vuole grinta per sfondare? Dobbiamo dimostrare in continuazione e a tutti che valiamo? Al lavoro siamo misurati e pesati continuamente? A casa spesso ci sentiamo incompresi? Bene. Non c'è scampo: o ha ragione il mondo, o ha ragione Dio.

Se noi restiamo miti, costruiamo la pace, viviamo nella giustizia, noi stiamo dalla parte di Dio.
Le Beatitudini sono promessa di un mondo nuovo, diverso, di una logica che siamo chiamati a scrivere nella piccola vita delle nostre piccole comunità radunate intorno al pane di Dio.
E' difficile vivere il Vangelo, lo sappiamo bene; è difficile vivere nel quotidiano, il sogno di Dio che è la Chiesa.
Ma la fatica che faccio nel restare tassellato al Vangelo, lo sforzo eroico che compio nella conversione alla logica del Regno, anticipa e realizza le Beatitudini.
Nella nuova prospettiva chi è mite conta qualcosa; chi è povero di cuore, cioè umile, vale più di chi ostenta arrogante ricchezza; la mia presenza, la mia preghiera, sono conforto al cercatore di giustizia.
Le beatitudini affermano che la storia umana finirà come abbiamo sempre sognato: trionfa il bene, l’umiliato e sconfitto risorge, l'arroganza dei potenti è convertita, umiliata.

Il discorso della Montagna ci immette, dunque, in quel clima di particolare totale immersione della logica dell'amore, del servizio, del perdono, pace, sofferenza, bontà e tenerezza. Un discorso che ben illumina la realtà umana in una prospettiva di salvezza oltre il tempo, nell'eternità, ma che si costruisce oggi, in quanto i Beati, ora e qui, sono tutti coloro che operano nella prospettiva indicata da Cristo.
Ecco allora che le categorie etiche sulle quali dobbiamo strutturare il nostro impegno nel mondo sono quelle che si rifanno in termini lineari alle Beatitudini evangeliche.
Certo, in un mondo come il nostro queste categorie sono paradossi, per molti impossibili da assimilare, concettualizzare e praticare.
Ma senza questa prospettiva diventa impossibile parlare di Vangelo e vivere il Vangelo anche oggi.
Poveri, afflitti, miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace, i perseguitati nella prospettiva del Vangelo sono soggetti difficili da incontrare nella nostra vita ordinaria. Tuttavia ci sono e sono proprio loro la speranza nel pensare e volere un mondo migliore. Un mondo possibile da costruire se si fanno queste scelte di campo coraggiose. E sono scelte di beatitudine vera, che vanno al di là di ogni presunto potere che ci propina la cultura del pensiero debole o dello strapotere della tecnica e dell'economia, della politica e del progresso senza limiti.
Tutto questo nostro impegno nel costruire ogni giorno la beatitudine in questo secolo e in vista dell'eternità è motivo di profonda gioia, in quanto abbiamo la certezza di una ricompensa che supera abbondantemente le nostre attese: "Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli". E' questa la consolazione più grande per un cristiano, anche se egli dovrà molto patire e soffrire in questo mondo.

Dobbiamo quindi ritornare alle verità fondamentali.
Nel corso della vita, l'uomo deve trovare un centro interiore che orienti e dia senso alla sua esistenza.
Deve scoprire quel nucleo di verità fondamentali che lo sostengono e gli permettono di rimanere nel bene morale, mentre molte speranze superficiali continuano a sparire. Questo vale non solo per le persone più mature, alle quali il tempo ha già recato qualche delusione, ma anche per molti giovani, "appassiti nella primavera stessa della vita", che hanno perso l'incanto della vita.
Tutti dobbiamo aspirare a queste "verità fondamentali" che diano speranza al nostro camminare. Significa riscoprire la ragione della propria esistenza, l'amore di Dio, e il senso della propria dignità come persona e Figlio di Dio, per scoprire che abbiamo una missione nella vita e che il nostro passaggio su questa terra è momentaneo e provvisorio. Le beatitudini ci invitano appunto a rivedere la nostra gerarchia di valori. Ci aiutano a comprendere, alla luce dell'eternità, la relatività di tutto ciò che è creato, dei beni materiali, l'incongruenza della ricerca esclusiva del piacere e del benessere, e la relatività delle sofferenze di questa vita.
"Cercare ancora il Signore": è questo che ci propone il profeta Sofonia. Cercarlo tra le pieghe della nostra vita, cercarlo nelle sofferenze, nelle pene; cercarlo nelle proprie imprese, nella nostra famiglia; cercarlo nella vita di società e nella storia del mondo. Cercare il Signore significherà, certamente, pregare e parlare con Dio, ma non solo quello. Cercare il Signore significherà conformare la nostra condotta di vita coi suoi comandamenti, con le sue leggi, perché Egli è il Signore! Cercate il Signore e il vostro cuore rivivrà!

