mercoledì 3 luglio 2024

07 Luglio 2024 – XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 6,1-6 
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Gesù, durante il suo lungo peregrinare, si ferma anche nella sua cittadina natale. E qui il vangelo ci offre un piccolo spaccato di vita paesana: non che Egli faccia per i suoi concittadini qualcosa di straordinario, anzi si comporta esattamente come il suo solito: guarisce gli ammalati e, di sabato, predica nella sinagoga. Anche i suoi lo ascoltano e, come tutti, rimangono stupiti, meravigliati: avvertono cioè in lui un potere straordinario che riesce a risvegliare in loro profonde emozioni, a toccare le corde più sensibili della loro anima.
Nonostante ciò essi rimangono scettici: giudicano le sue parole, i suoi insegnamenti troppo elevati, troppo impegnativi, rivoluzionari, inadeguati per la loro vita. Essi hanno le loro idee, hanno le loro tradizioni, i loro schemi mentali: dargli ascolto equivaleva accettare soluzioni mai sentite prima, e quindi “pericolose”; significa mettere in gioco il loro credo, le loro usanze, e di rimanere destabilizzati.
Gesù, anche qui come altrove, si comporta e insegna senza preoccuparsi se ciò che fa e dice, possa urtare qualcuno. E in realtà urta molta gente: dice infatti ai farisei che la loro religione è falsa; ai nobili sadducei, che dietro la loro religione si celano solo interessi di potere; definisce apertamente stupide e prive di vita le loro pratiche religiose: e lo grida apertamente, in faccia ai capi che le praticano, imponendole agli altri!
È naturale quindi che questi ascoltatori chiamati in causa, toccati sul vivo, si trovino a dover scegliere tra due possibilità: o ascoltare umilmente Gesù, dandogli retta, e rivedere completamente il loro stile di vita, o attaccarlo frontalmente facendolo passare per matto, mettendo in giro voci maligne su di lui e, se non bastasse, addirittura sopprimendolo. Cosa che poi puntualmente cercheranno di fare.
Nel loro caso specifico, poi, c’è anche un’aggravante: perché quando Egli predicava per le strade della Palestina, la gente non lo conosceva, non sapeva chi fosse; ma qui sono tutti suoi paesani, gente che lo conosce bene! Conoscono la sua famiglia, le sue origini, si ricordano di quando era ragazzino! “Ha studiato qui con noi, mica è laureato, non ha titoli di studio, come può dire queste cose? Chi crede di essere per venire qui a stravolgere la nostra vita, le nostre tradizioni? Noi abbiamo sempre fatto così, non ci serve altro, perché ora dovremmo seguire le allucinazioni del figlio di un carpentiere? Cosa può mai uscire di buono da quella famiglia?”.
Hanno quindi già deciso per principio di non credergli. Non possono accettare l’idea che Dio si stia servendo di uno come loro per cambiare il mondo! 
Ecco: il loro dramma è stato quello di ergersi a giudici, di arroccarsi sull’idea della sua incapacità, per il fatto che essi lo conoscevano! Purtroppo, cambiare la propria opinione è un’operazione molto difficile, antipatica, perché obbliga le persone a riconoscere di aver sbagliato, a ricredersi, ad accettare i propri limiti.
È assurdo, ma è anche oggi un comportamento molto comune: “giudicare” è un’operazione che noi pratichiamo in continuazione: possiamo dire che è lo sport più praticato a livello internazionale! Noi infatti giudichiamo quasi sempre le persone non per quello che sono, ma per come le vediamo noi, per come erano anni prima, per la famiglia da cui provengono, dando credito spesso a chiacchiere e maldicenze.
Quella di giudicare, è una facoltà che nasce e si sviluppa con la stessa vita umana: il bambino, per esempio, divide da subito la realtà in buona e cattiva: “buono” è ciò che non gli fa male, ciò che lui può controllare; “cattivo” è ciò che lo fa piangere, che non può gestire. In realtà, però, nell’uomo non esiste nulla che di per sé sia buono o cattivo: sono i suoi comportamenti, le sue azioni, le sue percezioni che lo rendono buono o cattivo: noi però, quando diciamo a qualcuno “sei cattivo” non giudichiamo il comportamento, ma direttamente l’individuo, la persona: diciamo cioè che è lui che non va bene, che è un delinquente, un mascalzone!”. Il nostro giudizio pertanto, identifica la moralità di un’azione con l’individuo che la compie, quando invece, come ci dice il verbo greco “krino”, giudicare, che vuol dire “dividere”, la nostra valutazione, per essere completa e pertinente, dovrebbe sempre distinguere la casualità, le intenzioni, la volontà, la conoscenza, ecc.
Va inoltre tenuto presente che il nostro “giudicare” risponde quasi sempre ad un tentativo di emergere, di essere noi a controllare, a possedere la giusta visione della realtà, perché senza di ciò, tutto ci fa paura. Quando una persona giudica molto, in continuazione, vuol dire che è un insicuro, inconsciamente è terrorizzato dal dover affrontare la vita: per questo tenta di fissare delle etichette, dei ragionamenti che, classificandogli la realtà in categorie, gli semplificano la vita, gliela rendono più accessibile.
Ogni giudizio, proprio per la sua componente di ambiguità, di incertezza, è un’impresa ardua, difficile: è, come dicevano gli antichi, pretendere di far passare tutta l’acqua del mare attraverso lo scarico di un lavandino. Pertanto, emettere un giudizio essenzialmente e totalmente corretto e definitivo, secondo loro è impossibile.
Tuttavia il Vangelo ci suggerisce un’altra considerazione, fondamentale per la nostra vita cristiana: possiamo infatti notare che, incontrando Gesù, molte persone si chiudono in sé stesse, non accettano il suo messaggio, sono indifferenti, infastidite, rimangono ancorate nei loro pregiudizi, nei loro schemi; altre invece, la grande maggioranza, sono aperte, solari, si lasciano conquistare dalle sue parole e ne escono completamente cambiate, trasformate, rinnovate. Come mai? Semplice: perché nel nostro rapportarci con Dio, entra in gioco un elemento decisivo, fondamentale, che sarà determinante per le nostre scelte: è credere in Lui, l’abbandonarsi a Lui, il lasciarsi contagiare da Lui; avere cioè la capacità soprannaturale di “vedere”, riconoscere, percepire, constatare che Lui effettivamente vive, parla, agisce, nella nostra vita umana. Dio non può fare nulla se noi non riconosciamo che Lui è presente, se non crediamo in Lui, se non ci apriamo a Lui con fede sincera. Perché la fede non è capire, non è conoscenza: la fede è incontrare Lui, è sperimentarlo, unirci a Lui vivo, abbandonarci a Lui. Del resto, Dio non costringe nessuno, non obbliga nessuno a seguirlo: se noi non vogliamo lasciarci coinvolgere, se non vogliamo cambiare, se ci rifiutiamo di fare il bene, Dio non può sostituirsi a noi e farlo al posto nostro. Certo, è molto difficile per noi accettare e condividere questo principio: perché in teoria, tutti diciamo di volere Dio, tutti diciamo di essere buoni cristiani, tutti diciamo di ascoltare la sua parola. Ma un conto è dire, un altro è fare: una cosa è promettere di collaborare con l’azione divina, un’altra è mantenere responsabilmente la nostra promessa. Ciò che ci è particolarmente difficile da capire, è che Dio ci salva, certamente, ma solo se lo vogliamo anche noi, solo se dimostriamo di meritarlo con la nostra vita concreta: Dio infatti ci riempie del suo amore, solo se noi gli apriamo il nostro cuore; Dio ci rende buoni, solo se noi glielo permettiamo; Dio ci salva, ci accompagna al centro della Vita futura, solo se noi camminiamo con Lui. Dio ci ha voluti assolutamente liberi; per cui senza un nostro cenno di sincera adesione, senza un nostro concreto apporto personale, Egli non può far nulla per noi, nonostante la potenza infinita della sua misericordia, del suo amore.
Dio su questo, non accetta la nostra falsità, l’indifferenza, la tiepidezza: “Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3, 14-20).
Quante persone che conducono una vita “tiepida”, indifferenti a Dio, superficiali, sono pronte a giurare che credono in Dio e che lo amano. Ma non può essere vero: semplicemente credono, si illudono di amarlo. Credere vuol dire aderire a Dio con tutte le proprie forze, con tutta la propria mente, con tutte le proprie scelte di vita; vuol dire soprattutto essere pronti a combattere, a mettersi in gioco, a rinunciare alla propria onorabilità, a tutto, con perseveranza, fino alla fine, fino al martirio, per difendere la propria fede in Lui. Altrimenti sono solo parole.
Ma torniamo al Vangelo: di fronte alle critiche, all’incredulità dei suoi compaesani, Gesù prova dunque solo tristezza: “Come fate a mettere in discussione ciò che faccio? Come fate a non percepire l’amore, l’apertura, la misericordia contenute in ogni mia parola, in ogni mio gesto, in ogni mio sguardo? Come fate a non rendervi conto che vi amo? Come fate a non riconoscere la vostra ottusità, i vostri attaccamenti, le vostre chiusure?”. E con tanta amarezza deve constatare: “Nessuno è profeta nella sua patria”. Parole che trovano conferma nelle tristi avventure dei profeti dell’intera storia d’Israele; parole che esprimono un’amara rassegnazione al rifiuto della sua persona da parte dei suoi concittadini. E conclude sconsolato: “Neanche se Dio scendesse di persona, voi credereste!”.
Qui sentiamo tutta la delusione di Gesù. Una drammatica, identica sensazione, che quanti credono e vivono in Dio, condividono continuamente nell’avvicinarsi a fratelli che non sanno vedere, che non vogliono vedere, che rifiutano a priori la realtà, la verità.
Il verbo greco “ethàumazen” (da thaumazo) è molto più forte di un semplice “meravigliarsi”: descrive un Gesù che, di fronte alla cecità, all’ottusità di chi ha davanti, rimane costernato, incredulo, senza parole. È traumatizzato dalla loro cocciutaggine, dal loro irrigidimento mentale. Il fisico Einstein – e se ne intendeva di queste cose – amava dire: “È più facile spezzare l’atomo che il pregiudizio dell’uomo!”.
Purtroppo, ancora oggi troppa gente è convinta che la fonte della loro felicità sia il mondo con i suoi lustrini, l’avere tanti soldi, una bella casa, un buon lavoro, una suocera simpatica, un amico e collega disponibile. L’uomo d’oggi, con la sua ostinata presunzione di negare Dio, di combatterlo in tutti i modi, vive in balia di mille illusioni, di continue delusioni e sconfitte: ma non capisce, non vuole capire. C’è veramente da rimanere allibiti, senza parole; è proprio vero: non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere, né peggior sordo di chi non vuol sentire. Amen. 

