giovedì 7 febbraio 2008

10 Febbraio 2008 - I DOMENICA DI QUARESIMA



Essenzialità
Lasciate le barche per seguire Gesù nel territorio di Zabulon e Neftali, ai confini della storia, accolta la sconcertante notizia di un Dio che è povero e misericordioso, siamo chiamati a diventare sale che dona sapore all'insipido mondo, luce che indica la strada ai cercatori di beatitudine.
Ma, lo sappiamo, la strada è in salita e il vento pungente della disperazione rischia di spegnere la flebile fiamma della fede.
Abbiamo bisogno di convertirci alla gioia, abbiamo bisogno di tenere stretto in mano lo spago che si dipana nel delirio quotidiano per condurci alla pace interiore.
Inizia la Quaresima, fratelli, inizia il deserto.
Quaranta giorni alla sequela di Gesù che inizia la sua vita pubblica nell'assordante silenzio del deserto, là dove l'essenziale emerge. A imitazione del popolo di Israele che vaga quarant'anni nel deserto del Sinai prima di entrare nella terra promessa, Gesù prende estremamente sul serio la sua missione, e cerca nel silenzio e nel digiuno il percorso da seguire. Gesù, vero uomo e vero Dio, ha di fronte a sé delle scelte da compiere: come eserciterà il suo ministero? Userà prodigi e miracoli? Scuoterà il cielo e farà piovere il fuoco dal cielo? Cavalcherà la connaturale idea di Dio che portiamo nel cuore per stupirci e intimorirci?
Il colloquio fatto con l'avversario è pieno di umano buon senso: bisogna sostenersi fisicamente per affrontare il faticoso compito dell'annuncio, bisogna usare qualche prodigio per attirare l'attenzione, occorre tenersi buoni i potenti della terra per avere appoggio nella missione.
Proposte sensate che Gesù rifiuta, usando la Parola (che conosce bene) per discernere cosa deve fare.
Gesù sceglie quale Messia essere: un Messia dimesso e misericordioso, non ricorrerà ai prodigi, né alla forza; Dio vuole essere amato per ciò che è, non per ciò che dà.
Gesù sceglie ispirandosi alla Parola, riesce a dribblare le trappole dell'avversario tenendo nel cuore la Scrittura, decide alla luce di Dio Padre come compiere la sua missione.
E noi fratelli, sorelle, abbiamo deciso quale uomo, quale donna diventare?
Il nostro carattere, la nostra educazione, le esperienze della vita hanno profondamente influenzato il nostro percorso, determinato ciò che siamo; ma c'è nel nostro cuore un immenso spazio di libertà che possiamo gestire, orientare, portare a maturazione: è ciò che ci rende simili a Dio.
Ci sono dati quaranta giorni di deserto nella città, quaranta giorni per tornare all'essenziale, per chiederci, una volta all'anno, se ciò che siamo è ciò che abbiamo scelto e, se non abbiamo potuto scegliere, se la vita che viviamo la viviamo nella tenerezza di Dio.
Quaresima è il tempo della concentrazione e della verifica, per essere capaci di accogliere la straordinaria gioia della resurrezione di Gesù. La gioia è l'obiettivo ultimo della Quaresima, tempo in cui aprire il cuore alla conversione.
Per molti di noi occorrerà mortificarsi: togliere dai piedi ciò che c'impedisce di essere liberi, ciò che ci distrae e ci fa vivere nella dimenticanza.
Per molti di più occorrerà vivificarsi, lasciare la tristezza, abbandonarla, non amarla, per convertirsi, infine, alla gioia.
La quaresima, in ogni caso, diventa il tempo in cui rimettiamo un centro nella nostra vita.
Quaresima, palestra che ci diamo una volta all'anno, esercizio per ritrovare l'unità, tempo di deserto, sull’esempio di Gesù che seguiamo e che - come noi - ha voluto fare l'esperienza di deserto per scegliere come vivere, per far ordine intorno alle sue scelte.
Mercoledì abbiamo iniziato il cammino con un gesto simpaticamente tragico: l'imposizione delle ceneri con il monito: “Ricordati che sei polvere…”
Ce lo ricordassimo quando ci scanniamo per questioni di eredità o scaliamo la scala sociale! Se lo ricordassero i super-iper-tutto dell'umanità che qualche anno dopo la loro serena dipartita saranno polvere! Ce lo ricordassimo quando – senza patemi o tristezze – indaghiamo sul senso della storia e della vita!
Il delirio di onnipotenza che - talora - prende la nostra umanità verrebbe guarito da questa semplice considerazione: siamo polvere.
Ma polvere che Dio illumina e trasfigura, accende e rende capolavoro e meraviglia...
Quali le strade della desertificazione? Ne indichiamo tre soltanto: il digiuno, sia simbolico, ad esempio spegnere la tivù, dedicare più tempo a sé e alla famiglia, allentare le tensioni, che reale, alleggerendo la cucina per solidarietà con i poveri e per liberare cuore e corpo dalle tossine; la preghiera, intesa soprattutto come esercizio quotidiano (un quarto d'ora, come minimo) di silenzio, di meditazione, di lettura della Parola col desiderio autentico di comunicare con Dio; l'elemosina, come rinuncia ai beni superflui per sostenere chi vive nella miseria. Tre itinerari che, se percorsi con cuore sincero, ci possono condurre alla vicinanza con Dio.