giovedì 24 gennaio 2008

27 Gennaio 2008 - III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Il Dio dei confini
Dopo una lunga preparazione, durata più di trent'anni, Gesù incomincia la sua missione pubblica.
E inizia con piglio, con sfida. Quando incarcerano Giovanni Battista, Lui riprende le stesse parole che Erode aveva fatto tacere: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”.
Queste prime mosse svelano lo stile di un uomo, il senso di una missione. La scelta del luogo, le parole e i gesti di guarigione che compie, la chiamata dei primi discepoli mostrano un Gesù ben consapevole di quel che vuole, già con un progetto preciso in testa: “predicava la buona novella del Regno”.
Gesù lascia Nazaret per stabilirsi a Cafarnao. Cafarnao è la piazza più battuta di tutta la regione. Si trova sulla famosa “Via maris”, strada internazionale principale che collegava Damasco - capolinea di tutte le piste del deserto e della Mesopotamia - con Cesarea Marittima, porto d'attracco di tutti i commerci del Mediterraneo e transito obbligato per giungere in Egitto. Qui c'è una dogana, perché confine di Stato dove tutti si fermano, e una guarnigione militare romana. E' il centro commerciale del mondo pagano, dove regnano chiasso, confusione, disordine. È nel territorio di Zabulon e di Neftali, nella “galilea”, ossia nella regione dei pagani.
Viene subito indicato il perché di tale scelta: “Il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata”. Finalmente su tutti gli uomini - anche sui pagani - spunta la luce della salvezza promessa da Dio. Poiché l'antico Israele non ha saputo riconoscerla - “Venne tra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto” (Gv 1,11) - la Buona Novella sarà rivolta ad un popolo che la sappia accogliere. Già i Magi ne erano stati il simbolo. “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Ognuno ora è chiamato: “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tim 2,4). La fede è un dono gratuito, dato a tutti, sufficiente ed efficace per la salvezza.
É offerta di vita, quella del Regno. È riscatto da una schiavitù, quella del male, della morte e del peccato: “Poiché tu, come al tempo di Madian, hai spezzato il giogo che l'opprimeva, la sbarra che gravava le sue spalle e il bastone del suo aguzzino”. Gesù pone i primi segni di tale liberazione proprio nei miracoli di guarigioni: “Percorreva tutta la Galilea curando ogni sorta di malattie e infermità nel popolo”. “Passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At 10,38).”Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia”. Il Regno è la signoria di Dio sul male e sulla morte, è la signoria del Dio della vita, di questo Dio amante dell'uomo, “la cui gloria è l'uomo vivente” (sant'Ireneo), la cui passione cioè è la pienezza di vita per l'uomo.
Ma a questa proposta di Dio l'uomo è chiamato a rispondere, deve aderire al Regno.
“Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: CONVERTITEVI”. É la prima parola: metanoèite!
Si tratta cioè di cambiare testa, cambiare direzione, cambiare riferimento, aprirsi alla novità, aprirsi alla salvezza, aderire al progetto di umanità che Dio ci propone, perché il vostro progetto - ci dice Gesù - è fallito! Voi uomini avete come sfigurato l'immagine di Dio che è in voi, annebbiata l'identità dell'uomo così come era uscita dalla mano del Creatore. C'è bisogno di restauro, di una riformulazione più precisa di ciò che è veramente e profondamente umano, e di una ricostruzione. Gesù ebbe a dire un giorno: “Da principio non era così ..!” (Mt 19,8). Qualcosa s'è rotto. Va riaggiustato. L'inizio del Regno è inizio d'umanità autentica, è inizio dell'unico vero umanesimo per la riuscita d'ogni uomo.
Seconda parola: “SEGUITEMI”. Il Regno è una convocazione diretta, una chiamata da parte di Dio: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). E' Dio in persona che ti invita e richiede la tua adesione. Non per qualcosa di alternativo a te, ma per te e con te per una tua storia diversa. Ciascuno certo ha qualcosa da lasciare, cui rinunciare (affetti sbagliati, situazioni negative ..), ma per una libertà maggiore aperta ad un'opera più grande.
Ecco la terza parola: “VI FARO' PESCATORI DI UOMINI”. E' una missione che dilata la vita, che fa compiere un salto di qualità, aprendo nuove prospettive: essere costruttori di una umanità nuova, operai diretti di quella storia unica, grande, definitiva che è il Regno di Dio, l'inizio di quei “cieli nuovi e terra nuova” nei quali si consuma tutto il cammino dell'umanità e del cosmo. Chiamati quindi a dare finalità e motivazione diversa al proprio operare quotidiano. Ciascuno certo per un suo ruolo specifico e diverso entro il popolo di Dio, ma tutti per una impresa comune che esalta e riscatta la propria attività quotidiana sempre bruciata dalla insoddisfazione e dall'inefficacia. Questo è l'essere cristiano: l'umano con l'innesto del divino, il tempo nell'eterno, .. o anche: la professione elevata a missione. Quei primi quattro discepoli, da modesti e anonimi pescatori del mare di Galilea sono diventati le colonne di un edificio che si protende nell'eternità.

