venerdì 29 agosto 2025

07 SETTEMBRE 2025 – XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 14,25-33 
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo». 
 

Siamo anche questa domenica nel capitolo 14 del vangelo di Luca. Gesù sta proseguendo nel suo cammino verso Gerusalemme. C’è molta gente con lui: persone entusiaste dei suoi discorsi e delle sue opere straordinarie. Lo seguono materialmente, senza sapere esattamente cosa voglia dire, cosa comporti, “seguire” Gesù. 
Essere semplicemente “entusiasti” del personaggio Gesù, e “seguirlo concretamente con la propria vita”, sono due cose molto, ma molto, diverse: un conto infatti è ammirarlo, un altro è seguirlo, perché “seguire” Gesù è una cosa seria, significa giungere a conclusioni difficili, operare scelte spesso dolorose, significa mettersi completamente in gioco, andare là dove magari non vorremmo proprio andare.
Per sottolineare l’importanza delle parole che Gesù rivolge a quelli che lo seguono, Luca scrive che “si voltò”, usando qui la forma verbale “strafeis” (Lc 14,25). Ora, il verbo greco “strefo”, “girarsi”, ha una connotazione severa, un “voltarsi indietro” con piglio deciso, con risolutezza, con l’espressione di chi vuole mettere in chiaro le cose una volta per tutte. Non è un parlare del più e del meno tra amici, tra compagni di viaggio. Qui Gesù ha insegnamenti fondamentali da comunicare. Cerchiamo di immaginare la scena: c’è Gesù che cammina davanti a tutti, determinato, con lo sguardo fisso davanti a sé, concentrato su quanto lo aspetta a Gerusalemme, sulla sua morte in croce, la sua apoteosi d’amore, ormai imminente. Vi sono poi quelli che lo “seguono”: i quali però cominciano ad accusare la stanchezza e qualcuno inizia a mugugnare, a brontolare, lagnandosi della situazione. Un borbottio che progressivamente si espande, cresce, distogliendo Gesù dai suoi pensieri: a questo punto Egli si gira bruscamente, e fissando in volto quanti lo stanno seguendo, esclama: “Volete seguirmi? Volete veramente vivere come me, volete vivere da vivi e non da morti? Allora abbandonate tutto: ricchezze, amori, famiglia; solo così sarete liberi!”. Non c’è altra possibilità. Parole schiette, che vogliono dire: “Se vi ponete un obiettivo da raggiungere, dovete continuare a “camminare” con tutte le vostre forze, con tenacia, serietà, costanza, finché non lo avrete raggiunto; niente vi deve fermare: se credete in qualcosa, se qualcosa vi ha fatto vibrare il cuore, vi ha ridato vita, vi fa vivere, non fatevi distogliere da nulla, neppure dagli affetti più cari; non fatevi scoraggiare da nulla, neppure dal dolore, dalla sofferenza, dalle più profonde incomprensioni”.
Parole che ci raggiungono tutti in maniera diretta: quante volte capita infatti anche a noi di iniziare con entusiasmo un certo percorso, salvo poi abbandonare tutto alla prima difficoltà: “È troppo difficile! Non fa per me”. Sissignori, è vero: nella vita tutto è difficile, ma se ci mettiamo impegno, tutto diventerà più facile! Dobbiamo capire che se alla prima contrarietà ci fermiamo, se perdiamo la voglia di lottare, di faticare, di sfidare le avversità, di “tenere”, perdiamo tutto, anche quel poco che avevamo conquistato, e ci sarà impossibile raggiungere qualunque obiettivo. Diventiamo insomma come il sale senza sapore: insipidi, anonimi, insignificanti, inutili.
E qui Gesù, in tono grave e solenne, pronuncia quelle parole così difficili da capire: “Se uno mi segue e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (14,26).
Effettivamente, se questa frase non fosse scritta nel vangelo, e non fosse scritta proprio così (non addolcita come nella versione CEI: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre ecc.”), difficilmente potremmo attribuirla a Gesù. Ma dice veramente che dobbiamo odiare, padre, madre, fratelli, moglie e figli? Sì, sono le sue parole esatte. Ma possibile che abbia usato proprio il verbo “odiare”? Sì, il verbo usato, “miseo”, in greco, significa esattamente odiare, detestare, disprezzare. Ma cosa intende veramente Gesù con questa frase? Beh, prima di tutto, e in nessun caso, Egli ci invita all’odio: il suo invito, la sua raccomandazione, non è di “odiare”, di nutrire sentimenti di disprezzo, di malanimo, di vendetta, nei confronti delle persone che addirittura