Quaresima, tempo per fare “giustizia”.
Gesù nel grande discorso della montagna, ci indica qual è la “nuova giustizia del Regno”, la nuova sedaqah ossia il vero modo di vivere il nostro rapporto con Dio e con i fratelli.
Il termine ebraico sedaqah non indica tanto l’obbedienza ad una norma, quanto la condizione ottimale che ciascuno deve avere nei suoi rapporti interpersonali e con Dio. Significa rispondere adeguatamente e in giusta misura all’amore di Dio. Il giusto, quindi, che osserva la torah, realizza la sua fedeltà a Dio e al popolo: in altre parole fa giustizia, pareggia i conti, fa sedaqah.
Il Nuovo Testamento ha ripreso questo concetto veterotestamentario di giustizia, conferendogli una nuova valenza: dikaiusìne, una giustizia-comportamento che è grazia di Dio, che è un dono, e che quindi non può essere considerato né un vanto né una conquista umana, perché come dice Paolo, in Rom 3,26 è Dio che è “giusto e giustificante” (dìkaion kai dikaiùnta”); è Lui che con la sua grazia, con il suo amore, con il suo sostegno, rende “giusto” l’uomo, gli consente di “pareggiare” il conto con una adeguata risposta nei confronti di Dio e del prossimo.
Ecco perché la sedaqah-dikaiusìne che deve animare le tre pratiche fondamentali del cammino cristiano - la preghiera, l'elemosina e il digiuno – non può essere considerata un merito personale di cui vantarsi, di cui andare fieri (come ci mette in guardia il vangelo).
Gesù infatti, proprio qui, ricorda lo spirito che ci deve guidare nel nostro percorso di perfezione, quale la molla interiore che deve animare le nostre opere, se vogliamo che la nostra sedaqah-dikaiusìne, il nostro rendere giustizia a Dio, sia l’espressione di un sincero e autentico rapporto di amore con Lui.
Gesù parla a ragion veduta: è fin troppo evidente che anche oggi il comportamento di molti - quando pregano, fanno carità e digiunano - è ben lontano dallo spirito della autentica sedaqah: lo fanno semplicemente “per essere ammirati”, “lodati”, “visti”, “per apparire”.
E Gesù conclude: “hanno già avuto la loro ricompensa, non avranno altro”.
Allora riflettiamo un momento, fratelli: esaminiamoci nell’intimo del cuore, per stabilire se qualche volta anche noi nel fare le nostre pratiche religiose, non cadiamo nella tentazione di cercare la nostra gratificazione. Perché in questo caso, di fronte a Dio le nostre opere di conversione non servono a nulla, sono sterili.
Domandiamoci umilmente e in tutta sincerità “a quale frutto miriamo”, a quale ricompensa aspiriamo, quale gratificazione cerchiamo nel nostro vivere da cristiani.
E dunque, seguendo l’insegnamento che Gesù qui ci ha lasciato, evitiamo che il bene che facciamo, diventi uno strumento di soddisfazione personale, un mezzo di autoaffermazione, una strada per arrivare alla nostra auto-celebrazione.
In questo modo però la nostra ricompensa sta già nel sentirci bravi, buoni, a posto, giusti.
Invece, fratelli, la nostra vita deve mirare soltanto a Dio, perché è Lui la vera ricompensa, perché è per lui, per Lui solo, che noi dobbiamo fare sedaqah, essere operatori di “giustizia”.
E senza pretendere nulla in cambio: non siamo nella condizione di poterlo fare… perché è lui il dìkaion, il giusto, che per primo fa il dikaiùnta, il “giustificante”, nei nostri confronti.
Allora accettiamo riconoscenti quello che Lui vorrà darci, affidiamo semplicemente a lui il frutto del nostro impegno.
Non sappiamo come questo frutto si concretizzerà, ma sappiamo con certezza che esso ci sarà; sarà un frutto di salvezza, di amore, che il Padre continuerà ad effonderci a piene mani e che, se ci pensiamo bene, altro non è che la stessa essenza divina dell’Amore, il suo stesso Spirito vivificante e consolatore, che Egli ha inviato ad inabitare nei nostri cuori.
Solo così ci sentiremo completamente soddisfatti, forti, convinti, umili, sinceri, innamorati di Dio: solo così saremo beati, i “makarioi” delle beatitudini, perché sentiremo dentro di noi la tranquilla, dolcissima sicurezza di aver fatto sedaqah, di aver risposto con dikaiusine all’infinito amore di Dio nei nostri confronti.

Nessun commento: