Tutti gli esegeti concordano nel non attribuire personalmente a Gesù queste parole. Costituiscono
invece una “esortazione” che riflette in maniera molto chiara e realistica la
situazione che si è venuta a creare dopo la sua morte, nei primi anni di vita
della Chiesa. In quel momento particolare Lui non c’è più: spetta perciò ai
suoi discepoli (i settantadue) sostituirlo nella predicazione, assicurando così
a tutto il mondo l’annuncio del suo messaggio. Quindi niente di più ovvio per Luca,
che far risalire questa “esortazione”, questo mandato ufficiale, a Gesù stesso,condensando
in essa le ripetute sollecitazioni di Gesù fatte in tal senso.
Sono parole,
quindi, legate ad un periodo di tempo successivo a Lui. Esse infatti esprimono una
necessità, uno spirito nuovo, un’attenzione del tutto particolare per una
realtà contingente: c’è un bisogno urgente di nuovi apostoli, perché “la messe è molta, ma gli operai sono pochi”.
C’è bisogno di operai, di uomini di Dio, ben più numerosi dei pochi che Gesù
aveva lasciato alla sua partenza da questo mondo: uomini in grado di mettere in
pratica il suo esempio, soprattutto di parlare al cuore della gente. Per la
loro missione non servono discorsi asettici, dottrinalmente perfetti; non
devono dimostrare la bellezza, l’importanza, il valore del Risorto; le loro
parole devono semplicemente riscaldare il cuore della gente, devono indurla ad
amare Colui che per amore ha sacrificato la propria vita.
In
particolare questi nuovi “settantadue”, qualunque sia la loro destinazione, devono
imitare il loro Maestro, devono guarire come lui le malattie, e annunciare: “Il regno è qui, in mezzo a voi”. Non devono
porsi come giudici, dicendo “Tu devi fare così; tu sei in peccato; tu sbagli;
il Signore ti punirà; non sei un bravo cristiano!”. Devono invece presentarsi
come consolatori degli afflitti, guaritori degli animi in difficoltà: “Tu sei
ammalato nel tuo cuore, ma se lo vuoi, puoi guarire”.
Il
mondo è pieno anche oggi di persone malate nell’anima, persone che pensano di
essere vittime di qualche disfunzione fisica, e non trovano dottori in grado di
guarirle. Continuano ad affidarsi all’onnipotenza della medicina del corpo, e
non si rendono conto che la loro è una malattia dell’anima, non capiscono che
per guarire devono affidarsi alle cure di un’altra medicina, quella dello
Spirito, che sola può fornire loro la Vera Forza, la Vera Guarigione.
Ecco
perché, anche oggi, abbiamo tanto bisogno di “medici” dell’anima, che facciano
riscoprire la presenza di Dio in ognuno di noi, che facciano capire che la Forza
per guarire è dentro di noi, nel nostro cuore, nella nostra anima. Abbiamo
bisogno di “medici” che ci insegnino a pregare, che facciano riemergere la nostra
spiritualità, la nostra fede, la nostra coscienza, che alimentino il nostro
cuore col Pane del cielo, che dissetino la nostra anima con l’acqua sorgiva del
perdono, restituendoci la pace interiore del giusto. Per l’uomo è fondamentale guarire
nello spirito, perché uno spirito, una psiche malata, contagia, infetta,
indebolisce anche il corpo: quindi da dove proviene la malattia, di là deve arrivare
anche la guarigione.
Quando
ci ammaliamo, allora, il problema non è trovare la compressa giusta o
l’antibiotico specifico: dobbiamo invece guarire lo spirito contaminato, dobbiamo
cambiare vita, dobbiamo ritrovare la “forza” perduta, riscoprire in noi la Vera
Sorgente della salute.
Ma per
fare ciò dobbiamo mettere in atto una cura preventiva: analizzare
minuziosamente e controllare i nostri sentimenti.
Così
per esempio l’odio, la collera, l’ira: se continuiamo ad alimentare, a covare questi
impulsi contro chiunque in qualche modo ci abbia offeso, non ne verremo mai
fuori, imploderemo dentro. Vogliamo vivere sempre così? È un non vivere: allora
tiriamo fuori il nostro dolore, la nostra collera, magari urliamo: ma poi
affidiamoci completamente al nostro Medico Misericordioso, e “andiamo avanti”: questo
è il nostro “mondo” da evangelizzare.
La
paura: se non abbiamo fede in Dio, se non abbiamo fiducia in noi stessi, le nostre
paure ci divoreranno. I nostri mostri diventeranno realtà e ci sbraneranno. Siamo
schiavi di complessi che ci condizionano l’esistenza? Abbiamo paura di non
essere brillanti, di parlare in pubblico, di fare brutta figura, di venire
derisi per quello che diciamo? Abbiamo paura di un attacco di panico? Paura
degli spazi chiusi? Paura che gli altri vedano le nostre insicurezze, che abbiamo
le mani che sudano, che arrossiamo per un nonnulla? Siamo fiduciosi e
lanciamoci: Dio ha fiducia in noi:perché anche noi non l’abbiamo? Il nostro “regno”
da conquistare è anche questo.