Da discepoli incontro al mondo
Gesù dunque inizia la sua predicazione, dai confini della storia, da un angolo di terra emarginato e guardato con diffidenza.
Dio è sempre così, preferisce gli indisciplinati ai bravi ragazzi, invita i primi della classe ad uscire e a darsi da fare, obbliga chi lo segue ad andare verso le inquiete frontiere della storia, piuttosto che serrare i recinti delle false certezze della fede. Dio è così, ama il rischio, vuole sporcarsi le mani, parte ad annunciare il Regno là dove nessuno lo aspetta, né lo desidera.
Si, fratelli: è così che possono e devono diventare le nostre comunità cristiane, capaci di uscire dalle chiese per ridare Dio al popolo, per condividere con esso il cammino.
Gesù sceglie di abitare e di condividere tutto con questi abitanti del “confine”; porta loro la luce, dona testimonianza. La nostra fede deve uscire dalle nostre chiese; Dio è stanco di essere venerato nei tabernacoli (quando lo è!) e di non riuscire ad entrare nelle nostre quotidianità; è stufo di essere tirato in ballo nei momenti “sacri” ed essere estromesso dai luoghi usuali della nostra vita, dai luoghi del lavoro, dell'economia, della politica, del divertimento. Il movimento della comunità è l'incontro nella lode, per diventare capaci di dire Cristo nel quotidiano, nel vissuto, nel vero di ciascuno.
E l'annuncio è bruciante: “convertitevi perché il Regno si è fatto vicino”. Sì, così scrive Matteo: è il Regno ad essersi avvicinato, è lui, Dio, che prende l'iniziativa; a noi di accorgerci, di girare lo sguardo (convertirsi, appunto) immedesimandoci in Lui. Dio non esordisce con qualche reprimenda morale, con qualche sensato discorso teso a suscitare pentimento e cambiamento di condotta. Lui, lui per primo si offre, si dona, rischia. Dice: “io ti sono vicino, non te ne accorgi?”. Accorgersi significa davvero mollare tutto, lasciar andare i molti affari, le molte cose, per recuperare l'essenziale, come Pietro, come Andrea, che diventano – finalmente – pescatori di uomini. Il Regno è la consapevolezza della presenza entusiasmante e sorridente di Dio. Il Regno è là dove Dio regna, dove lui è al centro. E la Chiesa, comunità di chiamati e di discepoli appartiene al regno anche se non lo esaurisce.
A Zabulon e Neftali siamo chiamati a dire: “Dio ti è vicino”. Non perché c'è un qualche merito, ma solo per il cuore largo di Dio che viene.
Calma, fratelli, calma discepoli che prestate un difficile servizio ecclesiale con i ragazzi o con le coppie, tranquilli voi che vi giocate nel sociale, là dove l'uomo è meno uomo e dove il dolore domina: il Regno, Lui, si avvicina. Non dobbiamo salvare il mondo, fratelli: il mondo è già salvo! È che non lo sa. E vive nella disperazione. A noi di renderlo presente, questo Regno, a noi di vivere da salvati, a noi di diventare divulgatori del Regno, farne pubblicità, vivere nella luce, in mezzo alle tenebre che avvolgono Neftali e Zabulon.
Per annunciare che il Regno è vicino, Dio ha bisogno di noi, proprio là dove siamo. Chiamati a fare esperienza di fraternità (la parola “fratello” viene ripetuta quattro volte in tre versetti!), possiamo lasciare le reti che ci trattengono (paure, affari, logica mondana) per diventare pescatori di uomini e di umanità. Siamo chiamati a tirar fuori da noi stessi e dagli altri tutta l'umanità che Dio ha seminato nei nostri cuori.
I cristiani non sono a parte, hanno lasciato uscire dal loro cuore l'aspetto più autentico dell'uomo. E ogni uomo è chiamato a fare questa esperienza di comunione e di autentica umanità.
Capiamo allora l'energica protesta di Paolo (e poi ci lamentiamo del brutto carattere di certi cristiani!), che ammonisce le sue comunità a non smembrarsi in maniacali seguaci di questo o quello cammino di spiritualità... Ogni esperienza (movimento, parrocchia, cammino di perfezione) è solo uno strumento e non “esaurisce” il Regno, il Regno è oltre, cominciamo a farne parte convinta come comunità, che va già bene...
Lasciamo le reti che ci trattengono, i pregiudizi e le paure che ci tengono legati, le incomprensioni e le fisime personali che ci impediscono di essere e raccontare il Regno: e coraggio, perché sono ben altre e migliori le cose ci aspettano da fare!

mercoledì 16 gennaio 2008

20 Gennaio 2008 - II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO.


Dio ci viene incontro
Gesù è nato in noi, piccolo neonato da far crescere ed accudire; come Maria e Giuseppe lo abbiamo accolto; come i pastori, emarginati del tempo, abbiamo udito la notizia che egli è nato per noi; come i Magi, atei cercatori di verità, ci siamo messi in cammino.
Ora, finita la breve e intensa parentesi di Natale, vogliamo far crescere quel Battesimo che abbiamo ricevuto e che ci ha permesso di essere abitati dal Mistero di Dio.
Prima di riprendere la riflessione del pubblicano Levi, ci concediamo una parentesi teologica tratta da Giovanni. È l'occasione per meditare sulla splendida figura del Battista, che ora si mette da parte, non prima di avere dato un'ultima bruciante testimonianza su Gesù il Messia, che egli ha atteso e riconosciuto.

Giovanni Battista vede Gesù "venire verso di lui" (1,29): è Dio che prende l'iniziativa, è lui che viene incontro, è lui che muove i primi passi, sempre.
Eppure il Battista stenta a riconoscerlo. Sono parenti, lui e Gesù, e quindi Giovanni lo conosce, ma lo vede con occhi diversi, con i suoi occhi consueti, abituali; il segno del Battesimo lo spinge invece a capire, lo obbliga a riconoscere il Figlio bene-amato, nel quale il Padre si compiace; anzi: questo riconoscimento permane, come abbiamo visto nella terza di Avvento, quando il Battista in carcere è invitato a non scoraggiarsi, a non aspettare un altro Messia.
Il problema del Battista è il nostro: guardare senza vedere, sapere già, essere abituati. Giovanni deve aguzzare lo sguardo interiore per riconoscere nella banalità del quotidiano la presenza del Messia.
É questa la radice del problema, di ogni problema: la dimenticanza, l'abitudine, la compagnia di Cristo che diventa sbadiglio e vaga rassicurazione.
Non pensiamo allo scorso anno, a due anni fa, non pensiamo ad un momento passato: oggi Cristo ci viene incontro, con discrezione (come al solito), con semplicità e verità.
Abitudinari della fede, discepoli della prima ora, stiamo desti, per favore, siamo attenti.
Dio ci scampi dal rischio del professionismo nella fede.
Questo Dio che passa va riconosciuto ed accolto, ciò che ci viene chiesto è, semplicemente, di accoglierlo.

Chi è Gesù? Tre titoli gli vengono attribuiti; tre sintesi di un cammino semplice e strepitoso fatto da chi scrive, Giovanni l'evangelista, discepolo prima del Battista e poi del Nazareno, e dalla sua comunità.
- Gesù è l'agnello di Dio che porta il peso del peccato (1,29),
- colui su cui rimane lo Spirito e battezza in Spirito (1,33),
- il Figlio stesso di Dio (1,34).
Sono titoli teologici che possiamo scoprire nella nostra ricerca di Dio.
Gesù è l'agnello che porta il peccato, come quello usato nello Yom Kippur, giorno di purificazione del popolo che scarica le sue colpe sul capro immolato in sacrificio per tutti: immagine prefigurata in Isaia del mite agnello condotto al macello.
Rispetto alla tragedia dell'umanità, all'inquietante dilemma del male e della violenza, Dio si schiera, si esprime, si coinvolge: egli è colui che si lascia uccidere, che assume su di sé sofferenza e tenebra, che la redime, portandola.
Giovanni resterà turbato dal vedere il Messia mischiato tra la folla di penitenti.
Dio condivide e assume su di sé tutta l'oscurità e la fragilità del mondo, si sporca le mani, non guarda dall'alto, redime dal basso.
Il dolore del mondo è assunto, salvato, redento.
Non è vero che vogliamo capire la ragione del dolore, ciò che vogliamo è non soffrire oppure, ed è ciò che Dio fa accadere, redimere questo dolore, dargli un peso, dargli un'utilità.

