giovedì 25 settembre 2025

28 SETTEMBRE 2025 – XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 16,19-31 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Il vangelo di oggi ci presenta in primo piano due personaggi, uno ricco e l’altro povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, una casa signorile, cibo a volontà per sfamarsi abbondantemente tutti i giorni; ha “fratelli”, cioè amici, ha relazioni, amore; alla sua morte ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi, i potenti, potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, non è malvagio, non fa niente di male: ha tutto, non gli manca nulla, non gli serve proprio niente. Solo una cosa gli manca: un nome che lo identifichi; il testo lo individua semplicemente come “un uomo ricco”.
Poi c’è l’altro personaggio che, a differenza del primo, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i suoi cani, indifeso, affamato, malato, ricoperto di piaghe, bisognoso di cibo e di cure. L’unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro.
Per la Bibbia, il nome è fondamentale, perché in qualche modo riassume la vita della persona che lo porta, è la sua immagine speculare; persona e nome coincidono. All’epoca avere un nome significava conoscere in proiezione la propria vita, voleva dire conoscere la propria identità, il proprio futuro, il programma preciso da realizzare, insomma, voleva dire “essere vivi”.
Nel nostro caso il nome “Lazzaro” significa “Dio aiuta, Dio provvede, Dio salva”. Il poveretto, trovandosi infatti in una situazione disperata, di assoluta necessità, può contare solo sull’aiuto di qualcuno, spera che qualcuno si prenda cura di lui, che gli dia una mano, che lo salvi dalla sua condizione: in pratica si affida a Dio, ha bisogno assoluto di Lui.
Il ricco, invece, non avendo un nome come quasi tutti i ricchi del vangelo di Luca, non ha un progetto di vita, un programma, non è interessato a nulla; è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa, nulla attira la sua attenzione; non si accorge neppure di Lazzaro: eppure gli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere: come ha potuto non vederlo? Questo è il problema; questo è stato il motivo della sua condanna finale: non accorgersi, non voler vedere, non voler rendersi conto di nulla.
Ebbene: questo è esattamente quanto il vangelo di oggi vuol dirci: anche noi subiremo lo stesso trattamento del ricco, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di aiuto, di tenerezza, di comprensione, e nessuno ci ha soccorso! Non sentirsi amati, aiutati, considerati, è sicuramente tremendo per tutti: fa sempre male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, per pregare qualcuno che ci presti attenzione, che ci ascolti, che lenisca il nostro dolore, ricolmando il vuoto abissale del nostro cuore: c’è sempre il timore di ricevere un no, di venire apertamente ignorati, rifiutati! Viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e così ci perdiamo nella ricerca irrazionale dell’effimero, dell’apparire, almeno esteriormente, importanti, del sembrare un qualcuno che non siamo.
Ma “Lazzaro” sono anche coloro che ci stanno vicino: sono le persone tristi, quelle che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: se infatti chi ci è vicino non parla mai, è sempre chiuso in sé stesso, se interrogato ammutolisce, forse vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Allora, evitiamo di fare gli indifferenti, di non vedere e non sentir nulla: vediamole invece queste persone, accogliamole, ascoltiamole, cerchiamo di capire il loro dramma interiore!
Come possiamo ignorare proprio chi ci sta più vicino? Chi ha più bisogno della nostra presenza, delle nostre parole, delle nostre dimostrazioni di stima, del nostro amore? Come facciamo a non vedere in tutti questi “Lazzaro” che ci vivono a fianco, i dolori, i pesi, le delusioni che opprimono il loro cuore? Eppure noi continuiamo a non vederli, a non sentirli, siamo distratti, immersi solo nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri inutili passatempo, senza accorgerci che, come l’uomo ricco, viviamo già nell’inferno: nell’inferno della mancanza di amore, della solitudine, dell’abbandono, delle porte del cuore e della mente ermeticamente sbarrate: viviamo in quell’inferno drammatico che è la chiusura totale a Dio, non permettendogli di entrare con la sua luce dentro di noi, nella nostra solitudine, nella nostra sofferenza, per portare ascolto, liberazione, pace, perdono, misericordia.
Ecco perché l’inferno o il paradiso è nelle nostre mani: perché tocca solo a noi decidere se ospitare Lazzaro o lasciarlo fuori. Tutti abbiamo a nostra disposizione “Mosè e i Profeti”; ma molto spesso preferiamo vivere a modo nostro, conducendo una vita insensata, ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi inviti alla conversione.
In questa vita abbiamo tutte le possibilità per imparare, per coltivare la nostra sensibilità, per fare esperienze, per far crescere spiritualmente la nostra anima: ma i risultati sono pochi.
Cos’altro ci serve per salvarci? Abbiamo forse bisogno di altri profeti, di altri insegnamenti, di nuovi eventi eccezionali?
Nossignori: è sufficiente quanto già abbiamo a nostra disposizione: la fede che ci indica il “come”, e la carità con cui “metterlo in pratica”! Non servono altri “miracoli”: del resto il miracolo più bello lo viviamo ogni giorno: quando, risvegliandoci al mattino, riapriamo gli occhi alla vita, potendo assaporare ogni istante di questo splendido dono divino che è la vita, l’amore, il cielo, il creato! Abbiamo già tutto per poterci elevare, per far risplendere e testimoniare nel mondo la dignità umana riflessa in Dio.
Eppure tutto ciò non ci entusiasma, non ci stupisce, non ci commuove. Perché, purtroppo, siamo esseri volubili, impastati di luce e di ombra: possiamo cioè essere contemporaneamente i “poveri” come Lazzaro e i “ricchi” come l’epulone gaudente; possiamo essere i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti prediletti da Dio, ma anche, e forse più, quelli che non guardano in faccia a nessuno, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita senza far nulla, quelli che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo.
Siamo insomma creature “divine”, ma anche terribilmente “umane”, perché preferiamo seguire la soluzione del ricco, quella più semplice di chiudere gli occhi e far finta di nulla. Anche se poi questo nostro brancolare nel buio ci spaventa, ci angoscia, ci crea sgomento, ci destabilizza.
Non appena però una piccolissima scintilla di Luce riesce a squarciare le tenebre del nostro cuore, immediatamente tutti i nostri inferni si attenuano, tutto diventa sopportabile, vivibile. Perché, nonostante la nostra inadeguatezza, noi siamo figli della Luce, siamo figli del Dio Amore, creati per vivere nella Luce di quel Padre che ci ama e che pazientemente aspetta la nostra “trasfigurazione” per introdurci un giorno, come Lazzaro, nello splendore dell’Amore eterno. Amen. 

  