mercoledì 26 giugno 2024

30 Giugno 2024 – XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». Stava ancora parlando, quando [dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare. 

Il vangelo inizia sottolineando che Gesù si era nuovamente trasferito sull’altra riva del lago. Come abbiamo visto domenica scorsa, il “passaggio” da un luogo ad un altro, non esprime un semplice cambio di zona, ma un mutamento radicale di vita: un passaggio necessario, indispensabile, perché dobbiamo crescere, evolvere, dobbiamo abbandonare lo stato di immobilità, di stallo, per andare verso nuove esperienze di vita, verso situazioni completamente nuove, altrimenti ci ammaliamo, inaridiamo, cessiamo di vivere. 
I nostri problemi più gravi provengono, infatti, proprio dall’ostinato rifiuto di “passare dall’altra parte”: non vogliamo crescere, non vogliamo abbandonare le nostre abitudini paralizzate, inefficienti, non vogliamo abbandonare una riva, una fase della nostra vita, per dirigerci decisamente verso un’altra. Rimaniamo sempre lì, immobili: ma irrigidirsi così, per partito preso o magari per paura, è la nostra sentenza di morte. I momenti della vita passano una sola volta, non si ripetono, non si fermano: la vita è un continuo fluire in avanti: con noi o senza di noi, il tempo con le sue opportunità passa inesorabilmente: fermarsi, equivale a regredire, perdersi, morire.
È sempre stato difficile, e sempre lo sarà, passare dall’adolescenza, all’età adulta: crescere, emanciparsi completamente dall’infanzia, è un passaggio obbligatorio ma impegnativo; tant’è che a volte si preferisce rimanere immaturi, dipendenti, succubi delle decisioni altrui.
Raggiunta la maturità, poi, è ancora più problematico accettare di diventare “anziani”: “vecchio” è un termine in genere “odiato”, sicuramente detestato, il più volutamente “ignorato”: perdere le nostre posizioni di dominio, constatare il nostro declino, l’essere superati da altri più vigorosi e preparati di noi, vedere accantonati, messi da parte quei nostri ruoli professionali conquistati con tanta passione, è un passaggio destabilizzante per chiunque, soprattutto se non si capisce che l’anzianità è l’età della saggezza vera, della comprovata esperienza, l’età in cui i vecchi vengono spesso cercati e interpellati come maestri di vita. Ma se non “passiamo”, se non accettiamo di trovarci in quella “parte” della vita, ci sentiremo sicuramente dei falliti, degli emarginati, delle persone inutili, deluse, sole, amareggiate.
Il vangelo di oggi, allude dunque proprio a questi “passaggi” esistenziali: a quei cambiamenti cioè che tutti devono affrontare per crescere, per vivere, per amare. Sì, perché talvolta, per vivere, per amare, è assolutamente necessario spogliarci da quel “ruolo” esclusivo, intransigente, onnisciente, che abbiamo amato e indossato per anni; dobbiamo “cambiare”, dobbiamo lasciarci alle spalle quegli anni “ruggenti” in cui ci sentivamo forti, infallibili, vincenti; dobbiamo ridimensionarci, dobbiamo indossare umilmente la veste genuina dell’amore vero, della saggezza autentica, sincera, indulgente, benevola, proprio per trasferirla su chi amiamo di più, sui nostri figli, sui nostri nipoti, su quelli che porteranno nel domani le nostre esperienze: se non accettiamo questo nuovo compito, rischiamo inevitabilmente di soffocarli, di mortificarli, di bloccare i loro sogni di vita, di immobilizzarli, di ucciderli.
È quanto vuol farci capire il vangelo di oggi con la guarigione della figlia di Giairo.
Ma scendiamo nei particolari del testo: osserviamo bene, prima di tutto, l’ordine delle parole: “E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo”; Marco non dice: “Giairo, uno dei capi della sinagoga, andò da Gesù”; egli volutamente non ha anteposto nel suo periodo il nome del soggetto, come dovrebbe normalmente avvenire; e lo ha fatto proprio per evidenziare come in questo caso, il ruolo, la carica, la professione, venga prima, sia più importante della persona, dell’individuo che agisce; in altre parole è l’attività, il mestiere, che guida e determina il comportamento dell’individuo, non la persona. E questo crea decisamente dei problemi. 
Il grande pericolo che corriamo, quando nella vita rivestiamo un “ruolo importante”, è infatti quello di identificarci completamente in quel nostro ruolo. Allora non siamo più Tizio o Caio, ma siamo sempre e solo “il” capo, il professore, il politico: lo siamo sempre e con tutti. Non faremo più caso alle debolezze della nostra umanità, ai nostri limiti, ai nostri desideri personali, ma continueremo ad essere il capo che comanda, il professore che insegna, il politico che legifera: diventeremo cioè prigionieri del ruolo, di questo vestito esteriore che ci siamo cuciti addosso. E sarà quindi lui, il ruolo, che dopo aver progressivamente fagocitato il nostro essere persona, deciderà il nostro agire, il nostro pensare, il nostro pianificare la vita.