ci amano più di ogni altro; anzi: dobbiamo sempre ricambiare il loro amore, dobbiamo ringraziarle, essere loro riconoscenti per l’amore che ci donano, poiché nulla, vita compresa, ci è dovuto! Gesù qui si riferisce “non” ad un “sentimento”, ma ad un ipotetico “comportamento”, ossia ad un modo di agire, di vivere “come se”; un modo cioè che ci renda veramente “liberi” da ogni coinvolgimento o “distrazione”. Per farsi capire ha dunque usato parole dure, forti (come “odiare” ciò che abbiamo di più caro), ma l’ha fatto solo per chiarirci quanto sia determinante, quanto sia essenziale, per chi lo vuol seguire, per chi vuole essere suo discepolo, affrancarsi da ogni cosa, rendersi completamente “libero” per Lui. Perché quando siamo troppo legati emotivamente, troppo dipendenti, succubi di qualcuno o di qualcosa, finiamo inevitabilmente col perdere di vista Gesù, di anteporre, cioè, qualcuno o qualcosa alla Sua chiamata, alla nostra vocazione, alla nostra missione vitale, che è appunto quella di seguirlo.
Quindi Gesù prosegue e puntualizza: “Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo” (Lc 14,27).
Un’altra frase che può prestarsi ad inesatte interpretazioni: tante persone sono convinte infatti che “croce” equivalga a soffrire, patire, penare. Sentiamo la gente che ad ogni difficoltà ripete: “Questa è la mia croce! Ognuno ha la sua; il Signore a me ha dato da portare questa!”. Noi stessi con l’espressione “portare la propria croce” alludiamo alle varie sofferenze e contrarietà della vita, come malattie, inconvenienti, paure, incidenti, separazioni, dolori, ecc., convinti che sia Dio stesso a mandarcele, per purificarci, per convertirci, per verificare quanto sia autentica e forte la nostra fede.
Ma non è esattamente questo che ci dice il Vangelo. Nel Nuovo Testamento il termine greco “stàuros”, croce, appare 73 volte, e mai, ripeto mai, questa parola include il significato di “tribolazione, castigo”. La prima volta che “croce” viene interpretata come “sofferenza, pena, castigo”, avviene nel V secolo, in una preghiera cristiana. Ma siamo nel V secolo!
Sempre nel Nuovo Testamento, per dire “prendere, portare la propria croce”, gli evangelisti non usano mai verbi come “fèro” o “dèchomai”, che indicano un “portare” passivo, una costrizione, un subire, un dover accettare o prendere qualcosa che è imposto con la forza. I vangeli usano verbi come “lambàno”, “prendere” volontariamente, o “bastàzo”, “sollevare”, con cui Giovanni indica il movimento di Gesù che, condannato a morte, prende volontariamente, si carica spontaneamente sulle spalle, la croce patibolare. Un gesto libero, di grande responsabilità, fortemente voluto.
Per questo Gesù introduce qui il discorso in maniera ipotetica: “Se uno viene a me...”. Perché “prendere la croce” non è obbligatorio per tutti! È solo per chi lo vuole! È solo per chi ha scelto liberamente di seguire Gesù.
Non significa poi, come ho detto, dover subire passivamente, da rassegnati, obtorto collo, le sofferenze, le disgrazie, le malattie, i dolori che la vita ci riserva; ma vuol dire accettare gioiosamente, volontariamente, e quindi liberamente, qualunque contrarietà come conseguenza della nostra adesione a Cristo, ivi compresa la progressiva distruzione da parte del mondo della nostra personalità, delle nostre scelte, della nostra reputazione: “Sarete odiati da tutti a causa mia!”.
La croce altro non è quindi che l’accettazione delle discriminazioni che ci vengono imposte per la nostra determinazione di voler vivere il “Regno di Dio” già su questa terra: un vivere, in altre parole, “come ha fatto Gesù”, comportarsi cioè “alla Gesù”, stravolgendo i valori tradizionali del mondo e del pensiero comune: come per esempio “accumulo” con “condivisione, compartecipazione”, “prestigio personale, egoismo” con “uguaglianza, equità”,sopraffazionecon “servizio”. Solo se avremo un cuore veramente libero dalle pastoie del mondo, potremo infatti amare veramente Dio e il prossimo, metterci umilmente a servizio degli altri, disinteressandoci del giudizio della gente: perché perdere la loro stima non significa perdere la nostra dignità: spesso, anzi, proprio per non perdere la dignità, dobbiamo rinunciare ai riconoscimenti del mondo! Amen.

 

 

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