giovedì 18 settembre 2025

21 SETTEMBRE 2025 – XXV DOMENICA DEL T.O.


Lc 16,1-13  
In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”. L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”. Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Riconosciamolo: la parabola del Vangelo di oggi ci imbarazza, ci mette a disagio: come fa Gesù a lodare uno che ruba? Un disonesto? Possibile che Gesù abbia detto proprio una cosa del genere? Ebbene: le parole sono proprio sue. Soltanto che Gesù non intende lodare l'amministratore per ciò che ha fatto, come potrebbe sembrare ad un approccio superficiale col testo. Dove infatti la traduzione dal testo greco dice: «Il “padrone” lodò l'amministratore disonesto», dimostra di non aver colto il vero significato del testo: è impensabile infatti che un “padrone”, per quanto bravo e santo che sia, accortosi di essere stato derubato dal suo dipendente gli dica: “Complimenti, hai fatto proprio un gran bel lavoro! Hai tutta la mia stima!”. Per capire il vero senso delle parole di Gesù, era invece sufficiente tradurre il termine greco “κÀριος” del versetto 8, con “Signore”, invece che con “padrone”: “κÀριος” infatti. è l’appellativo con cui Luca abitualmente indica la persona di Gesù (lo usa ben 103 volte nel Vangelo e 107 negli Atti); in questo modo la frase diventa immediatamente logica e comprensibile: “Il κÀριος (il “Signore”, cioè Gesù”) lodò il comportamento dell’amministratore” «perché aveva agito con scaltrezza»; quindi non è il padrone, ma è Gesù che loda e propone da imitare, non ciò che l’amministratore fa in concreto, ma il modo con cui lo fa; loda la sua immediata reazione, la sua prontezza nel prendere una decisione, la sua determinazione nel voler rimediare ad una situazione imprevista. Non si è stracciato le vesti, non si è disperato, non si è messo a urlare a vuoto, non ha chiuso gli occhi aspettando la soluzione chissà da chi. In parole povere, insomma, Gesù vuol dire: “come miei discepoli, non dovete assolutamente essere delle persone imbambolate, inconcludenti, persone a cui tutto è indifferente, vada come vada. Dovete essere reattivi, responsabili, pronti a rimettervi in piedi se cadete, ad essere propositivi, esattamente come quell’amministratore, che ha saputo prendere in mano la situazione”. 
Il comportamento che dobbiamo pertanto seguire è molto semplice: ci accorgiamo che in certe situazioni non possiamo più “operare”? Che la strada imboccata non è più praticabile? Inutile perder tempo: dobbiamo trovarne prontamente un’altra, dobbiamo agire in modo diverso, con una logica diversa; dobbiamo insomma fare scelte mirate, più creative, più concrete, più efficaci. Questo, in particolare, quando ci rendiamo conto di aver sbagliato; così per esempio: abbiamo capito di aver calpestato i principi del Vangelo, della nostra fede, tradendo noi stessi e la fiducia riposta in noi dagli altri? Inutile continuare all’infinito a lacerarci l’anima, non serve assolutamente a nulla: ormai è successo. Certo: siamo stati degli sprovveduti, dei superficiali, degli “infedeli”, stupidamente troppo sicuri di noi stessi; ma a questo punto vogliamo forse farla finita? A che servirebbe morire (dentro o fuori che sia)? Cosa risolveremmo? Ciò che è stato è stato. E se il passato non si può cambiare, guardiamo al domani: perché se siamo stati noi a sbagliare, a comportarci male, siamo sempre noi, solo noi, che dobbiamo cambiare, che dobbiamo chiedere perdono a Dio e al prossimo, e riparare per quanto possibile al danno che abbiamo procurato; siamo solo noi, insomma, che dobbiamo correggerci, che dobbiamo perdonarci e risorgere con nuovo slancio.
È l’unico modo per salvare il salvabile e riacquistare la nostra dignità. In qualunque “caduta” siamo incorsi, dobbiamo perdonarci: dove “perdonarci”, significa riconoscere il mal fatto, significa provarne un sincero dispiacere: non tanto in noi stessi, privatamente, nella nostra coscienza, ma di fronte a “qualcuno” che sacramentalmente può perdonarci in nome di Dio. Dopo di che rialziamoci e, spiritualmente rinati, riprendiamo il nostro percorso a testa alta.  
Altra indicazione del vangelo di oggi è che dobbiamo accorgerci degli altri, dei nostri fratelli, di quelli che vivono al nostro fianco, e aiutarli. Come ha fatto il contabile infedele; finora egli aveva “usato” le persone, le aveva trattate senza cuore e senza umanità; per lui era tutta gente da spremere il più possibile. Ora improvvisamente si accorge che non erano degli oggetti, delle semplici opportunità, ma delle persone, degli uomini bisognosi di comprensione, di carità, di misericordia, di aiuto. E come mai se ne accorge? Perché capisce di trovarsi ora nella loro identica condizione: anche lui ora è un “debitore” del padrone, esattamente come loro; anche lui ora vede le cose dalla loro stessa prospettiva. Ed è in questo momento - quando cioè, caduto in basso, è costretto ad affrontare le loro stesse situazioni compromesse - che esplode in lui l’importanza della misericordia: l’uomo perfetto e potente, quello al di sopra di tutti, quello che non sbaglia mai, non la conosce, non sa cosa significhi: per cui non potrà mai usarla; non potrà mai dispensare comprensione, amore, al debole che cade, perché lui si ritiene inattaccabile, invincibile, non ammette debolezze, non accetta cadute. Lui, l’impeccabile, non può che appellarsi alla legge, alle regole, alle norme, e trattare i deboli soltanto appellandosi ad esse, con superiorità. Solo chi ha sperimentato sulla propria pelle cosa significhi sbagliare, sentirsi peccatore, uno schifo, sentirsi indegno, colpevole, può apprezzare la misericordia, il bisogno tormentoso di perdono, di amore, di conforto. Chi è convinto di non sbagliare mai, non conosce il Dio dell’amore e della misericordia; lui non ne ha bisogno, non deve chiedergli nulla; l’amore di Dio per lui è un diritto.
È vero: in genere tutti ci riconosciamo peccatori, di essere deboli e di sbagliare: ma gran parte di noi, nel loro intimo, sono convinti di non esserlo poi così tanto. Il vero guaio, in questi casi, non sta tanto nel fare o non fare degli errori, ma nel non voler riconoscere la possibilità di farli; così, pur professandoci peccatori, continuiamo a considerarci persone brave, oneste, rette. Salvo poi essere dei critici spietati, intransigenti, con quanti vediamo cadere.
Ebbene, è su questo che dobbiamo lavorare: l'uomo del vangelo, come abbiamo detto, trasforma radicalmente il suo modo di pensare e di agire, e ci mette in questo tutta la sua passione, la sua grinta, la sua scaltrezza. Trasforma cioè una serie di errori compiuti nel passato, in un impegno, serio e attuale, di raddrizzare una situazione compromessa.
Il “perfetto”, l’integro, l’osservante, non può conoscere questo tipo di “conversione”; il “perfetto” non si espone, non ne ha bisogno, perché lui “non ha” colpe nascoste, “non ha” lati distorti da raddrizzare.
Gesù stesso non è tanto preoccupato per il nostro sbagliare. Egli è molto più preoccupato del nostro non ammettere l’errore, del nostro far finta di nulla, del nostro comportarci come se tutto fosse in ordine, a posto; quando invece a posto non lo siamo affatto.
È molto importante, a questo proposito, essere consapevoli che il nostro continuare a vivere nella colpa, nell’indifferenza, con una condotta amorale, con degli scheletri putrefatti nell’armadio della nostra coscienza, sono non solo delle zavorre che ostacolano il nostro progresso spirituale, ma anche delle miserie, delle tare, dei “geni patogeni” che trasmettiamo in qualche modo alla nostra memoria biologica: nel senso che i nostri figli subiranno inconsapevolmente le conseguenze di questa nostra ostinata incoscienza: se infatti nella nostra vita siamo permissivi in tutto, se siamo incuranti dei valori, se non dimostriamo ai figli di essere obiettivi, onesti, di saperci assumere le nostre responsabilità, di ammettere i nostri errori, di riparare ai torti fatti, di avere il coraggio di chiedere perdono, sarà naturale per loro imitare e reiterare nella loro vita questi nostri esempi negativi: otterremo cioè, con molta probabilità, dei figli irresponsabili, indifferenti a Dio , alla famiglia, ad ogni valore morale irrinunciabile.
Allora, se ci accorgiamo di vivere una vita vuota, se sentiamo su di noi il peso delle nostre colpe, non continuiamo a fingere, non rimaniamo un minuto di più in tale situazione. Facciamolo per noi e per chi amiamo. Così, se ci sentiamo in colpa perché non siamo quelli che vorremmo, non rimandiamo sine die il nostro cambiamento, diamoci da fare, non è mai troppo tardi! Non deludiamo noi stessi e i nostri figli con il nostro far nulla: pentiamoci seriamente, invece, buttiamo tutte le nostre deficienze alle spalle, e perdoniamoci: si, perdoniamoci, perché solo così ci libereremo dall’influsso nefasto delle nostre colpe. Ma cosa significa in definitiva questo “liberarci”, questo “perdonarci”? Significa confessare a Dio le nostre miserie, significa riconoscere umilmente di aver sbagliato e ammettere il nostro errore, significa chiedere perdono a Lui e a chi abbiamo in qualche modo danneggiato; significa riparare per quanto possibile al danno commesso. Solo in questo modo riusciremo a vivere da perdonati, da liberi, da graziati; solo in questo modo, potremo nuovamente “trasfigurarci” nella gioia, nella luce e nell’amore del Padre. Amen.