Ebbene: Giairo, uno dei protagonisti del Vangelo di oggi, si comporta esattamente come la vittima del suo “dio-ruolo”: in pratica egli è più “preso” dalla sua funzione di capo della sinagoga, che dai problemi di sua figlia. Non la vede, non la riconosce, non si accorge neppure che lei crescendo, giorno dopo giorno, si ripiega su sé stessa, sfiorisce, si lascia morire: troppo proiettato sulle problematiche di una carriera che lo allontana da lei, non scorge il suo bisogno disperato di avere un padre attento, che la valorizzi, che le riconosca la sua giusta importanza, e soprattutto che l’ami come la cosa più preziosa.
Gesù, per guarire la figlia, deve quindi “guarire” prima di tutto il padre, deve riportarlo nella sua dimensione di genitore, deve ricollocarlo nella sua realtà di persona: egli infatti si è perduto nel tempo, è rimasto nel passato remoto, e insiste a proiettare nel presente una visione riduttiva della figlia, una visione anacronistica, statica, impropria; continua cioè a vederla, a considerarla, a chiamarla ancora, la sua “figlioletta”. Ma questa “bimba”, come la vede lui, ha già dodici anni; una ragazza di quell’età, nella Palestina di duemila anni fa, è una donna adulta, nel fiore della sua maturità; è per lei assurdo, gravemente riduttivo, sentirsi considerata dal padre una creatura infantile, una bimba insignificante come donna. Da qui la loro lacerante conflittualità: lei, donna “adulta”, vuole essere considerata da suo padre come tale; ma lui non intende accettarla nella sua realtà. È un uomo che si rifiuta di vederla cresciuta, terrorizzato dall’idea di doverla perdere da un momento all’altro: è un padre immaturo, psichicamente “infermo” che, immedesimatosi nel suo ruolo esterno, si ostina a voler ignorare l’ormai inevitabile ruolo della figlia, e non si accorge che questa sua miopia ha scatenato in lei un progressivo stato di angosciante insicurezza, di annullamento della volontà di vivere, di ogni entusiasmante slancio vitale. Soprattutto non capisce che l’unica medicina che può salvare sua figlia è di farle finalmente sentire tutto il suo amore di padre: “Tu sei mia figlia, mi piaci così come sei; apriti alla vita, fiorisci, io ti amo e continuerò sempre ad amarti, perché tu sei mia figlia!”.
A questo punto, cosa avrebbe potuto fare Gesù per guarire questo padre responsabile della “grave malattia” della figlia, il quale, nel momento stesso in cui è prostrato ai suoi piedi, supplicando per la sua guarigione, riceve la notizia della sua morte? Gli dice semplicemente: “Non temere, abbi soltanto fede”. In altre parole: “Non aver paura, non disperarti per questo, devi solo aver fede, devi aver fiducia in lei; devi capire che la tua indifferenza, la mancanza del tuo amore, il rifiuto di riconoscere la sua crescita, i suoi progressi, sono gli elementi che hanno destabilizzato tua figlia. Se non ti liberi di queste ossessioni, tua figlia non potrà tornare a vivere. Tutto ciò che io dico e farò, deve segnare l’inizio di una nuova vita per te e per lei”.
Poi, entrato nella stanza in cui giaceva la figlia, Gesù si rivolge a lei e la chiama: “Talithà, ragazza, fanciulla”; per lui non è la bambina, la “figlioletta” del padre: per lui è ormai una donna. Sembra dirle: “Sei grande, matura, indipendente; ricordati che non appartieni a nessuno; non sei proprietà di tuo padre, appartieni solo a te stessa; non vivere quindi da serva, da schiava. Sei la regina, sei la padrona indiscussa della tua vita, vivi da regina!”.
E la esorta dicendo: “Ègheire, svegliati”; e la giovane immediatamente “anèste”, si alzò. Da notare che i termini usati qui da Marco, sono gli stessi usati per la risurrezione di Gesù. Un fatto fondamentale perché sta a significare che “risurrezione” non consiste solo nel passare dalla morte alla vita; ma è risurrezione anche ogni qualvolta noi “passiamo” da uno stile di vita amorfo, ad un altro più armonico, più vivace, più appassionato, più libero, più vero: significa “passare” realmente ad un nuovo periodo della vita, in un’altra “riva”: significa in pratica scuoterci, svegliare e trasmettere agli altri la Vita per eccellenza, quel Dio che “dorme” in noi.
Allora, “ègheire!”, “svegliamoci!”: alziamoci, apriamo gli occhi; non ci accorgiamo che viviamo solo per compiacere gli altri? Che cerchiamo l’approvazione di tutti? Che mendichiamo agàpe, amore, da chi può darci soltanto eros? Non ci rendiamo conto che in noi si è perso “l’uomo” e viviamo solo del nostro “ruolo”? Non vediamo che ce la stiamo raccontando, che ci inganniamo da soli? Che confondiamo l’amore con il possesso? Non ci accorgiamo che siamo sempre di corsa, perché se ci fermiamo anche solo un istante, capiamo di non aver realizzato nulla?
Sono dunque due i verbi che oggi devono farci meditare: “Ègheire”, è il nostro sonno che finisce, sono le nostre illusioni che cadono, è quando finalmente riusciamo a vedere la realtà: dura e terribile all’inizio, abituati come siamo a vedere ciò che non esiste, ma poi vitale, splendida. Anèste, è mettersi in piedi. Gesù, quando alza la ragazza, la prende per mano e le fa prendere coscienza delle sue possibilità: “Tu sei forte; tu puoi stare sulle tue gambe; vivi, perché lo puoi!”. Troviamo allora anche noi la forza di “passare”, di superare le difficoltà qualunque siano le condizioni del lago in burrasca; perché in ogni situazione, in ogni rapporto, in ogni amicizia, in ogni matrimonio, è necessario che i due componenti che si confrontano, guariscano entrambi, e sempre entrambi, passino nell’altra riva”. Amen.

 

mercoledì 19 giugno 2024

23 Giugno 2024 – XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 4,35-41 
In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Un mare in tempesta è sempre angosciante: perché non solo siamo in balia delle onde, ma non abbiamo punti di riferimento. È un evento che non possiamo controllare, non siamo noi a decidere, dobbiamo solo cercare di uscirne indenni. È lei, la tempesta, che conduce il gioco: siamo certi che passerà, ma non sappiamo né come né quando. E, quel che è peggio, sbattuti dai marosi, ci assale la paura di affondare.
La tempesta è qui apertamente assimilata alle contrarietà della vita. E in tal caso, cosa dobbiamo fare?
Il vangelo di oggi ci dà per certa una cosa: chi ha fede in Dio può superare ogni tempesta, anche la più tremenda. Non è importante quanto sia violenta, ma quanto sia sincera la nostra fede. Infatti, se ci fidiamo, se abbiamo fiducia, insomma se abbiamo veramente fede, nessuna tempesta potrà mai farci temere di affondare.
Sappiamo che Gesù ha attraversato varie volte il lago di Genezareth, un lago abbastanza grande da essere chiamato dagli ebrei “mare”, e può anche essere successo che durante una di queste attraversate i discepoli e il maestro si siano imbattuti in qualche bufera. Lo chiamavano “Ajn Allah”, l’Occhio di Dio: si tratta di un lago solitamente calmo e tranquillo; ma può succedere che delle forti correnti piombino sulle sue acque, sollevando improvvisamente onde altissime che possono procurare alle imbarcazioni danni di notevole entità. Tutto avviene in tempi molto brevi: rapidamente inizia, rapidamente finisce.
Cosa sia realmente successo quella volta, non lo sappiamo. Forse c’è stata veramente una tempesta; oppure un vento più forte del solito avrebbe impaurito i discepoli, i quali vedendo che Gesù continuava a dormire, si sono affrettati a svegliarlo, perché intervenisse in loro aiuto. Un episodio abbastanza frequente, che avrebbe suggerito all’evangelista di attribuire l’immediata bonaccia all’intervento del Maestro.
Quello che però dobbiamo cogliere, è che l’autore, con l’immagine della tempesta, ha voluto sottolineare i frequenti pericoli, a volte anche molto gravi, con i quali dobbiamo misurarci nel nostro percorso di vita. Tutti siamo concordi nel voler vivere la nostra vita con grande serenità: speriamo sempre che tutto fili liscio, senza fastidiose conseguenze, senza scossoni o sussulti. Per cui ogni imprevisto fuori dalla normalità viene rifiutato, perché ci fa paura, mette in crisi le nostre certezze, i nostri principi. Ma se la calma piatta da un lato ci rassicura, dall’altro ci costringe a vivere una vita monotona, priva di novità, di originalità: insomma, un assoluto piattume!
Ma guardiamo meglio i particolari, per meglio comprendere gli insegnamenti di questo vangelo:
Venuta la sera”: una precisazione oraria con cui si vuol sottolineare che il giorno era finito, che tutto quanto era accaduto in esso, era stato già vissuto: davanti a loro si prospettava un nuovo giorno da vivere: esattamente ciò che succede nella nostra vita: ad un certo punto, inevitabilmente, arriviamo alla fine di un certo periodo, e dobbiamo passare ad uno nuovo, a quello successivo. Non possiamo rimanere ancorati a ciò che eravamo ieri, alle situazioni compiute e irrimediabili; oggi è un nuovo giorno, il passato non ci riguarda più, una nuova prospettiva si apre davanti a noi.
Passiamo all’altra riva”: è questo l’invito che il Gesù della Vita ci rivolge. E noi: “Ma no, Signore, stiamo bene qui; perché dobbiamo cambiare? Chi ce lo fa fare?”. Recalcitriamo, non siamo d’accordo: passare all’altra riva, significa dover cambiare, fare una svolta determinante nel nostro percorso. L’invito di Gesù è perentorio: è Lui stesso che ci spinge verso il nuovo, verso il cambiamento, verso una vita dinamica. I cambiamenti sono le nostre esperienza di vita: tutto quello che ci riguarda (le relazioni, la crescita, la maturità, l’educazione, la scoperta della nostra vocazione, il nuovo mondo della fede e dell’anima) è un continuo evolversi, un continuo “passaggio” da una riva all’altra, una continua “traversata”, un continuo lasciare territori conosciuti e familiari, per approdare a nuovi orizzonti, un costante abbandono del certo per occuparci dell’incerto: un nuovo programma ci attende, un nuovo “tutto” da costruire, e noi non possiamo tergiversare.
Lasciata la folla”: la folla è la normalità, è ciò che tutti fanno abitualmente ogni giorno, sono le nostre esperienze di vita, tutto ciò che conosciamo bene, che è “nostro”; ebbene, Gesù ci invita a lasciare tutto questo: appartiene al nostro passato; l’oggi è ciò di cui ora disponiamo, un “presente” da conoscere, da scoprire, da vivere ex novo su un’altra riva. È la vita: se non lasciamo la famiglia, il nostro nido protetto, non potremo mai diventare “adulti”. Se non lasciamo la “folla” non diventeremo mai “individui”; se non abbandoniamo l’aiuto delle stampelle, non riusciremo mai a capire se abbiamo forza sufficiente per camminare da soli.
Lo presero con sé, così com’era”: il “nuovo” non è mai come noi lo vorremmo; è sempre “così com’è”, punto! Siamo anche disponibili alle novità, è vero, ma vorremmo conoscerle prima, per poterle controllare, gestire; vorremmo essere già pronti ad ogni evenienza. Ma in tal caso, che novità sarebbero? Sono un “nuovo” già “conosciuto”, un “non nuovo”. Le novità invece vanno prese così come vengono, come si presentano, come si propongono.
Una gran tempesta”: ogni volta, puntualmente, che lasciamo spazio al nuovo, al cambiamento, cosa ci succede? Una gran tempesta. Sempre così! Ed ogni volta ci sembra di affondare, rimpiangiamo il passato, recriminiamo puntualmente contro la scelta fatta: “Perché non sono rimasto dov’ero? Chi me l’ha fatto fare?”.
Le onde, il vento”, sono tutte le paure che ci sommergono: “Ce la farò? Ne uscirò?”. Quando affrontiamo un nuovo percorso, è naturale che mille dubbi ci assalgano: se è nuovo, è anche la prima volta che lo affrontiamo e quindi non lo conosciamo; se sapessimo già come muoverci, il nostro percorso non sarebbe nuovo e quindi non ci sarebbe alcuna tempesta.
E Gesù dormiva”: in quei momenti neppure Dio sembra aiutarci, neppure lui sembra fare qualcosa. Noi lo preghiamo, ma non succede nulla. Preghiamo ancora di più, gridiamo, facciamo voti a questo o a quel santo, facciamo promesse a non finire, ma continua a non succedere nulla. E allora ce la prendiamo con Lui, perché non fa proprio nulla, anzi sembra proprio fregarsene di noi e della nostra vita; è come se per lui non esistessimo. “Perché Dio permette queste cose? Se Dio ci fosse veramente, e mi amasse come dice, verrebbe di corsa in mio aiuto. Ammesso anche che ci sia: che me ne faccio di un Dio che non si muove, che per me non fa mai nulla?”.
Oltretutto, ad un certo punto della nostra vita, ci rendiamo conto che quella sicurezza, quella pace, quella tranquillità che prima di imbarcarci nella “novità”, pensavamo di possedere, altro non era che fumo, ce la raccontavamo e basta. In realtà avevamo messo un tappo all’udito della nostra vita, per non sentire nulla, per attutire tutto, per illuderci che tutto andasse bene! Avevamo paura di guardarci dentro e di scoprire quello che c’era. Preferivamo far finta di nulla.
Ma ora che la Vita ci ha imposto un nuovo passaggio, una “tempesta” ci ha spinto altrove, non possiamo continuare a tirar dritto, facendo finta di niente; non possiamo continuare a cullarci nei sogni, a trastullarci con i castelli in aria. Dobbiamo aprire gli occhi, rimboccarci le maniche, perché la tempesta che abbiamo incontrato altro non è che un passaggio, una evoluzione benefica, una crescita di conoscenza, di vitalità, di maturità, anche se ci ha portato un po’ di angoscia, di smarrimento.
Non continuiamo testardamente a voler rimanere sempre fermi, ancorati al porto, in acque tranquille e stagnanti; mettiamo da parte, una buona volta, la paura di imbarcarci nelle difficoltà, nei pericoli, nelle bufere, nelle burrasche; impariamo a dominare il terrore di dover affrontare, se necessario, anche qualche vero e proprio maremoto: sono solo tempeste, sono le nostre compagne di vita. Convinciamoci che c’è sempre il modo per non affondare, per non affogare; invece di fuggire il mare, impariamo finalmente a solcarlo con coraggio.
Non sappiamo cosa ci riserverà la vita? Non preoccupiamoci: quando sarà ora, quando incomberà su di noi la tempesta del momento, sapremo come affrontarla.
Quello che Gesù ha detto una volta ai discepoli, lo ripete anche a noi, “Vieni e seguimi!”: un “seguimi!” che significa “Smettila di voler controllare ogni cosa; smettila di voler sapere, di voler pianificare, di voler gestire tutto tu. Seguimi, soltanto, là dove io ti conduco!”.
Se ci fidiamo, se abbiamo fede in lui, se siamo onesti, alla fine scopriremo che seguirlo era l’unica cosa buona da fare. Sì, perché Gesù per noi non è un’idea, un ente astratto, una teoria, ma un qualcosa di molto concreto: è uno che ci sta sempre a fianco, che nella nostra vita ci aiuta sempre, nonostante tutto, e puntualmente. Anche se non ce ne rendiamo conto, anche se non lo vogliamo ammettere.
Avere fede significa pertanto abbandonare per sempre i pensieri di paura, di tristezza, di autocommiserazione, di ripiegamento su noi stessi; significa porre tutta la nostra fiducia in Dio, in Lui, nel Dio della Vita, dell’Amore. “Si nobiscum Deus, quis contra nos? Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”. Avere fede, per noi che navighiamo nelle tempeste della vita, è sapere che in qualche parte della nostra imbarcazione Lui c’è. Magari dorme, magari non lo sentiamo, magari neppure lo cerchiamo, ma siamo sicuri che c’è! E questo ci deve bastare per andare avanti in serenità, consapevoli che con Lui il nostro viaggio e il nostro approdo avverranno in tutta sicurezza. Amen. 

