giovedì 14 febbraio 2008

17 Febbraio 2008 - II DOMENICA DI QUARESIMA


La via del discepolo: croce e gloria

Siamo partiti per un cammino di quaranta giorni di essenzialità. Quaranta giorni alla sequela del Maestro Gesù che, nel deserto, sceglie un messianismo di basso profilo, di relazione, di profezia, rifuggendo la tentazione di una religiosità urlata e chiassosa. Quaranta giorni per convertirci alla gioia Pasquale, per lasciar crescere in noi la tenerezza del volto di Dio, per imparare o re-imparare cosa ci è davvero necessario. Digiuno dal caos e dalla rabbia, preghiera quotidiana basata sulla Parola ed elemosina per aprire il cuore (e il portafoglio) ai fratelli che camminano con noi e che vivono nella povertà, sono le tre strade che siamo invitati a percorrere per tornare all'essenziale.
Lungo come una Quaresima: nella simpatica e luminosa coscienza cristiana del passato, questa frase sintetizza bene l'atteggiamento di insofferenza verso questo tempo liturgico che ci appare come un'imposizione di (inutili) sacrifici e desueti fioretti per mortificare il corpo.
Al contrario, la Quaresima autentica non mortifica, vivifica, sapendo bene che la vita interiore è lotta radicale contro l'aspetto tenebroso della nostra coscienza e che non basta rinunciare ai dolci per convertire il cuore.
Ben più radicale è l'atteggiamento che il Maestro oggi ci chiede, non subire una serie di privazioni che ci siamo imposti, ma scegliere di scegliere, spalancare il cuore all'amore di Dio, salire sul Tabor.
“La bellezza salverà il mondo”, l'affermazione, contenuta in uno dei romanzi dello scrittore russo Fedor Dostojewski, ci introduce benissimo a questa inusuale seconda domenica di Quaresima. Vangelo poco “mortificato” e penitenziale quello che ogni anno la liturgia (saggiamente) ci propone, quasi a soffocare sul nascere la triste consuetudine cattolica di essere tristi, specialmente quando si parla di Dio.
Sbagliato: quando si parte nel deserto il cuore è allegro, perché alla fine saremo liberati dal Faraone e dal suo esercito. Quando si sale sulla montagna, malgrado la fatica, ciò che ci spinge a salire è la gioia che proveremo nello spaziare con lo sguardo oltre le cime.
Così ecco l’esperienza del Tabor: Pietro e gli altri sono esterrefatti da quanto accade: Gesù maestro, profeta affascinante, si rivela per quello che è; ed è un'esperienza travolgente, di bellezza sconfinata. Quanto dobbiamo recuperare questa dimensione della bellezza nella nostra vita cristiana!
Gli apostoli, inaspettatamente, si ritrovano a contemplare Gesù di Nazareth che si rivela loro nella sua forma più autentica di Figlio di Dio. Sembra quasi un'anticipazione della Resurrezione che, forse, nell'intento del Signore, serviva a dare agli ignari apostoli quel po' di coraggio necessario per affrontare il grande scandalo della croce. Alla fine della trasfigurazione gli apostoli non vedono che “Gesù solo”. Certo: il momento in cui raggiungiamo attraverso la preghiera e la contemplazione il volto di Gesù Risorto, vivo qui e adesso, e ci troviamo davvero scossi e scombussolati da una tale manifestazione, non vediamo che Gesù solo. Solo lui: nelle nostre scelte, nei nostri fratelli, nelle nostre giornate.
Più volte lo abbiamo detto e ancora lo ripetiamo: la fede non è semplice adesione intellettuale, è coinvolgimento radicale, esperienza misteriosa di questo Dio che è altro da noi (non sentimento, non impressione, non scelta ma manifestazione).
Di questa esperienza i cristiani parlano, a questa esperienza vogliono condurre nel misterioso intreccio delle libertà (mia e di Dio) ogni fratello che si lascia avvicinare dal Vangelo.
Nessuna apparizione, per carità (Dio ci preservi dalle apparizioni!) ma la semplice possibilità di fare esperienza interiore tangibile ed inequivocabile della bellezza di Dio.
Pietro Giacomo e Giovanni, da ora in avanti, avranno sempre e per sempre impresso quel volto trasfigurato, quel Dio ora chiaramente leggibile nella natura più profonda.
È questa forte esperienza che manca, spesse volte alla nostra tiepida fede.
Perciò molti vivono la fede come scelta necessaria, doverosa, utile anche se immensamente noiosa.
Perché senza il Tabor, il cristianesimo manca della sua dimensione essenziale: la bellezza di Dio.
Dio è bellissimo: forse dovremo recuperare questo aspetto nella nostra vita cristiana; ripartire dalla bellezza. Le nostre periferie sono orrende, orrende le città, orribili le finte vacanze che ci vengono proposte in mezzo a finti paesaggi immacolati. Orribile il linguaggio e le persone che ci raggiungono dal mondo della politica e dello spettacolo. Abbiamo urgente bisogno di bellezza, della bellezza di Dio che è verità e bene e bontà.
Non è forse questa la fragilità della nostra fede contemporanea? Non è forse questa la ragione di tanta tiepidezza della nostra comunità? Non abbiamo forse smarrito la bellezza nel raccontare la fede? Nel celebrare il Risorto? È noioso credere... È giusto – certo – ma immensamente noioso.
Il Vangelo di oggi ci dice, al contrario, che credere può essere splendido. Varrebbe la pena di recuperare il senso dello stupore e della bellezza, l'ascolto dell'interiorità che ci porta in alto, sul monte, a fissare lo sguardo su Cristo. Facciamo delle nostre messe dei luoghi di bellezza: il silenzio, il canto, la fede, il luogo in cui preghiamo, può riportare un briciolo di bellezza nella nostra quotidianità.
Ma questa inaudita e straordinaria esperienza, ci ammonisce Paolo scrivendo a Timoteo, non è merito nostro o nostra conquista: è dono totale e gratuito di Dio che ci “dona ogni cosa” nel suo figlio Gesù.
Fidiamoci, partendo, come Abramo che segue l'invito di un Dio di cui non sa nulla. Partire significa credere in questo Dio di cui mi fido e che mi invita a compiere gesti che a volte non capisco in profondità, rinunciando ai miei progetti per accogliere il suo Progetto.
É il salto della fede, il fidarsi ciecamente di qualcuno su cui ho scommesso tutto. Abramo non capisce, stenta, tentenna, obbietta. Ma si fida.
E questo fidarsi, dura prova nella sua vita, lo fa morire ai suoi progetti per diventare, secondo la promessa, padre di una moltitudine: i credenti, appunto, che, dopo di lui, rifanno questo percorso di fiducia per arrivare fino a Dio. Il Tabor, quindi, come meta della nostra Quaresima. Per non vedere che “Gesù solo”, occorre fidarsi come Abramo, rinunciare al proprio egoismo, salire (faticosamente!) dietro al Maestro per riconoscerlo come Messia. Questa mortificazione-vivificazione ha in gioco la presenza stessa di Dio!