martedì 9 settembre 2025

14 SETTEMBRE 2025 – ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE


Gv, 3,13-17  
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

Giovanni, con poche ma incisive parole, ci spiega il grande mistero di Dio: Dio è venuto nel mondo per amarci, per accoglierci, per starci vicino, per farci vedere come potremmo vivere, con quale estensione del nostro cuore, con quale dilatazione della nostra anima, con quale vibrazione e intensità per la nostra vita. 
Il testo di oggi è tratto dal lungo discorso che Gesù intrattiene con Nicodemo. Nicodemo è un fariseo, fa parte dell’aristocrazia sacerdotale, è un maestro, un profondo conoscitore della Bibbia e della religione. Ma gli manca qualcosa, avverte una profonda inquietudine, percepisce che c’è qualcosa di più grande, di “oltre”. È un uomo che non si accontenta, uno che vuol capire, che vuol vivere più in profondità. E Gesù gli fa una proposta immensa, a prima vista irrealizzabile: “Devi rinascere”.
Sostanzialmente gli dice: “Quello che tu oggi chiami vita, io la chiamo morte. Abbandona questo tuo modo di vivere, di pensare: ed io ti mostrerò cosa vuol dire vivere per davvero”. Una proposta che avrebbe emozionato chiunque, che avrebbe entusiasmato, stuzzicato chiunque avesse un cuore assetato di verità, di amore, di vita vera come il suo: Gesù è uno che fa proposte nuove, proposte che rompono tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini; apre orizzonti nuovi e impensati, è davvero una persona affascinante, attraente, perché presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, intenso, da “mozzare il fiato”. Gesù è per anime grandi: non si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: prova ne sia a testimonianza la vita degli apostoli, dei santi, delle grandi figure della cristianità.
Chi vuol vivere sulla difensiva, senza rischiare troppo, è meglio che lasci perdere. Perché Gesù è Amore, e come l’amore, coinvolge, sconvolge, appassiona: vuole tutto, pretende tutto, conquista tutto. Gesù è il fuoco: se non bruciamo per Lui, non lo conosceremo mai. Gesù è come la vita: o la viviamo con Lui o rimarremo sempre ai margini.
Quindi, a Nicodemo, in pratica spiega: “Se vuoi capire veramente chi sono io, lascia stare la tua Legge, le tue regole, le tue norme, la tua morale. Devi rinascere. Devi far morire il tuo mondo di illusioni, di falsità, di apparenza, di vuoto, di buone maniere: apri gli occhi e mira in alto!”.
E cita come esempio il caso degli israeliti infedeli e mormoratori, che durante la fuga dell’esodo, si erano ribellati a Dio e per questo vennero puniti con la piaga dei serpenti: per evitare la morte, dovevano guardare in alto, alla sommità di un’asta, sulla quale Mosè aveva fissato un serpente bronzeo: il serpente segno di pericolo, di morte, di disperazione, di rovina, si trasformava in quel momento in donatore di vita.
Ed è esattamente quanto succederà più tardi con Gesù: una volta inchiodato ed elevato in alto sulla croce, simbolo del patibolo e dell’apparente fallimento, Egli la trasformerà da motivo di morte in sorgente di vita, di amore, di vittoria, di grazia: pertanto l’esortazione che Gesù rivolge a Nicodemo, acquista, in pratica, un valore fondamentale anche per tutti noi: “Non abbiate paura di quanto nella vita vi affligge, vi inquieta, vi angoscia: fidatevi di me: guardatemi con fiducia sulla croce, perché è grazie ad essa che io vi ho riscattato tutti: per proteggervi, guidarvi, consolarvi e soprattutto amarvi!”.
Guardiamo allora in faccia alle nostre paure ancestrali, soprattutto al terrore della morte. La grande verità è che tutti moriremo. Dovremo lasciare le persone che amiamo di più, i nostri figli, i nostri cari, la nostra casa, tutto! Vivere così ci aliena, è tremendo, doloroso, angosciante.
Ma ora sappiamo che la morte non potrà decretare la nostra fine assoluta: dall’altro lato del tunnel tetro e buio, una luce improvvisa ci illumina. Dal profondo dell’angoscia esplode una nuova vita luminosa, brillante: è la vittoria della risurrezione, della fiducia appagata, dell’amore misericordioso meritato. E non saremo mai più gli stessi di prima.
Questo, per Giovanni, è il risultato del nostro “credere”: credere è quando noi nel bel mezzo della disperazione troviamo la Forza, incontriamo Dio, e ci affidiamo a Lui, fidandoci ciecamente di Lui. E allora? Smettiamo una buona volta di voler “razionalizzare” ogni cosa, di cercare sempre nel mondo nuove soluzioni, nuovi stili vita: perché il mondo non potrà mai darci alcuna vera risposta! Apriamoci piuttosto al nostro più profondo bisogno d’amore, alla ricchezza di quelle emozioni celesti che sorreggono il nostro cuore, alla tenerezza di quell’abbraccio divino che non reprime, non abbatte, non soffoca: un abbraccio paterno che offre solo tenerezza, comprensione e misericordia; e allora capiremo cosa significa sentirci degni di vivere con Dio, perché ci sentiremo veramente figli suoi; e capiremo che noi, ai suoi occhi, siamo “grandi” da sempre, perché ci ha voluti di proposito a sua immagine e somiglianza.
Questa è la realtà: per cui la nostra unica preoccupazione deve essere solo quella di riappropriarci di tale somiglianza (se con la nostra stupidità l’abbiamo rovinata!), e di mantenerla sempre con i tratti autentici dell’Originale: smettiamo decisi di inseguire falsi e distruttivi ideali di vita: le ricchezze, la carriera, il successo, la gloria. Alziamo lo sguardo lassù sulla croce, e mettiamoci fiduciosi tra quelle braccia spalancate, torturate dalle nostre infedeltà. E vedrete che immancabilmente percepiremo nell’anima quel meraviglioso, inebriante e stupendo fremito che si chiama “vita con Dio”. Chi crede “vive”, chi vive “crede”. Amen.

 

venerdì 29 agosto 2025

07 SETTEMBRE 2025 – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 14,25-33 
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». 
 