giovedì 13 giugno 2024

16 Giugno 2024 – XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 4,26-34 
Diceva [Gesù]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Il Vangelo di oggi merita una particolare attenzione: soprattutto da noi che siamo convinti di essere il motore trainante del Regno, quelli che reggono le sorti della Chiesa, quelli che hanno sempre una soluzione migliore per ogni cosa, quelli che, se gli altri ci dessero retta, le cose andrebbero sicuramente meglio.
Tranquilli: non è il nostro efficientismo né la nostra esperienza, né la nostra super preparazione personale che concorrono a fare grande il Regno di Dio.
Edificare il Regno, ci dice infatti il vangelo, è come piantare un piccolo il seme: per germogliare e dare frutto, ha bisogno soltanto di essere posto nella giusta profondità: la sua crescita è automatica, avviene spontaneamente, anche quando il seminatore dorme o è assente: non ha bisogno della sua presenza; inoltre lo sviluppo non avviene a casaccio, ma risponde a delle proprietà naturali, programmate dal Creatore, che gli consentono, lui piccolissimo, di produrre frutti ben più grandi e abbondanti.
Questo è quanto ci insegna il vangelo di oggi. Queste devono essere le caratteristiche del nostro lavoro di semina della Parola.
Purtroppo il terreno su cui dobbiamo operare, la società in cui viviamo, è diventato brullo, arido, peggio di una pietraia: viviamo in un’epoca che per certi versi è già “post cristiana”, un’epoca cioè in cui il Cristo e la sua Parola, la Chiesa e i suoi fedeli, vengono rifiutati, ignorati, ridicolizzati.
Ma ciò non deve ferirci né scoraggiarci; non deve smorzare il nostro impegno; anzi deve renderci più reattivi ed entusiasti. Non si tratta di essere dei “supermen”, degli spaccamontagne, dei “faccio tutto io” come siamo inclini a pensarci, ma soltanto degli autentici “cristiani”; null’altro che dei piccoli, umili, imbranati seminatori, dispensatori e testimoni, con la loro vita, della Parola di Dio: l’importante però è che dobbiamo farlo con il suo stile, fatto soprattutto di pazienza, di amore, di fiducia, di tempo.
In natura tutto ha bisogno di un suo tempo per crescere, per maturare: perché la vegetazione rinasca vigorosa in primavera, ci vuole tutto l’inverno; perché nasca un bambino ci vogliono nove mesi: è il tempo dell’attesa; sembra che non accada nulla, ma in profondità la vita si prepara alla sua esplosione, al suo naturale sviluppo. Non possiamo tirare le gambe di un bambino perché cresca più in fretta, come non possiamo tirare il gambo di un fiore per allungarlo.
Noi purtroppo siamo abituati a premere un bottone, e quello che vogliamo ottenere avviene immediatamente: con il pulsante della tv vediamo cosa succede nell’altra parte del mondo; con quello del computer o del telefono contattiamo chiunque, dovunque si trovi. Tic-tac: tutto avviene. È un semplice giochetto!
Ma per le cose della vita, sia essa naturale che spirituale, non è così; ci vuole un tempo di attesa, esattamente come per i sentimenti: l’amore, la fiducia, i sogni, le aspirazioni, prima che si concretizzino, hanno bisogno di un loro tempo di formazione, di incubazione, di maturazione. L’importante è credere, con fiducia e serenità.
Ecco: un altro particolare importante che traspare dal vangelo di oggi è l’ottimismo di Gesù: Egli ha fiducia nel suo lavoro, crede nella forza delle sue idee, sa che la Parola, uscita dalla bocca di Dio, non tornerà mai senza effetto, senza aver compiuto ciò che Egli desidera, ciò per cui Egli l’ha mandata (cfr. Is 55,11). Allora, lavorare con questo specialissimo seme, ci deve solo che tranquillizzare: perché la Parola porti frutto dobbiamo soltanto seminarla, annunciarla, soprattutto viverla; dobbiamo in altre parole compiere umilmente la “nostra” evangelizzazione mediante l’esempio, la carità, l’amore: tutto il resto viene da sé; il Regno, ripeto, non dipende da noi; dipende da Dio e dalla “fertilità” del terreno su cui facciamo cadere il suo “seme”. Nella vita della Chiesa vanno in particolare banditi i personalismi: il nostro non è un “lavoro individuale”, solitario, isolato, che solo noi sappiamo fare: è un lavoro di équipe, collettivo, fatto a più mani nella preghiera, diretto e coordinato dall’unica mano di Dio, magistrale e risolutiva, che controlla e provvede a tutto, come dice giustamente Paolo alla comunità cristiana di Corinto: “Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere” (1Cor 3,6). Non è dunque l’azione dell’uomo che produce il Regno, ma la potenza di Dio.
Se lavoriamo con questa convinzione, tutte le nostre ansie, tutte le nostre preoccupazioni non solo non servono a nulla, semmai sono dannose; sono inquietudini che non vengono da Dio, che ci ha comandato di non affannarci (cfr. Mt 6,25-34), ma dalla nostra mancanza di fede.
Il buon esito dell’annuncio, della semina, non dipende quindi dalla nostra efficienza, ma da un Altro: non dimentichiamolo mai; il regno di Dio è di Dio, non siamo noi che lo costruiamo, che lo ingrandiamo, che lo irrobustiamo. Anzi, con il nostro comportamento folle, a volte ritardiamo il suo corso, il suo fluire: come può succedere per l’acqua di un fiume quando, sul suo corso, si imbatte in una imprevista barriera di fango e di rifiuti.
Spesso gli ostacoli a Dio e al suo Regno sono posti non tanto dalla malvagità dei cattivi, quanto dalla stupidità dei buoni: la più grande alleata del demonio è proprio la nostra ignoranza spirituale, è il nostro assecondarlo, lasciandoci conquistare da quei suoi fuochi fatui che Gesù scartò decisamente come tentazioni: il successo, la pubblicità, l’efficienza, la grandezza, il benessere.
Il regno di Dio è come un granello di senape”, un seme veramente minuscolo, quasi invisibile: proprio perché Dio è grande, immenso, non ha avuto paura di farsi piccolissimo, umano; non ha avuto paura di morire sulla croce tra gli scherni e la derisione dei presenti; e proprio perché il suo Regno è eterno e potente, ha scelto di fare a meno della grandiosità degli apparati esteriori. Dio non ha bisogno di terrorizzare per affermarsi: non gli servono eserciti, anche se il mondo lo combatta con tutti i mezzi, contrapponendo alla sobrietà del suo Vangelo, le più attraenti seduzioni, il denaro, il possesso, il piacere. È tutto inutile: nonostante tutti gli ostacoli che il mondo gli frappone, il seme di Dio, piantato sul Golgota, ha avuto e avrà sempre la meglio: è già “un grosso albero”, all’ombra del quale, riparati dalla sua maestosità divina, l’umanità intera troverà sempre ristoro, accoglienza, Amore. Amen.

giovedì 6 giugno 2024

09 Giugno 2024 – X DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 3,20-35 
Entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé». Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni». Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in sé stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro sé stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa. In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro». Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».

Esaurite le grandi solennità del Tempo Pasquale e quelle “mobili” immediatamente successive alla Pentecoste, oggi la liturgia ci reintroduce nel Tempo Ordinario, durante il quale ci propone una serie di letture evangeliche che illustrano quelle che devono essere le caratteristiche fondamentali della Chiesa di Cristo e di quanti intendono farne parte.
Marco, con il suo solito stile conciso e pieno di inclusioni, sottopone oggi alla nostra riflessione un testo particolarmente significativo in questo senso.
Le tematiche trattate sono due: la difesa di Gesù dall’accusa rivoltagli dalle autorità di essere un indemoniato, uno strumento di Satana, e la sua precisazione su chi siano “sua madre e i suoi fratelli”.
Ma andiamo con ordine. Gesù, durante la sua missione, è costantemente circondato da una folla di poveretti, di emarginati dalla società, di malati, di posseduti dal demonio, di bisognosi d’aiuto: tutti lo rincorrono per avere da lui la soluzione dei loro problemi, la guarigione dalle loro infermità. E a tutti Egli dona conforto e salute sia corporale che spirituale.
Preoccupate di tanto consenso della folla, le autorità religiose, sopraggiunte di proposito da Gerusalemme, cercano in tutti i modi di screditarlo, sostenendo che tutto quanto egli compie, lo compie per mezzo si satana: in particolare gli rinfacciano che egli riesce a cacciare i demoni grazie soltanto all’intervento diretto di satana. Una insinuazione decisamente ridicola: quando mai satana aiuterebbe qualcuno per essere cacciato da una sua abitazione? È infatti decisamente impensabile che il demonio, attaccatissimo e gelosissimo del suo regno di morte, sia tanto ingenuo da aiutare chi vuol privarlo proprio delle sue stesse proprietà.
Semmai, ribatte Gesù, opera del demonio sono i vostri tentativi di attribuire a satana le opere che appartengono a Dio, rifiutando in questo modo l’opera redentrice che io sto realizzando nel mondo. In altre parole, dice Gesù, gli indemoniati siete voi, perché rifiutate categoricamente e senza riserve la salvezza che mio Padre, Dio Amore, sta operando mio tramite: un peccato, il vostro, che non potrà mai ottenere il perdono: “In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna”.
Rifiutare l’azione di Dio che, dal momento del suo battesimo nel Giordano (“Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento!”), agisce nella persona di Cristo, costituisce infatti il più grave insulto alla potenza stessa di Dio. Con il loro atteggiamento, pertanto, gli scribi si autoescludono dalla salvezza che il Padre, grazie allo Spirito, per mezzo del Figlio, con il Cielo definitivamente spalancato, ha portato nel mondo quel reciproco amore che li unisce indissolubilmente. Peccare quindi contro lo Spirito Santo è un’offesa gravissima, “imperdonabile”, non perché Dio non perdoni chi si pente, ma perché, rappresenta la volontaria astensione dalla fede, il rifiuto di convertirsi aderendo all’opera redentrice di Cristo.
Il catechismo ce ne presenta diversi di questi peccati “contro lo Spirito Santo”, tutti demoniaci e “imperdonabili”: come “disperare della salvezza eterna, presumere di salvarsi senza merito, impugnare la Verità conosciuta, invidiare la Grazia altrui, ostinarsi nel peccato, l’impenitenza finale”. Sono tutti molto simili perché ciascuno comporta il rifiuto della Grazia e degli aiuti divini di cui lo Spirito Santo è portatore.
Oggi poi, considerando anche superficialmente quanto accade intorno a noi, è impossibile non rilevare una diffusa, accanita ostilità contro la persona di Gesù e gli insegnamenti del suo Vangelo: purtroppo oggi la società si esprime contro lo Spirito in maniera sempre più categorica, combattendo con tutti i mezzi la fede cristiana, la Chiesa cattolica e qualsiasi riferimento ad essa, rifiutando ostinatamente qualunque iniziativa divina di perdono e di Grazia.
Nonostante le infinite prove tangibili e inconfutabili dell’Amore di Dio, rivelate attraverso la vita delle persone e gli eventi della storia, c’è chi cerca sistematicamente di propagandare odio per il sacro, per i principi morali, per i valori inalienabili della civiltà cristiana, contrapponendo alla dottrina etica e religiosa della Chiesa, un edonismo, un materialismo, un relativismo sfrenati. C’è addirittura chi si vanta con orgoglio della propria miscredenza, del proprio perseverare nel peccato, della propria vita amorale e contro natura, facendolo come atto di sfida, di sberleffo, nei confronti di Cristo e dei “beoti” che lo seguono; come pure chi, pur riconoscendosi colpevole, rifiuta con orgoglio e arroganza qualunque forma di ripensamento e di ravvedimento.
Peccare quindi provocatoriamente contro lo Spirito Santo, in questa nostra società secolarizzata e impertinente, è diventato ormai un naturale e sconsiderato “modus operandi”: ma di una cosa dobbiamo essere assolutamente certi: che perseverando stupidamente nel negare Dio e la sua Misericordia, prima o poi cadremo vittime del nostro errore, perché in nessun modo la presunzione e l’orgoglio riusciranno a sopraffare l’Amore e la Verità.
Di fronte a tanta cattiveria, a noi deboli e tiepidi cristiani, impantanati nella nostra umanità, può capitare a volte di rimanere perplessi e di chiederci: “perché vivere il Vangelo di Cristo, se poi per questo dobbiamo sopportare oltre alle derisioni, ogni genere di contrarietà? Ne vale veramente la pena?”.
Assolutamente sì: perché se a noi capita sovente di deludere chi ci ama, a Cristo questo non può succedere, Egli nella sua vita non ha mai deluso nessuno: le sue promesse di premio e di Amore eterno, sono certezza assoluta: e questo ci deve bastare per continuare a vivere cristianamente, annunciando sempre la sua Parola con coraggio e determinazione. Le difficoltà che incontriamo nel “salire il suo santo Monte”, sono sicuramente sopportabili all’idea del riposo, della soddisfazione, di quell’Amore completo e duraturo che otterremo una volta raggiunta la vetta.
Ma torniamo al testo: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano”.
È il secondo tema del vangelo di oggi. Per commentare questo versetto di Marco e quelli analoghi degli altri sinottici (Mt 12,46-50; Lc 8,19-21) sono stati versati fiumi d’inchiostro: la questione era: “Gesù era figlio unico, o Maria la sempre vergine ha avuto altri figli?” Al di là delle insensate e offensive ricostruzioni di tanti romanzieri contemporanei, il cui scopo preferito è quello di gettare discredito sul nostro “credo”, oggi le posizioni degli studiosi sono tre:
a) secondo la Chiesa cattolica i “fratelli e le sorelle” di Gesù erano i cugini, i parenti affini o comunque i membri del clan familiare di Gesù;
b) secondo le Chiese orientali essi erano invece i “fratellastri” di Gesù, figli cioè di un precedente matrimonio di Giuseppe che, rimasto vedovo, era convolato a nozze con Maria;
c) secondo le chiese protestanti moderne, i Testimoni di Geova, e alcuni studiosi della corrente storico-critica, essi erano “veri figli carnali” di Giuseppe e Maria, nati dopo il primogenito Gesù.
Ora, per avere un’idea corretta sul significato del termine greco adelphòs con cui è stata tradotta la corrispondente parola ebraica, è necessario risalire al mondo semitico e al fondo linguistico e sociale sotteso ai Vangeli: tra le popolazioni nomadi, infatti con un unico termine (‘aha in aramaico e ‘ah in ebraico) si designava sia il fratello che il cugino, il nipote, l’amico. Per tale motivo si spiega infatti perché Abramo riferendosi a suo nipote Lot, lo chiami “fratello(Gn 13,8), e lo stesso faccia pure Labano nei confronti del nipote Giacobbe (Gn 29,15).
Si tratterebbe quindi di una libera interpretazione del suddetto termine polivalente fatta da Marco nel comporre il suo vangelo in lingua greca, nonostante all’epoca, per indicare nipoti e cugini si usasse il termine “anepsiói”; ciò tuttavia non deve meravigliare perché già nel III secolo a.C., nella traduzione in lingua greca della Bibbia ebraica, i LXX avevano tradotto il termine originale ebraico ‘ah proprio con adelphòi”: un termine peraltro che nella cultura nomade di allora la parola “fratelli” veniva usata in senso onorifico dalle persone, oltre che per indicare l’insieme dei loro parenti, di qualunque grado fossero, anche per i loro gruppi di amici, di conoscenti ecc.
Così pure, nel Nuovo Testamento (At 1,14; 1Cor 9,5), l’espressione “adelphòi” veniva comunemente usata non per indicare i fratelli “carnali” di Gesù, ma quel gruppo specifico di persone giudeo-cristiane, legato al clan parentale nazaretano di Gesù: essi infatti costituivano una specie di comunità a sé stante, che aveva progressivamente raggiunto una tale autorevolezza da imporre come primo “vescovo” di Gerusalemme proprio quel “fratello di Gesù”, Giacomo, citato anche dallo storico romano di origine ebraica Giuseppe Flavio.
Per noi cattolici, in ogni caso, il problema non esiste, in quanto la questione è già stata ampiamente risolta, nel senso che l’esistenza di “fratelli e sorelle carnali” di Gesù è incompatibile con il dogma della esclusiva, perpetua verginità di Maria, esplicitamente esposto nel Secondo Concilio ecumenico di Costantinopoli del 553 d.C., e ufficialmente confermato nei successivi Concili Lateranense IV del 1215 e II di Lione del 1274.