L’obbedienza.
L'obbedienza non è cosa facile da spiegare. Tendiamo a pensare all'obbedienza solo come un atteggiamento implicante il mero controllo della libertà. È un'imposizione che restringe l'espressione della propria volontà. Essa comporta la presenza di un'autorità, di qualcuno che prende decisioni arbitrarie riguardo alla nostra vita. Presuppone timidezza e debolezza di carattere, da parte di coloro che non sono in grado o non vogliono determinare da soli la direzione della propria esistenza. Porta a rinunciare ai propri pensieri, alle proprie idee e alla propria autonomia.
Forse è questa la caricatura di obbedienza che spontaneamente rifiutiamo. La realtà è ben diversa. A livello umano ci sono molte cose cui obbediamo volentieri, perché ci rendiamo conto che ci sono buone ragioni per farlo, perché mi accorgo che il bene comune lo richiede, o perché riconosco che c'è chi ne sa più di me o chi è in una posizione migliore per decidere di qualcosa. Obbediamo e acconsentiamo anche alle persone che amiamo, perché vogliamo soddisfarle. La nostra obbedienza è attiva e di tutto cuore. Desideriamo obbedire, anche se, a volte, ci costa. L'obbedienza può portarci a frenare un nostro desiderio, ma accettiamo questa limitazione per qualcosa che per noi è più importante.
Ci sono anche delle buone ragioni per l'obbedienza religiosa. Le vie di Dio che oltrepassano l'umana comprensione, la fiducia religiosa verso i rappresentanti e i ministri di Dio fondata sulla Parola Rivelata, l'autorità della santità, la nostra stessa esperienza del riconoscimento della verità di Dio presente nel prossimo.
L'obbedienza non dovrebbe essere confusa con il conformismo (umano o religioso), che è mera adattabilità esteriore del nostro agire. Questa implica un atteggiamento passivo, di inerzia. Le proprie facoltà interiori non vengono coinvolte, ma si lascia che tutto avvenga e vada per il suo corso, unicamente perché è più facile e comodo che fare il contrario. Il conformismo può essere indotto anche da una sottovalutazione della capacità delle persone di accettare liberamente e con amore la verità.
Dobbiamo intendere meglio la vera natura dell'obbedienza religiosa, quale luce necessaria nell'oscurità dell'esistenza umana. Ciò richiede un riesame del senso del proprio scopo nella vita, del proprio grado di apertura all'esperienza della verità religiosa, della capacità di confidare e di affidarsi all'altro (FR), del senso del bene altrui, della propria capacità di amare, di essere in grado di adattarsi all'altro.
Così facendo, possiamo apprezzare meglio quella semplice frase della Genesi: “Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore”.