Siamo anche questa domenica nel capitolo 14 del vangelo di Luca. Gesù sta proseguendo nel suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste dei suoi discorsi e delle sue opere straordinarie. Lo seguono materialmente, senza sapere esattamente cosa voglia dire, cosa comporti, “seguire” Gesù. 
Essere semplicemente “entusiasti” del personaggio Gesù, e “seguirlo concretamente con la propria vita”, sono due cose molto, ma molto, diverse: un conto infatti è ammirarlo, un altro è seguirlo, perché “seguire” Gesù è una cosa seria, significa giungere a conclusioni difficili, operare scelte spesso dolorose, significa mettersi completamente in gioco, andare là dove magari non vorremmo proprio andare.
Per sottolineare l’importanza delle parole che Gesù rivolge a quelli che lo seguono, Luca scrive che “si voltò”, usando qui la forma verbale “strafeis” (Lc 14,25). Ora, il verbo greco “strefo”, “girarsi”, ha una connotazione severa, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un parlare del più e del meno tra amici, tra compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. Cerchiamo di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, determinato, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua morte in croce, la sua apoteosi d’amore, ormai imminente. Vi sono poi quelli che lo “seguono”: i quali però cominciano ad accusare la stanchezza e qualcuno inizia a mugugnare, a brontolare, lagnandosi della situazione. Un borbottio che progressivamente si espande, cresce, distogliendo Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quanti lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Allora abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a “camminare” con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”.
Parole che ci raggiungono tutti in maniera diretta: quante volte capita infatti anche a noi di iniziare con entusiasmo un certo percorso, salvo poi abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile! Non fa per me”. Sissignori, è vero: nella vita tutto è difficile, ma se ci mettiamo impegno, tutto diventerà più facile! Dobbiamo capire che se alla prima contrarietà ci fermiamo, se perdiamo la voglia di lottare, di faticare, di sfidare le avversità, di “tenere”, perdiamo tutto, anche quel poco che avevamo conquistato, e ci sarà impossibile raggiungere qualunque obiettivo. Diventiamo insomma come il sale senza sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili.
E qui Gesù, in tono grave e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da capire: “Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (14,26).
Effettivamente, se questa frase non fosse scritta nel vangelo, e non fosse scritta proprio così (non addolcita come nella versione CEI: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre ecc.”), difficilmente potremmo attribuirla a Gesù. Ma dice veramente che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sì, sono le sue parole esatte. Ma possibile che abbia usato proprio il verbo “odiare”? Sì, il verbo usato, “miseo”, in greco, significa esattamente odiare, detestare, disprezzare. Ma cosa intende veramente Gesù con questa frase? Beh, prima di tutto, e in nessun caso, Egli ci invita all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è di “odiare”, di nutrire sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro; anzi: dobbiamo sempre ricambiare il loro amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per l’amore che ci donano, poiché nulla, vita compresa, ci è dovuto! Gesù qui si riferisce “non” ad un “sentimento”, ma ad un ipotetico “comportamento”, ossia ad un modo di agire, di vivere “come se”; un modo cioè che ci renda veramente “liberi” da ogni coinvolgimento o “distrazione”. Per farsi capire ha dunque usato parole dure, forti (come “odiare” ciò che abbiamo di più caro), ma l’ha fatto solo per chiarirci quanto sia determinante, quanto sia essenziale, per chi lo vuol seguire, per chi vuole essere suo discepolo, affrancarsi da ogni cosa, rendersi completamente “libero” per Lui. Perché quando siamo troppo legati emotivamente, troppo dipendenti, succubi di qualcuno o di qualcosa, finiamo inevitabilmente col perdere di vista Gesù, di anteporre, cioè, qualcuno o qualcosa alla Sua chiamata, alla nostra vocazione, alla nostra missione vitale, che è appunto quella di seguirlo.
Quindi Gesù prosegue e puntualizza: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27).
Un’altra frase che può prestarsi ad inesatte interpretazioni: tante persone sono convinte infatti che “croce” equivalga a soffrire, patire, penare. Sentiamo la gente che ad ogni difficoltà ripete: “Questa è la mia croce! Ognuno ha la sua; il Signore a me ha dato da portare questa!”. Noi stessi con l’espressione “portare la propria croce” alludiamo alle varie sofferenze e contrarietà della vita, come malattie, inconvenienti, paure, incidenti, separazioni, dolori, ecc., convinti che sia Dio stesso a mandarcele, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Ma non è esattamente questo che ci dice il Vangelo. Nel Nuovo Testamento il termine greco “stàuros”, croce, appare 73 volte, e mai, ripeto mai, questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. La prima volta che “croce” viene interpretata come “sofferenza, pena, castigo”, avviene nel V secolo, in una preghiera cristiana. Ma siamo nel V secolo!
Sempre nel Nuovo Testamento, per dire “prendere, portare la propria croce”, gli evangelisti non usano mai verbi come “fèro” o “dèchomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un subire, un dover accettare o prendere qualcosa che è imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambàno”, “prendere” volontariamente, o “bastàzo”, “sollevare”, con cui Giovanni indica il movimento di Gesù che, condannato a morte, prende volontariamente, si carica spontaneamente sulle spalle, la croce patibolare. Un gesto libero, di grande responsabilità, fortemente voluto.
Per questo Gesù introduce qui il discorso in maniera ipotetica: “Se uno viene a me...”. Perché “prendere la croce” non è obbligatorio per tutti! È solo per chi lo vuole! È solo per chi ha scelto liberamente di seguire Gesù.
Non significa poi, come ho detto, dover subire passivamente, da rassegnati, obtorto collo, le sofferenze, le disgrazie, le malattie, i dolori che la vita ci riserva; ma vuol dire accettare gioiosamente, volontariamente, e quindi liberamente, qualunque contrarietà come conseguenza della nostra adesione a Cristo, ivi compresa la progressiva distruzione da parte del mondo della nostra personalità, delle nostre scelte, della nostra reputazione: “Sarete odiati da tutti a causa mia!”.
La croce altro non è quindi che l’accettazione delle discriminazioni che ci vengono imposte per la nostra determinazione di voler vivere il “Regno di Dio” già su questa terra: un vivere, in altre parole, “come ha fatto Gesù”, comportarsi cioè “alla Gesù”, stravolgendo i valori tradizionali del mondo e del pensiero comune: come per esempio “accumulo” con “condivisione, compartecipazione”, “prestigio personale, egoismo” con “uguaglianza, equità”,sopraffazionecon “servizio”. Solo se avremo un cuore veramente libero dalle pastoie del mondo, potremo infatti amare veramente Dio e il prossimo, metterci umilmente a servizio degli altri, disinteressandoci del giudizio della gente: perché perdere la loro stima non significa perdere la nostra dignità: spesso, anzi, proprio per non perdere la dignità, dobbiamo rinunciare ai riconoscimenti del mondo! Amen.

 

 

martedì 12 agosto 2025

31 AGOSTO 2025 – XXII DOMENICA DEL T.O.


Lc 14,1.7-14 
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cedigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti». 