Ma torniamo al vangelo: c’è da notare come Marco specifichi come in questa occasione siano i “suoi” che si intromettono nell’azione pastorale di Gesù, definendolo addirittura “fuori di sé”; questi “suoi” sono appunto il suo “clan”, sono i suoi “parenti” che intervengono, spinti non dallo Spirito Santo, ma semplicemente dal loro cuore, preoccupati di come potevano mettersi le cose a causa dell’accesa discussione con i capi religiosi; non potevano essere certo parenti stretti come i fratelli carnali ad interromperlo, non poteva certo essere Maria sua madre, costantemente illuminata dallo Spirito, a “mandarlo a chiamare”: Ella era consapevole di dover rispettare i tempi e la volontà di questo suo Figlio e Signore, e lo faceva con il suo silenzio adorante.
Ma Gesù, “girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
Una risposta secca, questa di Gesù: una risposta un po’ indispettita; una risposta con cui forse vuol disconoscere i suoi parenti, rinnegando Maria, ripudiandola come Madre? Certamente no!
La sua risposta ha semplicemente un valore universale: non è rivolta tanto a Maria e ai “suoi”, quanto a tutti gli uomini; è una risposta che ci provoca tutti direttamente, personalmente: è la risposta, unita allo “sguardo”, con cui Gesù sceglie e, nello stesso tempo, interpella, invita, impegna ciascuno a seguirlo.
La sua condizione logica però è una sola e vale per tutti, nessuno escluso: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,34-39).
Per Gesù quindi, prima di tutto, viene la volontà di Dio: ed è in questa volontà divina che Lui fa nascere tutti i rapporti interpersonali. Chi è in linea con la volontà di Dio? Chi gli permette di compiere solo e sempre la volontà del Padre. Chi dovesse ostacolarlo, interromperlo, disturbarlo, dimostra di non amarlo, perché non capisce cosa significhi per lui fare la volontà di Dio. In pratica Egli ci fa capire che per essere uniti a Lui con legami di autentico amore, non servono i legami della carne e del sangue, quanto piuttosto la decisione di fare come lui la volontà del Padre, in quanto se è vero che Gesù è l’origine della nostra comunione fraterna, è altrettanto vero che questo nostro legame con lui, si fonda e si costruisce all’ombra “luminosa” di quel Padre che egli è venuto a rivelare; Egli in pratica ci introduce nella sua intima e personale relazione con il Padre, invitandoci a partecipare di quello stesso mistero che li unisce: e le parole con cui termina il suo discorso devono costituire per noi la sintesi programmatica della nostra sequela: “chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre”.
Allora, “fare la volontà di Dio”, dev’essere il nostro principale programma di vita; è compiere il “disegno del Padre”, realizzare la sua “idea”; che non è osservare la sua legge in astratto, ma seguire lo stesso cammino di suo Figlio Gesù, portando anche noi la croce del riscatto, così come Lui l’ha portata: con lo stesso amore, con lo stesso attaccamento, con lo stesso proposito, convinti anche noi di compiere la volontà del Padre “nostro”. Amen.

giovedì 30 maggio 2024

02 Giugno 2024 – CORPO E SANGUE DI CRISTO


Mc 14,12-16.22-26 
Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua. E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio». Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. 

Il vangelo di oggi ci ricorda l’istituzione dell’Eucaristia, Corpo e Sangue di Cristo.
E ci sottolinea quanto sia importante la condivisione, quanto sia fondamentale partecipare tutti insieme allo stesso banchetto del Corpo di Cristo, fare cioè “comunione” con i fratelli: oggi infatti è la festa di noi tutti, la festa che ci ricorda l’importanza di essere “Chiesa”.
Alla sua morte Gesù non ci ha lasciato in eredità nulla di questo mondo: non ricchezze, non oggetti preziosi, non una casa, non libri preziosi: ci ha lasciato una cosa sola, sé stesso come nutrimento divino: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo”.
Dio si è fatto carne per noi: è questo il suo grande dono, ed è appunto questo il grande mistero che la Chiesa oggi propone alla nostra meditazione: Gesù è venuto su questa terra, si è incarnato, ha assunto un corpo mortale; non è rimasto lassù col Padre, ma ha accettato di abbassarsi al nostro livello umano; Lui, il senza macchia, si è fatto carico di tutte le nostre colpe, ha assunto un corpo umano da offrire in sacrificio sulla croce, per pagare il prezzo del nostro riscatto: un corpo che ha voluto lasciare qui tra noi nel pane consacrato, instaurando una costante opera di mediazione tra noi e il Padre.
È vero: noi possiamo arrivare a Dio anche attraverso l’amore per una persona, attraverso la contemplazione di un paesaggio incantevole, di un tramonto struggente, delle bellezze inimitabili della natura, attraverso il sorriso di un bambino, di una madre, attraverso le lacrime di gioia di quando siamo felici… Anche queste sono “mediazioni”, sono canali che ci portano a Dio. Ma il più grande, il più autentico, il più immediato “canale” che ci fa confluire materialmente, concretamente in Dio, è il corpo di Cristo, è l’Eucaristia: Dio, attraverso il pane della Messa, si “transustanzia” nel corpo del Figlio, e continua a darsi a noi in un rapporto diretto di amicizia, di grazia, di nutrimento; un rapporto divino, concreto, corporale, una fusione, un assorbimento reale del suo corpo nel nostro corpo, con cui Egli ci rende materialmente compartecipi della divinità del Padre.
E allora, quando alla comunione il celebrante o il ministro, nell’offrirci l’ostia consacrata, ci dice: “Questo è “il corpo di Cristo”, rispondiamogli convinti e con fermezza “Amen”! Sì, è vero!”: apriamo questa nostra misera dimora al Corpo di Cristo che viene dentro di noi, che viene ad abitare in casa nostra, che diventa un tutt’uno con noi, immedesimandosi in noi.
E se in quel momento prodigioso siamo “presenti” in noi stessi, possiamo sussurrare al nostro ospite divino: “Scusa il grande disordine, Signore, questo è il “mio” corpo, e purtroppo non ho di meglio da offrirti …” e possiamo sentire di rimando: “Amen, Sì, lo so, ma non ti preoccupare, figlio mio, io ti amo come sei!”.
Ecco, questo è quel “Magnum mysterium”, quel “sacramentum adorabile”, che i Padri hanno cantato alludendo a questo “”, a questa personalissima, totale e incondizionata accettazione reciproca: un “si”, quello di Dio, portatore di grazie e benedizioni; un “si”, il nostro, che ci impegna seriamente nella nostra vita di cristiani, nella “perfetta carità” fraterna. 
Quindi, per vivere degnamente una nostra “vita eucaristica”, non serve accostarci tutti i giorni alla comunione sacramentale, continuando poi a vivere nella nostra consueta mediocrità, come se nulla fosse accaduto: sarà invece sicuramente più utile e meritorio vivere ogni giorno facendo della nostra vita un dono d’amore a Dio e al prossimo. Se non riusciamo a realizzare questo compito, se non riusciamo a donare, ad esprimere, a offrire agli altri ciò che abbiamo di assolutamente “nostro”, ciò che Dio con la sua presenza concreta ha divinizzato in noi, in una parola, se ci dimentichiamo di Lui, la nostra vita sarà inutile, sarà sterile; le nostre fatiche, le nostre lotte, la nostra passione, la nostra cristianità, non varranno “nulla”, non serviranno a nessuno: né a noi, né a Dio, né ai nostri fratelli. Amen.