Fratelli che soffrite, fratelli travolti dalle tenebre, le vostre tenebre sono portate, accolte, salvate.
Egli è colui che dona lo Spirito in abbondanza; lo Spirito: dono del Risorto, di Colui che permette al discepolo di accorgersi di Dio, che lo mette in sintonia.
Fede che non è sforzo ma scoperta, non conquista ma abbandono, lasciando che lo Spirito che dà vita ad ogni cosa ci apra – finalmente! – lo sguardo dentro.
L'incontro con Dio non migliora né peggiora la nostra vita, non ci mette al riparo da fatica e contraddizione: gli eventi tristi e allegri si alternano come nella vita di chiunque.
Ma la presenza dello Spirito mi permette di vedere in maniera diversa, di cogliere il disegno, di percepire la tessitura nascosta della mia vita.
Il Signore dona lo Spirito senza lesinare, permette, ai discepoli che restano attenti e aperti alla Parola, di leggere la propria e l'altrui storia con uno sguardo nuovo.
Gesù è il "figlio di Dio"; non un grande uomo, non un profeta, non un uomo di tenerezza e compassione, ma la presenza stessa di Dio.
Non c'è mediazione su questo, non sofismi e ragionamenti: la comunità primitiva crede che Gesù di Nazareth, potente in parole ed opere, non sia solo ispirato da Dio, ma parli con le parole stesse di Dio poiché in lui abita la presenza stessa del Verbo di Dio.
Allora dobbiamo convincerci, fratelli: Dio è accessibile, Dio è visibile, chiaro, manifesto, incontrabile, evidente; si racconta, si spiega, si dice, si rivela.

Questo è ciò in cui crede la comunità di Giovanni, questo è ciò in cui dobbiamo credere anche noi.
Così, come Isaia sogna la comunità di Israele non più chiusa in se stessa intenta a proteggersi, ma aperta all'annuncio del vero volto di Dio alle nazioni straniere; così come Paolo augura ai cristiani di Corinto, città delirante e violenta, di essere santi perché santificati da Cristo, anche noi siamo chiamati a dare testimonianza al Figlio di Dio.
Quindi, non più stanche comunità che stentano ad assolvere i compiti istituzionali, ma gruppi di cristiani riempiti dalla luce, testimoni credibili, come il Battista e il suo discepolo Giovanni.
Ce la faremo ad accoglierlo dunque? O continueremo ad accarezzare e celebrare un Dio più approssimativo, più simile alle nostre segrete e distorte immagini di lui?
“Chi mi ama, mi segua…”.
Animo, fratelli: perché un compito serio ci aspetta.

giovedì 10 gennaio 2008

13 Gennaio 2008 - BATTESIMO DI NOSTRO SIGNORE


Bene-amati
“Prediletto”, traduce la nostra Bibbia, ma preferisco il più letterale “bene-amato” che soggiace al termine greco originale (agapetòs).
Gesù è anzitutto “bene-amato” e in lui Dio si “compiace”.
Il Padre è contento, orgoglioso del proprio figlio.
In Cristo – dice san Paolo – anche noi siamo figli, anche noi divenuti co-eredi, anche noi, anch'io sono bene-amato e in me il Padre si compiace.
Iniziamo l'anno civile e finiamo il tempo natalizio con questa sconcertante verità: Dio ci ama, e ci ama bene.
Non è forse l'ultimo tassello della meraviglia che ha accompagnato le tre settimane di Natale? Pensavamo ad un Dio sulle nuvole, ed eccolo a Betlemme; ci aspettavamo un Dio astratto e concettuale, ed eccolo uomo; speravamo in un Dio a cui chiedere, ed ecco un bambino che chiede; ci aspettavamo un Dio accolto trionfalmente dall'autorità costituita e dai sapienti, e invece chi lo riconosce sono gli abitanti della periferia della vita; ci aspettavamo un Dio evidente e palese, ed invece viene un bambino timido che chiede l'ansia della ricerca per trovarlo, come i magi sanno fare.
Infine – oggi – la conversione più grande: ci aspettavamo un Dio preside, severo ma benevolo a cui dover dimostrare di essere buoni, ed invece troviamo un Dio a-priori, che per primo, pregiudizialmente, ci ama.

Tutti noi veniamo educati a meritarci di essere amati, a compiere delle cose che ci rendono meritevoli dell'affetto altrui; sin da piccoli siamo educati ad essere buoni alunni, buoni figli, buoni fidanzati, buoni sposi, buoni genitori, bravi preti, brave suore, monaci e monache... il mondo premia le persone che riescono, capaci e – dentro di noi – si radica l'idea che Dio ci ama, certo, ma a certe condizioni.
Tutta la nostra vita è l'elemosina di un apprezzamento, di un riconoscimento. Anzi, se una persona ci contraddice, ci accusa, reagiamo ma in fondo pensiamo che abbia ragione, diciamo dentro di noi: “devi arrenderti all'evidenza, tu non vali”.

La reazione spontanea – lontani da Dio – è allora di difesa e aggressività o di eccessiva superficialità, ci omologhiamo, diamo il massimo, passiamo la mia vita ad inseguire l'idea di noi che gli altri ci restituiscono.
Invece Dio ci dice che noi, io, siamo amato bene, dall'inizio, prima di agire: Dio non ci ama perché buoni ma – amandoci – ci rende buoni.