Non è la prima volta che Gesù va a pranzo da scribi e farisei. Sa perfettamente di non essere ben visto per questo, di andare incontro a critiche e maldicenze, ma Egli è un uomo libero. Non si lascia condizionare dai pregiudizi e dal clima di aperta ostilità, perché sa che la sua missione è di dover insegnare sempre qualcosa di nuovo: in particolare a coloro che si considerano i più bravi, i più buoni, i più giusti, a coloro che credono di avere già un posto garantito nel Regno dei cieli. L’andare a “pranzo” da questa gente, significava per Gesù non solo andare materialmente a “nutrirsi”, a mangiare, ma anche e soprattutto a portare ai commensali il suo cibo, il suo nutrimento spirituale, i suoi insegnamenti, la sua Parola: un cibo ben più importante di quello materiale.
Qui siamo di sabato; è quindi verosimile che Luca si riferisca ad un fatto realmente accaduto. Di sabato, infatti, dopo essere stati nella sinagoga a pregare, verso mezzogiorno, i partecipanti si intrattenevano per un “pranzo”, al quale era invitato anche il rabbi o il predicatore di turno. Il testo ci fa notare che in quel caso, trattandosi della casa di un capo dei farisei, oltre alla gente comune, dovevano essere presenti anche delle persone importanti, degne di riguardo.
Da qui capiamo meglio il motivo per cui Gesù si serve di questo particolare per la sua catechesi: “Osservando come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro questa parabola”.
Egli osserva la scena, e nota la corsa degli invitati per accaparrarsi i primi posti. Più o meno quello che succede di solito anche ai nostri giorni.
Ora, Gesù non si indigna tanto per il fatto in sé; questo lo dà per scontato. Quello che lo indigna è la molla che fa scattare tale comportamento, il “perché” avviene: Egli cioè constata che le persone, pur di avere i primi posti, pur di sentirsi superiori alla massa, sono pronte a tutto, a qualunque sacrificio, a qualunque “spintone”. La cosa grave è il “fine” di tale comportamento, quello che Gesù stigmatizza; Egli pone un principio fondamentale: non è importante accaparrarsi quello che ti qualifica davanti agli uomini - sappiamo che tutto è apparenza - ma quello che ti qualifica davanti a Dio; perché quello che è più importante, che è essenziale, è come tu ti poni davanti a Lui. Sembra infatti dirci: “Non ti accorgi che per questa tua smania di autopromuoverti ad ogni costo, finisci col calpestare il valore, la dignità degli altri? Come mai per te contano soltanto quelli che occupano i primi posti? Perché consideri insignificanti, uno scarto, delle nullità, quelli che stanno agli ultimi posti?”. Per cui: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non ti mettere a tavola al primo posto, perché può darsi che sia stato invitato da lui qualcuno più importante di te, e chi ha invitato te e lui, venga a dirti: Cedi il posto a questo. E tu debba con tua vergogna andare allora ad occupare l’ultimo posto” (Lc 14,8-10).
È chiaro che Gesù qui trova lo spunto nei comportamenti tipici della cultura farisaica, per la quale il riconoscimento sociale, il posto occupato nei pranzi, nelle sinagoghe o nei luoghi pubblici, aveva un altissimo valore: era tipico di quella società classista, di quella cultura decisamente individualistica, costituzionalmente molto diversa da quella della nostra società moderna, che si definisce “paritaria”, “liberale”.
Cosa propone allora Gesù? Una cosa molto semplice, fondamentale anche per noi: evitare di mettersi al posto d’onore, ma di sceglierne uno tra gli ultimi. Con questo Egli intende condannare le auto-gratificazioni onorifiche, non certo il giusto riconoscimento agli invitati di riguardo: tant’è vero che aggiunge subito: “Allora [tu] ne avrai onore davanti a tutti i commensali” (Lc 14,10).
È ovvio inoltre che Egli intende qui condannare anche quella “modestia”, falsa e affettata, con cui uno ostentatamente si mette all’ultimo posto: una modestia “pelosa”, tipica di quelle persone che pur rappresentando il penultimo gradino della società, coltivano una enorme autostima: “vorrei essere al primo posto, ma non potendolo occupare, assumo un tono umile, dimesso, come se la cosa non mi interessasse”. È l’atteggiamento subdolo di quelle persone che fingono di non essere interessate agli onori, ai riconoscimenti pubblici, di non avere ambizioni, e si accomodano vistosamente tra “gli ultimi”.
Solo che scegliere l’ultimo posto non vuol dire “umiliarsi”, come qualcuno in passato pensava: non vuol dire relegarsi socialmente tra gli “ultimi”, non è scritto da nessuna parte nel vangelo; al contrario significa darsi da fare, adoperarsi per questo genere di persone, cercare di migliorare le loro condizioni sociali, in modo che ci siano sempre meno “emarginati”.
La differenza è minima ma sostanziale: in pratica dobbiamo metterci all’ultimo posto non perché ci sentiamo inferiori, ultimi, ma perché non ci sentiamo “superiori” degli altri. In altre parole dobbiamo metterci all’ultimo posto solo perché convinti che tutti i presenti, tutte le persone, hanno la nostra stessa dignità: se non ci sono “i migliori”, non ci sono neppure i “peggiori”, non ci sono i furbi, non ci sono le “preferenze”, non c’è razzismo. È il presupposto per una società di amore, fraterna, che può verificarsi solo se tutti sono considerati e si considerano essi stessi uguali agli altri.
Il vangelo dice ancora: “Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato” (Lc 14,11). Legare la nostra felicità al solo sentirci superiori agli altri, al saperci più ricchi, al vederci più ammirati, è solo inutile narcisismo. È solo apparire, una vuota immagine: inseguiamo un fantasioso surrogato di noi stessi, quando in realtà, siamo semplicemente delle nullità.
Il dramma, purtroppo, è che nulla di esteriore, nessun travestimento, nessun apparire, nessuna immagine, per quanto grandiosa, può renderci felici: non lo può per definizione! Perché la felicità nasce solo dal vissuto concreto, dalla sensazione meravigliosa di essere vivi, dal godere di questa vitalità, dal percepire i sentimenti, le emozioni che vivono dentro il nostro cuore.
Al contrario, più l’immagine che inseguiamo è grande e ambiziosa, più la vitalità e i nostri sentimenti interiori ci sembreranno sfocati, scontornati, eliminati, distrutti: e la nostra vita si ridurrà prima o poi ad un completo fallimento. Allora dobbiamo reagire: dobbiamo imparare a raggiungere già in questa vita il “Regno dei cieli” evangelico. È in questo che dobbiamo convogliare tutte le nostre energie.  

Ma in che cosa consiste esattamente questo “regno dei cieli”? Qual è il segreto di quella gioia autentica, di quella felicità senza fine, di quell’amore senza confini, per indicarci i quali Gesù si è incarnato, ha vissuto su questa terra ed è morto sulla croce?

Nulla di impossibile, nulla di incomprensibile, nulla che non sia alla nostra portata: Regno dei cieli, infatti, è percepire le sensazioni più intime, le vibrazioni più personali del nostro cuore, quelle che riflettono l’amore di Dio. Regno dei cieli è sentire e soffrire per l’ingiustizia e per la falsità della gente. Regno dei cieli è avere gli occhi pieni di luce perché dentro abbiamo la Luce. Regno dei cieli è dispensare presenza, affetto, amore ai più bisognosi. Regno dei cieli è non perdere mai la nostra dignità anche quando ci capita di sbagliare. Regno dei cieli è poter guardare il prossimo senza giudicare, poter toccare senza desiderare, poter ammirare senza voler possedere. Regno dei cieli è smettere di preoccuparci per cose inutili e senza valore. Regno dei cieli è sentirci parte integrante ed essenziale di questo mondo, esattamente come si sente un figlio, parte integrante di una famiglia vera, voluto, benedetto, aspettato, da un padre e da una madre. Perché tutto questo è “normalità”, un soffio soprannaturale di Dio, che nasce in noi con noi. Purtroppo è “crescendo “che la società ci fagocita, inducendoci ingannevolmente ad abbandonare questo nostro “Regno dei cieli”. Sapientoni del nulla, legislatori microcefali, si affannano nel sostenere che tutto ciò è soltanto una grande “balla”, un miraggio per deficienti, una “illusione” insulsa per preti, suore, gente esaltata. Ma noi, in cuor nostro, sappiamo con certezza che non è così, che mentono, che i poveri illusi sono proprio loro!
Infine Gesù conclude, rivolgendosi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti” (Lc 14,12-14).
Anche qui Gesù parla in parabole: è chiaro che se festeggiamo un Battesimo, una Prima Comunione o un Matrimonio, non dovremo di certo invitare chiunque incontriamo per strada! Non è questo che Gesù vuol dire. Noi continuiamo pure ad invitare soltanto i nostri amici, i nostri parenti, i nostri fratelli. Il principio fondamentale che Gesù vuole qui trasmetterci è che non dobbiamo impostare i nostri rapporti secondo il famoso “do ut des”, io ti faccio dono di qualcosa per avere da te un contraccambio. Questo è un modo distorto, riduttivo, meschino, di concepire i rapporti interpersonali, poiché le persone vengono scelte esclusivamente sulla base di ciò che potrebbero offrirci in cambio, dell’utile che potremmo ricavarci dalla loro frequentazione. I gruppi mafiosi, le potenti “caste”, si fondano proprio su questo principio. Bisogna invece, come dice Gesù, creare una convivenza basata esclusivamente sui valori, sui sentimenti, e non sull’interesse: “Ti aiuto non perché so che anche tu puoi fare altrettanto con me, ma esclusivamente perché ne hai bisogno. Ti invito a cena non perché sei una persona importante, ma unicamente perché ti voglio bene”. Dobbiamo creare relazioni, rapporti, amicizie, basati sull’amore, sulla carità, sulla bontà di cuore, non sull’egoismo, sull’interesse, non sulla base dell’utile che possiamo ricavare.
Il vangelo lo sottolinea espressamente: “Sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,14). La gioia, la felicità, nasce solo dall’amore, dalla gratuità. Noi tante volte ci lamentiamo di essere infelici: ebbene: se veramente lo siamo, vuol dire che nella nostra vita non siamo sufficientemente generosi, disinteressati, non ci comportiamo cioè con vero, autentico amore: e allora, conoscendone la causa, se vogliamo vivere spensierati e gioiosi, sappiamo già come comportarci. Amen.