La
vergogna: se non c’è amore, se ce la teniamo dentro, viviamo con un macigno nel
cuore.
Vogliamo
guarire? Tiriamola fuori questa nostra vergogna: il “regno” è anche qui.
Il
senso di colpa: se non confidiamo nel perdono, è la fine. Sarà un continuo roderci
l’anima. Ma Dio è più grande dei nostri sensi di colpa, ben più grande dei
nostri errori. Guarire è poter chiedergli perdono e sentirci dire: “Adesso va
in pace e torna a vivere: questa è libertà; il regno di Dio ti aspetta”.
Un
particolare importantissimo da sottolineare: di fronte alla necessità di nuovi
operai, Gesù prima di tutto dice: “Pregate”, è vero; ma subito dopo aggiunge: “Andate!”.
Cioè: “Vai tu”.
La
gente in genere si ferma alla prima parola; e chiede: “Signore, ti prego, manda
qualcuno, fa’ che succeda qualcosa di nuovo nella tua Chiesa!”. Ma quando sente
la seconda, si tira subito indietro!
In
giro si fa un gran parlare di responsabilità, di collaborazione, di aiuto
concreto, di partecipazione generale ecc. ecc. Di fronte ad una grave necessità,
ci si ferma alle belle parole, alle buone intenzioni.
Ma “responsabilità”,
deriva dal latino “respondeo”, che vuol
dire “rispondere”: c’è una chiamata (“vocatus”, vocazione) e c’è la risposta
(responsabilità). Si diventa grandi, adulti, quando alla chiamata della vita rispondiamo
“sì”: questo è “responsabilità”.
Ci
lamentiamo perché la società di oggi fa schifo? Rispondiamo noi per primi; comportiamoci
sempre civilmente, anche nelle piccole cose, e diamo il buon esempio. Ci
lamentiamo perché in parrocchia si potrebbe fare molto di più? Rispondiamo in
prima persona: “Eccomi, sono a disposizione”, anche per i lavori più umili e
nascosti. Ci lamentiamo perché a scuola le cose non vanno bene? Coinvolgiamoci
noi personalmente, diventiamo rappresentanti di classe. Ci lamentiamo insomma perché
le cose non vanno come dovrebbero andare? Partiamo, scendiamo in campo, diamoci
da fare! Cosa facciamo noi invece? Nulla: ci lamentiamo, borbottiamo,
critichiamo, ma poi nulla. Vogliamo un mondo migliore? Benissimo, diamoci da fare!
La vita
ci chiama, Dio ci interpella direttamente: ha bisogno di noi. Egli ci ha a suo
tempo “chiamati” all’esistenza; ora si aspetta da noi una risposta. Ci ha visti
e ha detto: “Ho bisogno di te!”. E noi, cosa facciamo? Promettiamo? Preghiamo
perché mandi altri operai? Ma Dio non sa che farsene delle nostre promesse,
delle nostre preghiere, dei nostri omaggi e dei nostri fioretti. Dio vuole noi!
Certo
non è una cosa da prendere alla leggera. No, non sarà affatto semplice. Saremo come
agnelli che devono vedersela coi lupi. Infatti, nel mondo, se offriamo pranzi, se
organizziamo feste, se ossequiamo i potenti, se ci limitiamo ad accettare i
loro inviti a cena, in altre parole se non ci esponiamo troppo, se dimostriamo
di essere accomodanti, simpatici, aperti; se non facciamo sentire la nostra
voce contro certe sopraffazioni, sicuramente saremo accolti bene. Ma se portiamo
il vangelo come regola di vita, se denunciamo apertamente ogni ingiustizia,
allora, automaticamente, ci troveremo in mezzo a lupi rapaci, che tenteranno di
sbranarci in tutti i modi. È sempre stato così, sappiamolo; e prepariamoci!
Del
resto va bene così. Perché è allora che emerge il vero motivo che ci spinge da
dentro; in altre parole, se siamo mossi da motivazioni false, deboli, povere,
arriviamo subito alla conclusione: “Ma chi me lo fa fare?”, e lasciamo perdere,
desistiamo immediatamente. Ma se abbiamo motivazioni forti, se abbiamo il fuoco
nell’anima e la passione nel cuore, allora affrontiamo “il nemico” e andiamo
avanti per la nostra strada.
Una
strada che è lunga e faticosa da percorrere. Ecco perché dobbiamo essere “leggeri”.
Se abbiamo troppi interessi personali da difendere, siamo troppo legati, troppo
pesanti: liberiamoci dalla zavorra. Quando andiamo in montagna, abbiamo bisogno
di uno zaino il più leggero possibile. Se pesa troppo, finiamo per non riuscire
più ad andare avanti. “Non portate borsa,
né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada”.
Abbiamo
una missione da compiere, uno scopo ben preciso da raggiungere; andiamo quindi dritti
per la nostra strada. Non “salutiamo nessuno”: se ci fermiamo a parlare con
uno, ad ascoltare un altro, a salutare un terzo, sarà anche bello, ma non arriveremo
mai al nostro traguardo.