Dio si compiace di noi perché vede il capolavoro che siamo, l'opera d'arte che possiamo diventare, la dignità di cui egli ci ha rivestiti. Allora, ma solo allora, potremo guardare al percorso da fare per diventare opera d'arte, alle fatiche che ci frenano, alle fragilità che dobbiamo superare.
Il cristianesimo è tutto qui, Dio ci ama per ciò che siamo, Dio ci svela in profondità ciò che siamo: bene-amati. È difficile amare “bene”, l'amore è grandioso e ambiguo, può costruire e distruggere, non si tratta di adorare qualcuno, ma di amarlo “bene”, renderlo autonomo, adulto, vero, consapevole.

Così Dio fa con noi.
Il Battesimo, segno del bene-amore di Dio. In quel preciso momento è stato messo nel nostro cuore il seme della presenza di Dio. Non un rito scaramantico, ma un seme da coltivare, da accudire che, se trascurato, fragile, scompare.
Dentro: è lì che trovo Dio: e tutto ciò che nella vita mi porta dentro (arte, musica, silenzio, natura) tutto mi avvicina a Dio, mentre tutto ciò che è fuori (caos, apparenza, superficialità) me ne allontana.
Col Battesimo sono entrato a far parte della Chiesa, quella del sogno di Dio, non lo sgorbio che ho in testa io: la Chiesa dei santi e dei martiri, la Chiesa che cammina, canta e spera, non quella grottesca dei miei giudizi superficiali.
Col Battesimo sono salvo, redento, mi è tolto il peccato originale, la fragilità nell'amore: come Cristo sono reso capace di dare la vita per i fratelli.
Passiamo la vita a riuscire, a diventare.
Ognuno ha un suo sogno segreto: diventare famoso, un uomo in carriera, una madre dinamica ed esemplare, un punto cardine per l’umanità… ma per quanto facciamo non riusciremo mai a diventare più di figli di Dio bene-amati; non potremo mai esserlo, perché già lo siamo.
Questa festa, oggi, è la festa di ciò che è nascosto in noi e che va riscoperto: cristiano, diventa ciò che sei!

Il battesimo nel Giordano, espressione di umiltà..
Gesù, con il suo atteggiamento, ci indica chiaramente quanto sia grande la virtù dell’umiltà.
Un atteggiamento mentale che ci porta a rinunciare definitivamente ai nostri progetti di grandezza, alle prerogative di superiorità e di dominio sugli altri, che più o meno inconsciamente coltiviamo nel nostro intimo; una prerogativa, l’umiltà, che molto spesso comporta l’accettazione da parte nostra di situazioni estreme, fastidiose, sgradevoli, in vista di ideali di amore per il prossimo.
Anzi, l'umiltà richiede che non ci si consideri meritevoli di nulla e che ci si privi di qualsiasi vanto, mettendo da parte qualsiasi auto-esaltazione e vanagloria; comporta che si accetti con rassegnata pazienza che gli altri siano superiori a noi e che non si venga presi in considerazione per i nostri meriti, per i nostri incarichi, per le nostre mansioni, in qualsiasi campo o dimensione essi si verifichino.
L'umiltà si affina nell'umiliazione di quando si accettano le altrui ingiustizie e le altrui cattiverie con mitezza, senza ricorrere a comprensibili repliche o rivendicare diritti sacrosanti.
Tutto questo è certamente molto difficile, e – salvo i santi – tutti noi siamo in profonda difficoltà non solo per realizzarlo in prima persona, ma anche solo di pensarlo.
Eppure è proprio in questa prospettiva di umiltà e di umiliazione che possiamo incontrare la vera serenità di spirito e la pace interiore...

In questa prospettiva il cielo della nostra vita ci appare decisamente chiuso: una prospettiva decisamente limitata, oscura, invivibile; ma così doveva apparire anche a Gesù, quando si mise umilmente in fila con gli altri peccatori sulla riva del Giordano.
Ma Gesù non disse: “non è giusto!”. Come al contrario diciamo noi regolarmente quando ci imbattiamo in qualche contrarietà.
Glielo disse invece Giovanni, che non voleva battezzarlo perché non era giusto che il Messia fosse messo allo stesso piano degli altri peccatori.
Ma a Giovanni Gesù non diede ascolto: “Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia”.
E cioè: Gesù si mette in cammino come tutti gli uomini; ma a differenza di tutti gli altri uomini, Gesù non pretende di capire subito tutto; non pretende di liquidare subito ogni ingiustizia; non pretende di cancellare subito ogni peccato.
Non capisce per esempio perché Lui, Dio, debba farsi battezzare da Giovanni; e tuttavia si mette in cammino, fidandosi solo della volontà del Padre, sicuro che essa condurrà tutto a compimento.
“Lascia fare per ora...”: e cioè, non preoccuparti di giudicare subito quello che è giusto e quello che non è giusto; non preoccuparti di dividere in fretta la tua vita da tutto quello che accade in questo mondo ingiusto; non preoccuparti, ma mettiti subito in cammino, anche tu con umiltà, obbediente alla volontà del Padre. Perché soltanto questa umiltà e questa obbedienza ti permetteranno di squarciare il cielo, e di respirare finalmente in pienezza.
Seguiamo dunque Gesù, in tutto, anche attraverso la croce, perché Egli è “colui che attraversa i cieli”, come dice La Lettera agli Ebrei (4,14). Si, fratelli: Egli è veramente Colui che attraversa i cieli, Colui che ci apre finalmente i cieli radiosi: e li apre per lui, per noi, per tutti.

domenica 30 dicembre 2007

1 Gennaio 2008 - MARIA SS. MADRE DI DIO


“Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.”