domenica 10 agosto 2025

24 AGOSTO 2025 – XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 13,22-30 
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

Gesù continua il suo cammino verso Gerusalemme. Una annotazione, questa del camminare di Gesù, che ci viene sottolineata, non a caso, con una certa insistenza. Ciò che ci deve far meditare non è tanto il fatto materiale del muoversi, quanto il riferimento ad un continuo e progressivo avanzamento sulla via della perfezione. Se non notiamo alcun progresso spirituale, vuol dire che non camminiamo, non ci muoviamo, siamo fermi: e se siamo fermi, non andiamo da nessuna parte. E mentre le persone “vive” camminano, si muovono, cambiano, divengono, si trasformano, scelgono, le persone “morte”, al contrario, rimangono fisse, stabili, si irrigidiscono, si intestardiscono, si impuntano.
Ci siamo mai chiesto perché il Signore dica ai suoi: “Seguimi”? Perché il “seguire” comporta necessariamente un costante avanzamento. Non si può seguire il Signore e rimanere fermi, rimanere sempre gli stessi, fossilizzati sulle stesse idee, sugli stessi schemi mentali, sugli stessi punti di vista.
Chi si giustifica dicendo: “Hanno sempre fatto tutti così!”, vuol dire che nella propria vita non si è mai posto alcuna domanda, non ha mai cercato soluzioni alternative più appropriate, più attinenti al suo personale stato di vita, al suo particolare percorso di sequela.
Vuoto immobilismo: è questo il motivo per cui la gente è triste e insoddisfatta: perché, ripiegata su se stessa, non ha idee, ripete passivamente, senza alcun entusiasmo, le stesse cose; non si sforza di rinnovarsi, di andare al massimo, di trarre il meglio da sé stessa, di costruire il suo esclusivo percorso: il suo massimo impegno è quello di adeguarsi alla mediocrità altrui. Ma così facendo rinuncia ad essere sé stessa, si lascia trascinare supinamente dal pensiero della massa, senza alcun discernimento critico, senza alcun apporto individuale. 
Vogliamo, a questo riguardo, fare una verifica sulla nostra situazione personale? Vogliamo sapere se siamo veri discepoli del Signore, in continua tensione? È molto semplice: è sufficiente controllare se la nostra fede, il nostro credere, le nostre preghiere, il nostro comportamento nei confronti di Dio e del prossimo, sono gli stessi della nostra infanzia: se è così, vuol dire che il nostro cammino cristiano è rimasto allo stadio infantile; non siamo cresciuti, siamo rimasti fermi ai primi passi; vuol dire che gran parte della nostra vita è passata inutilmente. Se a quarant'anni la nostra coscienza ci rimprovera ancora: “Bugie, parolacce, preghiere dimenticate, disobbedienze”, vuol dire che siamo ancora ai nostri otto anni, alla prima comunione! Dal punto di vista spirituale siamo rimasti immobili, immaturi; non siamo cresciuti per nulla.  
“Seguire” il Signore vuol dire non trovarsi mai allo stesso punto del giorno prima; vuol dire immettersi in un processo di cambiamento continuo, di continua trasformazione, di continua conversione. L’anima è vitale. E la caratteristica essenziale della vita, è appunto quella di crescere, cambiare, evolvere, andare avanti, camminare.
Mentre Gesù dunque percorre la sua strada, un uomo gli pone una domanda: «Sono pochi quelli che si salvano?». Una domanda chiaramente superficiale, di uno che parla tanto per dire qualcosa, per far notare la sua presenza; una domanda sul tipo di quelle comunemente poste nelle interviste di oggi, fatte con l’intenzione di creare qualche “scoop” da dare in pasto allo “spettegolio” quotidiano. Ma Gesù non gli risponde, non gli interessa soddisfare questo tipo di curiosità. Non è questo il punto! A Lui preme piuttosto sottolineare l’impegno che ciascuno deve mettere per raggiungere la propria salvezza: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti non ci riusciranno...; allora comincerete a bussare... e vi risponderà... allontanatevi da me...». L’importante non è sapere quanti sono quelli che si salvano, bensì se noi abbiamo le prerogative per essere tra quelli!
Pensiamo quindi a noi stessi; concentriamoci piuttosto sulla nostra di salvezza. Più parliamo a vuoto, più spettegoliamo sulla vita degli altri, meno riusciremo a concentrarci su come vivere correttamente la nostra di vita. Il problema non è se gli altri si salveranno o no: il problema vero è se noi riusciremo a salvarci!
Un problema serio. Anche perché la situazione che Gesù ci presenta qui è molto dura, forte, drammatica. Non sono ammessi sconti, non vengono fatte preferenze. Il Dio che ci viene presentato oggi è decisamente un Dio diverso dal padre buono, dal buon samaritano, dal buon pastore, dal padre che aspetta il ritorno del figlio prodigo, dal padre che ci cerca, che ci ama alla follia, che ci perdona ogni cosa, che accoglie tutti a braccia aperte. È un Dio “intransigente”, che va temuto e rispettato. Quando quelli rimasti “fuori” gli dicono: “Signore aprici!”, Egli non ha esitazioni o ripensamenti: “Non vi conosco, non so di dove siete…
Una risposta terribile, tremenda, che ci porta però all’esatta interpretazione della situazione, ci offre un insegnamento per noi estremamente importante: non è Dio che ci rifiuta, che ci condanna: unici responsabili siamo noi! Egli nel crearci ha impresso in ciascuno di noi, con la sua somiglianza, la nostra esclusiva, inimitabile, identità personale. Ma se noi, strada facendo, alteriamo i nostri lineamenti sovrapponendo, alla “somiglianza” con Lui, tutta una serie di maschere, come quella dell’orgoglio, del potere, dell’arroganza; quella del superuomo che calpesta i deboli, i miseri, i poveri; quella di chi usa violenza, convinto di poterselo permettere; se insomma preferiamo stoltamente di deformare le nostre sembianze originali, divine, semplici ed aggraziate, indossando maschere che ci deturpano e ci rendono irriconoscibili, è naturale che nel presentarci a Lui, Dio ci ignori: “Non vi conosco. Allontanatevi da me voi tutti operatori di iniquità!”. Chiaro? “Operatori di iniquità!”. Ma come è possibile? Proprio noi che ci consideriamo perfetti? Noi, i “grandi”, i “sapientoni”, gli esperti di chiesa, di fede, di vangelo? Proprio noi, cattolici “adulti”, impegnati nel sociale e nelle catechesi? Ebbene sì! Siamo proprio noi, che ci sentiamo dire: “fuori!”, “esclusi!”. Altro che premio e accoglienza gloriosa: noi, gli orgogliosi discepoli “duri e puri”, siamo destinati al “pianto e stridor di denti!”. Quelli invece che noi deridiamo, quelli che disprezziamo, quelli che giudichiamo insignificanti, una nullità, delle “mezze tacche”, sono loro ad essere accolti nell’amore e nella gloria di Dio.