Dobbiamo
essere liberi e leggeri: solo così potremo viaggiare spediti. Se il benessere
materiale è l’arte di avere più che si può, la spiritualità è l’arte dell’avere
meno che si può.
Inoltre
dobbiamo essere rispettosi, caritatevoli, non imponiamo niente a nessuno. Se ci
accolgono in “casa”, nel loro cuore, bene! Allora entriamo e portiamo il nostro
annuncio. Se non ci accolgono, bene lo stesso; vuol dire che hanno già fatto la
loro scelta; non prendiamocela per questo, non offendiamoci, non facciamone una
questione personale, non sentiamoci rifiutati. Non siamo noi ad essere
rifiutati: essi rifiutano Gesù Cristo! È una loro libera scelta, che va rispettata:
saranno loro poi a doverla giustificare con Dio.
Avere
“rispetto”, dal latino “respicio”, vuol
dire “guardare indietro”. Il “rispetto” è come camminare in montagna: ogni
tanto dobbiamo voltarci indietro per vedere se i nostri compagni ci seguono, o se
sono in difficoltà; se non li vediamo, li aspettiamo. Rispettare vuol dire
tenere in considerazione le esigenze e le scelte dell’altro, anche se sono diverse
dalle nostre; rispettare è accettare che nella vita, oltre noi, ci sono anche
gli altri. Così, anche il sole, le piante, l’erba, l’acqua, gli animali, che sono
creature del mondo e di Dio, vanno rispettati. Tutto ciò che esiste merita di
esserci e di essere rispettato per il solo fatto che esiste.
Quando
uno parla, se lo rispettiamo, lo ascoltiamo, non lo interrompiamo. Lo lasciamo
dire tutto ciò che deve dire, senza dare segni di insofferenza; se lo rispettiamo,
non pensiamo che sia un deficiente, uno che non capisce nulla; non lo
interrompiamo pretendendo di avere noi ragione a tutti i costi; non gli ridiamo
in faccia se sbaglia qualche parola, o se è balbuziente. Insomma quando uno parla,
se lo rispettiamo, anche se per noi sbaglia, non dobbiamo giudicarlo a priori come
un cattivo cristiano, un deficiente, o un depravato; cerchiamo invece di ascoltare
il suo cuore.
Infine,
dovunque andiamo, dobbiamo portare la pace: “Pace
a questa casa”. Pace, “shalom” in
ebraico, indica tutto ciò che serve all’uomo per vivere dignitosamente;
pienezza di vita, benessere, felicità, appagamento. È tradotta in greco con “eirene” che indica benessere,
tranquillità, assenza di ogni dissidio. La pace nasce quando ci si accorda su
regole comuni. Se noi siamo sempre in guerra, dovunque andiamo, continuiamo a
fare dei morti. C’è della gente che dentro non ha pace, non è pacifica, è sempre
arrabbiata, ha la guerra nell’anima. Ebbene, queste persone sono un autentico problema
per tutti.
Noi oggi,
nella nostra missione, quando incontriamo le persone, in realtà cosa portiamo loro,
cosa diamo, cosa trasmettiamo? Alcuni di noi dicono: “Io sono sempre pronto per
gli altri; do tanto”. Sì, vero, ma cosa diamo? Non basta dare; l’importante è cosa diamo,
cosa trasmettiamo, qual è il messaggio che portiamo.
Dobbiamo
essere come i fiori: dovunque vengono messi, inondano l’ambiente con la loro fragranza;
perché il profumo è la caratteristica del loro essere fiori. Così anche noi. Se
nel nostro essere, se nel nostro cuore, regna la pace, dovunque andremo ne
lasceremo il profumo. Se al contrario abbiamo guerra, lasceremo solo macerie.
I settantadue
vanno (10,17-20) e tornano entusiasti:
“È proprio così, Signore! Quelle cose che tu hai fatto, riusciamo a farle anche
noi!”. Che bello! Se anche noi ci fidassimo veramente di Lui, scopriremmo di
avere la sua stessa forza: perché dentro di noi c’è lui stesso, il suo Spirito,
e con Lui nulla risulterebbe impossibile pure a noi. Lo sottolinea Gesù stesso
agli apostoli: “Non siate felici per il potere che avete, per ciò che riuscite
a fare. Non siete voi, ma è la Forza che è in voi che compie tali prodigi.
Siate felici, invece, perché, anche se non ci riuscite, i vostri nomi sono
scritti nei cieli”.
Noi
passiamo, i nostri nomi vengono dimenticati. Cinquant’anni dopo la nostra morte
nessuno più si ricorderà di noi. I nomi scritti sulla terra, quaggiù, svaniscono
con il vento. Ma i nomi scritti nel cielo rimangono per sempre. “State
tranquilli, voi non sarete abbandonati; non abbiate alcuna paura, voi siete
protetti, siete salvati, siete nel palmo della Mano di Dio. Da lì nessuno potrà
rapirvi”. Amen.