Far brillare il volto, splendido semitismo che indica il sorriso di una persona. Quando sorridiamo il nostro volto si illumina.
Dio sorride, ovvio. Chi ama, anche nelle avversità, sorride.
Il volto di Dio sorridente ci viene svelato dal neonato Gesù.
Dio sorride, non è imbronciato, né impenetrabile, né scostante, né innervosito.
Dio sorride, sempre. Il problema, semmai, siamo noi. Nei momenti di fatica e di dolore non guardiamo verso Dio, siamo travolti dall'emozione, non riconosciamo in Dio nessun sorriso.
Non aspettiamoci che Dio ci risolva i problemi, né che ci appiani la vita o ce la semplifichi.
La vita è mistero e come tale va accolta e rispettata.
Ma se Dio ci sorride, sempre, significa che esiste un trucco che non vediamo, una ragione che ignoriamo, e allora ci fidiamo.
Qualunque cosa succeda nella vostra vita, quest'anno, che Dio vi sorrida, fratello, sorella.

Per accorgerci del sorriso di Dio occorre imitare l'adolescente Maria.
Maria, che festeggiamo con il titolo di "Madre di Dio", è turbata dai troppi eventi che hanno caratterizzato l'ultima settimana: il parto da sola, l'essere lontana dalla sua casa, la sistemazione più che provvisoria, la visita dei loschi pastori. Cosa fa? Serba tutte queste cose meditandole nel suo cuore.
Meglio, Luca scrive che "prendeva i vari pezzi e cercava di ricomporli".
Manca un centro nella nostra vita, siamo travolti dalla vita vissuta. Come il bucato ammucchiato nella bacinella, ci serve un filo a cui appendere tutte le cose ad asciugare. Questo centro unificatore che è la fede ci è prezioso. Perché non assumerci l'impegno in questo 2008 che inizia, di ripartire da Dio, di mettere l'ascolto della Parola e la meditazione al centro della nostra giornata?
Solo così ci accorgeremo che Dio ci sorride.

Il primo gennaio, infine, da molti anni è dedicato alla preghiera per la pace.
Noi amanti della pace siamo amareggiati per tutto ciò che accade intorno a noi, nel mondo: violenza, guerre, arroganza, un'economia che alimenta ingiustizia; l'uomo sembra non imparare dalla propria storia, dai propri errori, forse non cambierà mai.
La lezione che ci viene dalla fede è semplice: solo un cuore in pace con se stesso, può diventare portatore di pace.
Questo pacifismo cristiano non è una moda da cavalcare, un atteggiamento istintivo, ma la scelta consapevole di chi ha incontrato la pace profonda che solo l'amore di Dio può dare.
Sono portatore di pace perché Dio ha convertito la mia violenza e la mia rabbia e se, talora, l'uomo vecchio emerge nelle mie azioni e in me, so che Dio solo è all'origine dell'accoglienza e della tolleranza.
Per accorgermi di questo devo continuamente convertire il mio cuore: troppa gente usa Dio per giustificare le proprie scelte di violenza.

"Signore, fa di me uno strumento della tua pace;
dov'è odio che io porti l'amore,
dove è offesa che io porti perdono,
dove è discordia, che io porti l'unione,
dove è l'errore, che io porti la verità,
è il dubbio che io porti la fede,
dove è disperazione che io porti la speranza,
dove è tristezza che io porti la gioia,
dove sono le tenebre, che io porti la luce.
Signore, che io cerchi non tanto di essere consolato, quanto di consolare;
di essere compreso, quanto di comprendere; di essere amato, quanto di amare.
Poiché è donando che si riceve; è perdonando che si è perdonati,
è morendo che si risuscita a vita eterna".

E allora ecco l’augurio che dobbiamo farci vicendevolmente: “Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio.”
E questo è anche il mio personale augurio, cordiale e sincero, a voi tutti fratelli carissimi: qualunque cosa accada, in questo nuovo anno, che possiate cogliere il volto sorridente di Dio.

domenica 23 dicembre 2007

25 Dicembre 2007 - NATALE DI NOSTRO SIGNORE


Vi annuncio una grande gioia: è nato il Salvatore!

È stanco Giuseppe, di bussare alle porte.
La gente socchiude la porta ma, appena vede, dietro di lui, quella ragazzina col pancione che scoppia, in sella a un ciuchino più stanco del suo padrone, scuote la testa dicendo che no, spiace, ma proprio non hanno posto, lo farebbero volentieri ma sono giorni pieni di gente che viene per il censimento.
Gli occhi di Giuseppe si spengono, ancora una volta, e si gira verso la sua sposa cercando di rassicurala con un sorriso impacciato, lui che è spaventato a morte.
«Presto, amore mio, sta nascendo»
Non ha tempo, Giuseppe, di imprecare, o di avere paura o di prendersela con quell'idiota di Imperatore che vuole contare i suoi sudditi, come se fosse Dio.
Una signora, finalmente, si intenerisce:
«Se volete ho il retro della casa, una piccola grotta fresca e pulita»
Va bene, va bene tutto, purché si faccia in fretta.
Nasce il primogenito di Giuseppe il falegname. Non è figlio suo ed è tutto avvolto dal mistero più fitto e luminoso. Ma va bene così, l'importante è avere trovato un luogo dove farlo nascere.
Giuseppe va a cercare un po' di cibo per sé e la sua sposa, del latte di pecora per il bambino.
Niente di straordinario: è nato un cucciolo d'uomo, tenero e fragile come ogni neonato.
Ma questa volta si tratta di Dio.

Eccolo. Lo avevano detto, i Profeti: Dio era stanco. La voce roca del Battezzatore aveva gridato a tutti di prepararsi: Dio, questa volta, non avrebbe mandato più nessuno. Lui sarebbe venuto.
Troppe incomprensioni con l'umanità, anche con l'amata sposa, Israele.
Dio non dona più la sua Parola ai profeti, viene a parlare di persona.
Dio nasce, cosa è più folle, inatteso, sconcertante, incredibile, drammatico, magnifico?
Dio nasce, diventa uomo. Dio si spoglia della sua divinità perché tutti noi possiamo essere avvolti dalla sua divinità. Dio viene a raccontarsi perché nessuno più vacilli: ecco il suo vero volto.
Allora essere uomini non dev'essere così male se Dio accetta di diventare uomo!
Allora esiste un modo di essere uomini che ci rende vicini a Dio e l'umanità, vissuta con intensità, può riservarci grandi sorprese.
Ti chiedo un favore, Gesù, un dono, in questo Natale: aiuta noi cristiani ad essere più uomini.