Beh, è questa l’esatta spiegazione del Vangelo di oggi, che noi, nella nostra ottusa e presuntuosa superiorità, ci ostiniamo a sfuggire, ad ignorare! Allora, prima che sia troppo tardi, facciamo in modo di esaminare quanto prima, alla luce esatta della prospettiva evangelica, l’intera nostra personale situazione.
È vero, quella di oggi è un’immagine di Dio di forte impatto emotivo, tipica però dello stile e della cultura del tempo. Immagine tuttavia che, ripeto, non deve farci pensare erroneamente ad un Dio prepotente e crudele, uno dalla condanna facile e immotivata; un Dio irremovibile, che decide in maniera drastica: “O fate come dico io, oppure la condanna è assicurata!”. Nossignori: Dio non è vendicativo. Quello che vuol sottolineare qui il testo è che la condanna finale non dipende da Dio, ma è semplicemente il risultato delle nostre premesse, una conseguenza logica del nostro comportamento; c’è insomma un rapporto di causa-effetto: nel senso che siamo noi gli unici artefici della nostra sorte; tutto quello che facciamo ha delle conseguenze: ecco perché dobbiamo stare attenti; ecco perché dobbiamo evitare le scelte di “non scegliere”, di vivere senza mai porsi delle domande, un vegetare soltanto, un appiattirsi acriticamente alla massa; perché alla fine, tutto ciò determinerà un giudizio negativo.
Immaginiamo due facce della stessa medaglia: da un lato c’è Dio che è grande, misericordia infinita, pronto ad accogliere ogni creatura; un Dio innamorato che tende le sue mani verso di noi. Dall’altro ci siamo noi, e anche noi dobbiamo tendere le nostre di mani verso di Lui. Se noi non lo facciamo, per quanto Lui si protenda, non potrà mai esserci un incontro, non ci sarà mai quella “presa” che ci salva. Per cui se manchiamo la “presa” la colpa non è di Dio: è solo nostra, dei nostri movimenti disordinati. Non è di Dio che dobbiamo aver paura. È di noi stessi che non dobbiamo fidarci, del nostro agire fuori regola, del ritardo delle nostre risposte, delle nostre mancate reazioni, della nostra eccessiva sicurezza, della nostra irrazionale incoscienza. Solo noi siamo gli unici responsabili di noi stessi, della nostra salvezza. Nessun altro.
Ecco perché dobbiamo “camminare”, dobbiamo “crescere”, dobbiamo fare necessariamente delle scelte, dobbiamo “entrare” in certe situazioni, affrontare certe paure. E dobbiamo farlo per tempo, perché ci sarà un momento in cui sarà troppo tardi, un momento in cui non potremo più fare nulla. Allora non Dio, ma la nostra stessa coscienza ci dirà: “Dovevi pensarci prima! Adesso è troppo tardi, sei irriconoscibile, impresentabile! Non è una punizione divina, ma la semplice conseguenza delle tue libere scelte, del tuo agire”.
Sforzarsi”, in greco agonizomai, significa letteralmente “lottare, combattere, gareggiare”.
“Agon” era il luogo della lotta, dei combattimenti, delle gare; “Agonia” è l’ultima estrema terribile lotta che ognuno deve affrontare uscendo da questa vita.
Un verbo che implica delle difficoltà. Nessuno dice infatti che tale situazione sia facile; ma è giocoforza affrontarla, dobbiamo passarci dentro, perché è quella l’unica porta attraverso cui tutti dobbiamo transitare. Una circostanza che incute certamente paura; forse ci farà anche piangere, creerà tensioni, vere lacerazioni interiori. Ma se la ignoriamo, se la lasciamo lì, se facciamo finta di nulla, verrà un giorno in cui sarà troppo tardi, in cui non potremo farci più niente.
Molti, come ho detto, penseranno: “Ma io sono già cristiano: io prego; vado in chiesa tutte le domeniche; non ho mai fatto male a nessuno; mi sono sempre comportato bene; sono sensibile e amo la natura; non rubo a nessuno, faccio le mie elemosine, non sono disonesto”. Giusto: ma è evidente che tutto questo non è sufficiente: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Che “tradotto” vuol dire: “Come mai proprio noi siamo rimasti fuori? Eravamo là con te, abbiamo ascoltato le prediche dei tuoi preti, abbiamo mangiato il Pane tutti insieme!”. Evidentemente questo da solo non basta; significa che abbiamo fatto queste cose rimanendo comunque “fuori” dalla nostra anima; non siamo cioè “entrati dentro” di noi; e da fuori non abbiamo udito la voce di Colui che ci aspettava all’interno, nella nostra coscienza, non abbiamo percepito i suoi richiami, la sua voce paterna, l’offerta della sua amicizia: ci siamo accontentati dell’esteriorità, dell’apparire, lasciandolo nella più completa solitudine. Non abbiamo voluto attraversare quella porta “stretta” che ci introduceva alla fonte vera della Vita, quella porta che ci metteva in contatto intimo con Dio. In pratica, non avendo ascoltato le sue Parole, non le abbiamo neppure messe in pratica.
Purtroppo se continueremo ad ascoltare il mondo, a seguire la sua mentalità, continueremo a trascurare la nostra crescita spirituale; e continuando a vivere fuori di noi, fuori dalla “nostra” casa, finiremo col perdere la “Casa” stessa! È una eventualità che non va sottovalutata!
In conclusione, che ci piaccia o no, che sia doloroso o no, il punto importante è uno solo: c'è una benedetta porta stretta da oltrepassare, per entrare alla presenza di Dio. O ci decidiamo a farlo in fretta, indossando il nostro “vestito” migliore, oppure rimarremo per sempre esclusi, fuori da una porta che altrimenti rimarrà per noi irrimediabilmente chiusa. È una decisione che noi soltanto possiamo prendere! Amen!