Il silenzio
Il silenzio è mitezza: quando non rispondi alle offese, quando non reclami i tuoi diritti. quando lasci a Dio la tua difesa e il tuo onore.
Il silenzio è magnanimità: quando non riveli le colpe dei fratelli, quando perdoni senza indagare nel passato, quando non condanni, ma intercedi nell'intimo.
Il silenzio è pazienza: quando soffri senza lamentarti, quando non cerchi consolazioni umane, quando non intervieni, ma attendi che il seme germogli.
Il silenzio è umiltà: quando taci per lasciare emergere i fratelli quando celi nel riserbo i doni di Dio, quando lasci che il tuo agire sia male interpretato, quando lasci ad altri la gloria dell'impresa
Il silenzio è carità: quando fai parlare l’altro, quando umilmente ascolti le sue lamentele, quando offri a Dio le sofferenze del fratello, condividendone il peso.
Il silenzio è fede: quando taci perché è Lui che agisce, quando rinunci alle voce del mondo per stare alla sua presenza, quando non cerchi comprensione perché ti basta essere conosciuto da lui.
Il silenzio è saggezza: quando ricorderai che dovremo rendere conto di ogni parola inutile, quando ricorderai che il diavolo è sempre in attesa di una tua parola imprudente per nuocerti e uccidere.
Infine il silenzio è adorazione: quando abbracci la croce, senza chiedere il perché, nell'intima certezza che questa è l'unica via giusta.

La nostra trasfigurazione.
Il vangelo della trasfigurazione è un vero itinerario quaresimale: una strada di vita cristiana per tutti noi.
Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni li condusse in disparte. su un alto monte... Gesù invita noi suoi discepoli a momenti di distacco dalle cose e dagli impegni consueti, invita a cercare il silenzio, la riflessione, la preghiera. Effettivamente abbiamo bisogno di trovare pace e interiorità nelle nostre giornate piene di impegni, di preoccupazioni più o meno valide, di stanchezza, di stress. In un'altra occasione Gesù dirà: Venite, riposatevi un po'. Gesù sale sulla montagna. La montagna è sempre un luogo di particolare rapporto con Dio. Dio sceglie i monti per le sue rivelazioni, i suoi doni di amore: ricordiamo il Sinai, l'Oreb, il Tabor, il monte delle beatitudini, il calvario, il monte dell'ascensione.
E' importante anche cercare il luogo adatto alla preghiera, il luogo dove si può accogliere nella maniera più viva la presenza di Dio.
Nelle nostre giornate e nei nostri propositi quaresimali, riusciamo a programmare momenti di preghiera (“il nostro stare con Gesù in disparte”) e qualche esperienza forte in uno dei tanti luoghi dove siamo aiutati per un incontro vero con il Signore?
Gesù fu trasfigurato davanti a loro, il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve. Gesù si fa vedere in tutta la gloria di Figlio di Dio e i suoi possono contemplarlo, possono percepire qualcosa della sua grandezza e bellezza infinita. E' un'esperienza talmente grande che Pietro esclama: E' bello per noi stare qui.
Anche noi siamo spinti a coltivare l'esperienza della contemplazione del volto di Dio, dell'amore di Dio, della sua grandezza e della sua vicinanza. Ci viene in mete tutto quello che il S. Padre nella lettera per il millennio ci ha scritto per la contemplazione del “Suo” volto. “Lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore”. “Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offre l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera e coerente di quel mistero che è il Figlio di Dio, venuto ad abitare in mezzo a noi”. “Nel volto di Cristo la Chiesa contempla il suo tesoro, la sua gioia”.(TMI)
Chiediamoci: È bello per noi stare con il Signore? Nei momenti di preghiera, nella Messa, nelle liturgie, nel silenzio della nostra camera?
A Cristo Figlio di Dio, Messia Salvatore, danno testimonianza Mosè ed Elia, cioè tutta la storia sacra dell'Antico Testamento. Cristo è il Messia atteso nei secoli; Cristo diventa il centro del cosmo e della storia, l'unico Salvatore del mondo, il Salvatore dell'universo.
Una nube luminosa li avvolse e si udì la voce: Questo è il mio Figlio prediletto, nel quale mi suo compiaciuto. Ascoltatelo! La nube ci ricorda la presenza protettrice di Dio nel cammino del popolo ebraico ed esprime ora quella stessa presenza. La voce è la voce del Padre. Aveva parlato in molti modi attraverso Mosè e i profeti; aveva dato sul monte le tavole della legge (i dieci comandamenti); ora parla attraverso Gesù, il Figlio, che ci darà la nuova legge, le beatitudini e il comandamento nuovo dell'amore. Per questo Cristo va ascoltato.
Com'è la nostra fede in Gesù Salvatore? Come lo ascoltiamo? Conosciamo la sua parola, i suoi insegnamenti, li seguiamo?
Verranno anche per noi momenti difficili, in cui proveremo crisi e tentazioni. Ma il Signore Gesù è Lui, sempre. È con noi, sempre. Trasforma ogni sofferenza e ogni morte in risurrezione, in vita. Dice uno scrittore: È importante non dimenticare nei momenti delle tenebre, ciò che abbiamo visto nei momenti della luce. Anche a noi il Signore dà tanti momenti di luce, come sul Tabor; quando vengono i giorni difficili, dobbiamo ricordare la bontà del Signore, credere alla sua fedeltà, unirci alla sua sofferenza, per essere uniti poi con Lui per sempre nella pienezza della vita.

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