Sono seduto in una chiesa e guardo il presepe ormai pronto. Manca solo la statuina del bambinello.
Sorrido: ecco Dio; il Dio che qualcuno brandisce come un'arma, il creatore dell'Universo, l'inconoscibile, il Tutto: eccolo. Fa le smorfie, gli occhi socchiusi, cercando il seno della madre. Sorrido: non so che farmene di un Dio così.
Io voglio un Dio che mi risolva i problemi, non uno che me ne crei! Voglio un Dio potente, non il più fragile delle creature! Mi spaventa e mi inquieta il vero volto di Dio, non so se ho fatto un buon affare a credere nel Dio dei cristiani.
È solo, Dio. Pochi lo accolgono, gente ambigua, mezzi furfanti.
Che ridere... ora la madre adolescente tenta di addormentarlo.
Tace, Dio. Non dona spiegazioni. Tace.
Ti chiedo un altro favore, Gesù: aiuta noi cristiani a non pensarti sulle nuvole, dopo tutta la fatica che hai fatto per venire in mezzo a noi.

È segno di contraddizione un Dio così. Innocuo, inerme, suscita violente reazioni in chi non lo accoglie. Accetta, corre il rischio: l'amore lascia liberi, ovvio. Dio corre il rischio di non essere riconosciuto.
Molti stanno vivendo un Natale da dimenticare: dolore, malattie, solitudine, fame, miseria.
Guardo il neonato che ora dorme, ignaro. E se fosse tutto così semplice?
Se, davvero, la vita fosse spogliazione e dono?
Un mistero da vivere più che da indagare e risolvere?
Ti chiedo un favore, Gesù, un ultimo dono, in questo Natale: fai un sorriso a chi non ne può più.
È Natale, che bello, Dio non si è ancora stancato di noi.

No, Dio non si è stancato di noi. Ma non volendo più essere accantonato, essere frainteso, usato, non volendo essere più tirato in ballo per coprire le vergognose nudità della nostra pigrizia, esausto dall'essere tirato per la giacchetta a benedire ogni guerra, depresso per essere accusato di colpe che non ha, decide di diventare uomo, di condividere in tutto la nostra umanità, di raccontarsi.
Un gesto d'amore semplice, folle, inconcepibile: Dio diventa uomo, abbandona la sua divinità. Scorda la sua onnipotenza, per sperimentare tutto il dolore che l'uomo sperimenta e la fragilità e lo sbandamento.
E perché nessuno possa accusare Dio di essere diventato uomo in modo privilegiato, sceglie di diventare uomo nel più povero dei modi, nel più misero dei tempi, affidato all'imperizia di una coppia di generosi e umili provinciali, esule, costretto a nascere in un luogo sconosciuto a causa del delirio di onnipotenza di un Imperatore oppressore.
Il Verbo di Dio, il sorriso della Trinità, abita il corpo del figlio di Maria.
Jeoshua bar Joseph verrà chiamato, Gesù, figlio di Giuseppe, falegname a Nazareth di Galilea.
Nella notte fredda del deserto, a Betlemme, luogo che ha visto nascere Davide figlio di Jesse, re potente in Giudea, in una grotta che serviva a dare riparo ai pastori, disprezzati lavoranti del tempo, sottopagati e clandestini, il Figlio di Dio irrompe nella storia, l'assoluto che neppure l'universo contiene è abbracciato teneramente da una madre tredicenne.
Ecco: la storia si ferma, il tempo è compiuto, gravido, il cielo ha donato il giusto delle genti.
Ora tocca a noi. È tempo della nostra conversione del cuore.

Questo è Dio, fratelli, il Dio di Gesù, il Dio dei cristiani, il Dio vero.
Non quello piccino e meschino delle predicazioni, non quello incostante e terribile delle nostre paure. Dio è un neonato con gli occhi socchiusi e la pelle grinzosa che Maria stringe forte a sé, per ripararlo dal rigore della notte, un neonato che cerca il piccolo seno della madre per allattare, un neonato tenero e fragile.
Siamo spiazzati, vero?
Vorremmo un Dio potente, che ascolta la nostra preghiera, che esaudisce le nostre richieste, e ci troviamo un Dio che ci chiede aiuto. Vorremmo un Dio decisionista, disposto a cambiare i destini della storia, punendo i malvagi, e invece proprio i malvagi vogliono ucciderlo. Ci immaginiamo un Dio che abita nel Tempio e che viene accolto dagli uomini del sacro che, invece, non escono da Gerusalemme per andare a verificare la sconcertante notizia portata da alcuni ricchi stranieri d'oriente. Dio è diverso, fratelli, tutto qui.

Se Dio è così significa che ama l'umanità al punto da diventare uomo.
Essere uomini è bello, essere uomini è talmente bello che Dio vuole essere uno di noi.
Bello il colore della terra in primavera, il volo degli uccelli, la luce accecante dell'estate, l'odore della neve, il cibo caldo preparato con amore, l'odore del legno appena piallato, il sorriso sincero dell'amico, l'abbraccio tenero e affettuoso del padre che torna stanco dal lavoro. Questa umanità che odora di fritto e di sudore, di fumo e di paura, povera e inquieta, incerta del futuro, è il luogo che Dio abita e trasfigura.
Se Dio è così significa che Dio è accessibile e ragionevole, tenero e misericordioso.
Che l'idea di un Dio potente da tenere a bada, che si fa gli affari suoi, sommo egoista bastante a se stesso, è fasulla e pagana, che Dio ama, prima di essere amato, che non ti risolve i problemi ma li condivide, che ti invita a vedere le cose in modo diverso.
Se Dio è così significa che ha bisogno di noi, come ha avuto bisogno di una madre e di un padre.
E che io posso riconoscere Dio e servirlo in ogni sconfitto, in ogni povero, in ogni abbandonato.
Che la fragilità degli uomini è il luogo che Dio vuole abitare, che, se vivo questo Natale con la morte nel cuore, allora è esattamente la mia festa, perché Dio abita anche la stalla della mia vita. Nella notte profonda.
Se Dio è così.