 

17 AGOSTO 2025 – XX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 12,49-53 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione. D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera». Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: Viene la pioggia, e così accade. E quando soffia lo scirocco, dite: Ci sarà caldo, e così accade. Ipocriti! Sapete giudicare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete giudicarlo? E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?».

Il vangelo di Luca pone oggi in bocca a Gesù delle espressioni particolarmente dure. È un linguaggio drastico, estremo, denso di previsioni drammatiche: i concetti di “fuoco”, di “divisione”, di “tutti contro tutti!” decisamente non sembrano appartenere al suo stile. Cosa significa tutto questo? Gesù, come al solito, è chiaro: chi lo vuol seguire deve sottoporsi a scelte radicali, risolutive, contrastanti: scelte che comportano una vita completamente “nuova”, diversa da quella di prima; la sua sequela richiede la morte dell’uomo vecchio, quello incentrato su sé stessi, e la nascita dell’uomo nuovo, quello che ci fa vivere da figli di Dio. 
Un cambiamento che, prima per i discepoli e poi a seguire per tutta la Chiesa, è stato sempre motivo di una profonda discriminazione da parte del mondo. I cristiani di ogni tempo sono sempre stati considerati all’opposizione, “dall’altra parte”, incompresi, osteggiati... Anche oggi, coloro che fanno scelte radicali per il vangelo, continuano ad essere apertamente derisi; il mondo, con la sua logica edonistica, si diverte a dimostrare in tutti i modi l’insensatezza delle loro scelte, anche se talvolta sono eroiche: le svilisce, le disprezza, le ridicolizza. Un comportamento, questo del mondo, che non ci deve né meravigliare né abbattere: Gesù l’aveva previsto; e le parole del vangelo di oggi anticipano proprio questa situazione di ostracismo e di divisione. 
Scegliere di vivere coerentemente il vangelo non è mai stata, e non lo sarà mai, una decisione facile, capita e condivisa dai più; lo abbiamo già visto: quando Gesù stesso ha cominciato a parlare chiaro, quando ha cominciato a fare sul serio, tutti sono scappati; le folle, così numerose nello sfamarsi gratuitamente, improvvisamente si sono diradate. Non dobbiamo quindi meravigliarci se anche noi, quando facciamo sul serio, quando seguiamo letteralmente i suoi insegnamenti, facciamo terra bruciata intorno a noi: diventiamo automaticamente “pietra d’inciampo”, segno di “contraddizione”; in una società dell’immagine e del consumismo come quella in cui viviamo, il vangelo con i suoi precetti non può che essere ostico, difficile da seguire, in quanto spezza sul nascere ogni logica di profitto, di successo personale, di carrierismo; è insomma decisamente “scandaloso”! 
Le parole di Gesù sono esplicite, solari: “non sono venuto a portare la pace, ma la divisione”. Egli non è venuto a portare il quieto vivere, il sonno tranquillo delle coscienze; non è venuto a giustificare una storia umana che continua a rotolarsi nelle ingiustizie e nelle ignobili perversioni; Egli è venuto a portare piuttosto “guerra”, “divisione”, un “distacco” obbligato dal male; ha portato un “conflitto” interiore; una chiara presa di coscienza di tutto ciò che non va bene, di ciò che ferisce l’uomo, la sua anima, il suo cuore; una “scelta” necessaria tra ciò che dobbiamo mettere al primo posto (Dio) e ciò che, per quanto importante, deve comunque rimanere secondario (tutti gli altri valori). 
Le persecuzioni subite dai profeti (come Geremia), ci insegnano questo; questo ci insegna la lettera agli Ebrei, quando dice: “È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non è corretto dal padre?” (Eb 12,7). È chiaro? “Resistere contro il male fino al sangue”, fino al martirio: questo praticavano i primi cristiani, altro che stancarsi e accantonare tutto come succede a noi! 
La Parola di oggi, insomma, ci pone di fronte ad una prospettiva decisamente lontana dal nostro stile di vita: noi, con tutta la nostra cultura, non siamo ancora in grado di stabilire ciò che è in assoluto bene o male; ciò che è giusto o ingiusto: oppure lo sappiamo anche ma, per quieto vivere, ci comportiamo come se non lo sapessimo, non ci esprimiamo. Preferiamo stare dietro le quinte. Abbiamo timore di quello che potrebbe pensare la gente! Lasciamo volentieri che sia chiunque altro, ma non noi, a parlare con impegno e convinzione a questa nostra società, di “salvezza ultima”, di “testimonianza religiosa”, di “fede in Dio e nella Chiesa”, di “principi morali inalienabili”. Noi ci nascondiamo: un po’ come fanno certi preti, certi frati, certi religiosi che si “mimetizzano” tra la folla, vergognandosi addirittura di indossare una veste, “una divisa” che li distingue dagli altri, li identifica, costringendoli a mantenere di fronte a tutti un comportamento “superiore”, “convinto”, da “consacrati”, apertamente “coerente” con la fede che predicano. Meglio l’anonimato, molto meno impegnativo…
Ma non è questo che Gesù vuole: perché tutti gli uomini sono dei “chiamati”. Per cui ciascuno di noi, singolarmente, deve impegnarsi: ciascuno di noi, in prima persona, senza paura, deve trasformarsi in “scandalo” della Verità: perché la verità non piace al mondo, riesce inopportuna, indigesta. Ci sono verità, lo sappiamo, delle quali la nostra società contemporanea si scandalizza: e per questo le contrasta, le combatte. E allora? Non taciamole queste verità, affrontiamole, parliamone, ripetiamole all’infinito, continuamente, in forme diverse, umilmente ma fermamente, con la semplicità e la convinzione che Lui, Verità assoluta, ci suggerisce. Diciamole in pubblico e in privato. Diciamole tutti, indistintamente: sacerdoti, educatori, catechisti, teologi, vescovi, padri di famiglia. Scandalizziamo sul serio la nostra distratta società con le verità fondamentali della nostra fede e della morale cattolica! Perché solo così la verità “ci farà liberi”. 
L’uomo non è libero di essere “ciò che vuole”, ma è libero di essere Verità, l’essenza del suo essere. La libertà non è un assoluto: fa riferimento alla verità, che di per sé stessa ci attrae e ci affascina. Laddove c’è verità c’è libertà, e dove non c’è verità, c’è inevitabilmente schiavitù. Cerchiamo la verità? Viviamo la verità? Amiamo la verità? Custodiamo la verità? Difendiamo la verità? Allora possiamo dire di essere autenticamente liberi: anche se siamo rinchiusi tra le quattro mura di una prigione o se siamo considerati “materiale inutile” dalla società in cui viviamo. O forse abbiamo paura della verità, della sua forza soggiogante? In un mondo dominato dal relativismo, le verità assolute fanno paura, è vero. Ma noi non dobbiamo correre il rischio di fare di questo relativismo un principio assoluto. Perché aver paura della verità, è aver paura di essere sé stessi, è aver paura di essere coerenti, è lasciarsi dominare dalla legge della maggioranza, è perdere la propria dignità intellettuale, la propria personalità. Ripeto: è la verità, solo la Verità, che ci farà liberi. Non dubitiamo mai di ciò: perché questa è l’esperienza degli uomini di Dio, i grandi della terra!
Dio si racconta, si rivela, si avvicina all’uomo, si offre di aiutarlo. Siamo discepoli di un Dio che per amore non ci lascia mai rilassati, paghi delle nostre certezze, trincerati nelle nostre tiepide devozioni, soddisfatti di appartenere ai nostri esclusivi gruppi di spiritualità: siamo infatti discepoli di un Dio che ci scuote, che ci brucia dentro, che ci spinge al di fuori, nel mondo: e noi che facciamo? Troppo spesso gli rispondiamo con sufficienza: “No, grazie!
Allora, con grande onestà, è proprio il caso di chiederci: “ma noi, lo ascoltiamo veramente questo Dio che ci parla dentro, che brucia con le sue parole il nostro cuore, la nostra anima? Questo Dio che ci infiamma a tal punto da non poterci esimere dall’annunciarlo, dal parlare di Lui con chiunque avviciniamo? Siamo pronti a difenderlo nelle discussioni con quanti lo negano e lo disprezzano? Non importa se per le nostre convinzioni, per i nostri comportamenti deridono e disprezzano anche noi! È normale: e se non lo fanno, vuol dire che le nostre argomentazioni non lo meritano, vuol dire che la nostra vita non è coerente con le nostre parole, vuol dire insomma che la nostra realtà di cristiani, la nostra testimonianza, è talmente insignificante e priva di mordente che nessuno si accorge di noi; viviamo cioè da cristiani “tiepidi”! Ma attenzione, perché proprio per questo nostro essere “né freddi, né ferventi”, rischiamo di essere “vomitati” da Dio, esattamente come ci dichiara la Scrittura in termini drammatici (Ap 3,16).
Mai dimenticare allora che dobbiamo essere autentici “discepoli” di Cristo: è Lui infatti che ci ha chiamati al suo seguito, per essere come Lui “Verità”, veri rivoluzionari dell’Amore, autentici incendiari del Vangelo: gente che scuote, che infiamma il mondo; gente che, senza alcun timore reverenziale, annuncia e professa di fronte a tutti i popoli il proprio Dio, Padre misericordioso, per collaborare con Lui alla completa realizzazione del suo Regno celeste su questa terra! Amen.