«Su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1). Ecco dunque, il nostro mondo è avvolto dalle tenebre e noi siamo stanchi di vivere così!
Noi abbiamo bisogno di voltare pagina e di iniziare una storia nuova, una stagione nuova della vita, in cui solo Cristo, la Luce del mondo, può essere la nostra bussola! Siamo stanchi di sottoporci alle strutture di peccato e di morte che annientano quella dignità umana che oggi Cristo Gesù ha assunto.
Il Bambino di Betlemme ci spalanca le sue braccia, attende la nostra sincera adorazione! Egli è la luce che brilla in mezzo a noi, in mezzo al nostro mondo senza pace! Per questo, ciascuno di noi può sentirsi irradiato dallo splendore della Luce di Dio.

«Un bambino è nato per noi» (Is 9,5).
Ai nostri giorni, con tutta la buona volontà, credo sia difficile cogliere il Natale: quanti problemi accompagnano le nostre famiglie e l'intera società: malattie, guerre, terrorismo, i poveri che diventano sempre più poveri e i ricchi che diventano sempre più ricchi... Non possiamo pensare di celebrare il Natale con le luci, i pranzi, le cene, i regali...
La pagina di Isaia che abbiamo ascoltato è un grande annuncio di gioia per il mondo: se Dio rinnova per noi il suo Natale è segno che Egli non si è ancora stancato di amarci, di darci fiducia, di offrirci il suo perdono e la sua pace, di farci dono della salvezza! Ai nostri giorni Dio non si è stancato di bussare alla porta del nostro cuore e di attendere la nostra accoglienza sincera e definitiva.
Egli vuole ancora incarnarsi nei nostri cuori e nella nostra società, dove i valori sembrano cancellati dalla memoria, dove l'uomo uccide ancora e brama vendetta, dove aumentano gli abusi sulle donne e sui minori, dove la droga continua a diffondere i paradisi artificiali della morte...

«E' apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tt 2,11).
Il mistero dell'Amore di Dio è in quel Bambino che vediamo nel presepe!
L'atmosfera del Natale è sempre bella, perché è capace di diffondere davvero tanta bontà, tanta felicità, tanti sorrisi... doni semplici che nulla hanno a che vedere con il consumismo di questi giorni! Ma Natale può essere anche ogni giorno, se il nostro cuore pulsa d'amore per il fratello che ci sta accanto, con cui condividiamo la strada, la scuola, il lavoro, l'impegno in Parrocchia... La nostra salvezza è l'Amore, l'Amore di Dio che accogliamo e che siamo capaci di condividere con i fratelli, soprattutto con quelli afflitti da antiche e nuove povertà.

«... lo depose in una mangiatoia, perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,7).
In quest'ora in cui i nostri cuori sono a Betlemme per contemplare la nascita del Salvatore, non possiamo non guardare a Maria e Giuseppe nella difficoltà: non c'è un luogo stabile per accogliere il Figlio di Dio, oggi come allora!
Dio nasce ancora oggi in luoghi peggiori della mangiatoia e spesso viene anche ucciso, perché scomodo! Pensiamo alle tante vite, che oggi non hanno più dignità, che vengono uccise perché considerate un "errore" di giovinezza o un "prodotto" non desiderato di laboratorio...
Ancora oggi non vogliamo fare posto a Dio che si fa' uomo per noi, perché – lo sappiamo bene – Lui ci è troppo scomodo, è troppo esigente, dovremmo fare troppe rinunzie...
Fratelli carissimi, non c'è posto per il Figlio di Dio in questo mondo se non c'è posto per la vita, se non c'è posto per l'Amore!

«Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11).
E' l'annuncio dell'angelo ai pastori che vegliavano il gregge nella gelida notte. Ma è anche l'annuncio che giunge a noi e che noi dobbiamo portare al mondo, se vogliamo davvero dare un senso alla nostra presenza qui, adesso!
Per tanti, probabilmente, non sarà Natale, perché hanno perso un loro congiunto in tenera età, o perché il dolore ha bussato alla loro porta con un male incurabile, o perché non sanno con chi condividere la gioia di questo giorno... Certo, è difficile poter pensare alla gioia ed alla festa di questo giorno che è spuntato.
Ma, come cristiani autentici, dobbiamo compiere il gesto di contagiare il mondo di gioia e, specialmente, tutte quelle persone che ora sono in difficoltà per i motivi sopra accennati e per altri ancora!
E' Natale se sappiamo dire a tutti che Dio è con noi, è dalla nostra parte sempre, è sempre pronto a nascere ed immolarsi per noi!

«Cantate al Signore un canto nuovo» (Sal 97).
Vogliamo uscire dalla chiesa davvero rinnovati, raggianti della luce di Betlemme, non più camminatori stanchi "in questa valle di lacrime", ma viandanti pieni di speranza verso il Cielo, quel Cielo che oggi tocca la terra e la inonda d'Amore senza fine.
Vogliamo dare lode a Dio con Maria, la Madre di Dio e la Mamma nostra celeste.
Diciamo "Grazie!" a Lei, per averci donato Gesù! E vogliamo pregarla di tenerci tutti tra le sue braccia come tenne il Figlio di Dio fatto uomo: il suo Amore materno possa raggiungere il nostro cuore e consolarci di quella speranza che è novità di vita.