 

giovedì 23 maggio 2024

26 Maggio 2024 – LA SANTISSIMA TRINITÀ


Mt 28, 16-20 
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Oggi la Chiesa celebra la festa della SS.ma Trinità. Un titolo che non esiste nei Vangeli; un concetto teologico sconosciuto agli apostoli; essi annunciavano soltanto la loro grande verità: “Quello che è stato crocifisso, Gesù, non è morto, ma è vivo; noi lo abbiamo veduto, lo abbiamo incontrato, e ora lo sentiamo dentro di noi”. Punto. Questa era la loro fondamentale testimonianza: e per la Chiesa nascente ciò bastava. 
Col passare degli anni però i primi cristiani cominciarono a chiedersi qualcosa di più sulla persona di Gesù: “Cosa vuol dire che Gesù è Figlio di Dio?”. E poi: “In che modo Gesù è il Figlio di Dio?”. E ancora: “Chi è Dio?”.
Per noi la vita Trinitaria è una verità raggiunta e ben definita, ma all’inizio non fu affatto così.
Solo nel 325 il primo Concilio Ecumenico, tenutosi a Nicea, stabilì che “il Padre e il Figlio sono della stessa sostanza”, usando per “sostanza” il temine greco “homousios”: che significa esattamente “identici” tra di loro, sia per la “natura” che per la “sostanza”. 
Più tardi, contro la corrente del macedonianismo (nome derivato dal suo fondatore il vescovo Macedonio di Costantinopoli), secondo cui lo Spirito Santo non era la terza persona della Trinità, non era di pari dignità e divinità del Padre e del Figlio, ma subordinato a loro, il primo concilio Ecumenico di Costantinopoli del 381, decretò che anche lo Spirito Santo è ugualmente “homousios”, cioè “consustanziale”, al Padre e al Figlio. 
Colui però che chiarì il mistero della Trinità in maniera chiara, accessibile a tutti, fu Sant’Agostino, che nel suo “De Trinitate” spiegò: “il Padre è Colui che ama (Amans); il Figlio è l’Amato (Amatus); lo Spirito è l’Amore (Amor) che Padre e Figlio nutrono tra loro”. 
Le tre Persone divine sono realmente distinte tra loro. Dio è unico ma non “solitario”: Padre, Figlio e Spirito Santo non sono semplicemente dei nomi che indicano modalità diverse dell'Essere divino, ma sono tre realtà veramente distinte tra loro: “Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio”, dichiara il Symbolum dell’undicesimo Concilio di Toledo (anno 675); sono distinti tra loro per le loro relazioni di origine, come il quarto Concilio Lateranense (anno 1215), sancisce in maniera chiara e definitiva: “È il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede”. 
Tre persone divine, dunque, che tra loro non sono autonome, indipendenti, statiche, bensì dinamiche, sono cioè in assoluta, continua, relazione tra loro: una simbiosi, una compenetrazione reciproca di amore che tutto crea, tutto redime e santifica, definita dal Concilio con il termine particolare di “pericorèsi”, dal greco “perì-kōrèin” cioè letteralmente, “andare, girare intorno, ruotare, accomodarsi, danzare”. Una Trinità - Padre, Figlio, Spirito Santo – che in pratica è Vita, Relazione, Divenire, Amore: un Darsi e Riceversi continuo, persistente, eterno. Una verità che, per noi, non è sicuramente facile da capire e da spiegare. 
Possiamo invece trarre più agevolmente - dall’unione reciproca delle tre persone (ipòstasi) nell’unico Dio - una prima grande verità: che la nostra vita, il creato intero, qualunque cosa ci accada, è tutto costantemente collegato al Padre Creatore attraverso il Figlio; tutto è interconnesso, comunicante col divino, grazie all’Amore Assoluto (Gv 17,11); per cui tutto ciò che ci riguarda è essenzialmente “trinitario”, in quanto nulla può esistere “al di fuori” di questo Amore, al di fuori di questa palpitante, esclusiva, “relazione” divina. 
Una realtà che ci tocca in maniera particolarissima, poiché tutti indistintamente cerchiamo amore, tutti vogliamo essere amati, tutti “sorretti” dall’amore. Dio solo, però, è in grado di saziare questa nostra fame di felicità: è Lui l’unica forza che ci sostiene nelle difficoltà, Lui il calore che ci riscalda l’anima, il medico che ci guarisce le ferite, la guida che ci accompagna lungo il difficile percorso della vita; è Lui quell’energia soprannaturale che ci infonde coraggio, potenza, entusiasmo, fedeltà; il suo amore, insomma, è un sentimento unico, di grande dolcezza, di comprensione, di garbo; un amore di forza, di chiarezza, di determinazione; un amore, soprattutto, intimo, discreto, personale, che non si impone, che non pretende nulla in cambio, e che pertanto non fa paura, non terrorizza, non manipola nessuno. 
Egli, infatti, per mezzo del Figlio, continua ad avvicinare i più deboli, i più derelitti, i più indegni, i peccatori più incalliti, sussurrando a ciascuno: “Sono qui per amarti: ti va di seguirmi, aprendomi il tuo cuore?”. Nessuna “costrizione: non butta giù le porte; sa benissimo che la paura di aprirgli il nostro cuore, di abbandonarci a Lui, di lasciarci amare, ci immobilizza, ci fa sentire indegni; ma Lui, con la sua voce silenziosa e suadente: “Non preoccuparti se non sei ancora pronto ad amarmi, io aspetterò: non rinuncerò mai ad amare proprio te. Qualunque errore, qualunque delitto tu abbia commesso, io continuerò sempre ad amarti!”. Parole che, in qualunque situazione ci troviamo, aprono ad una prospettiva di bontà e di amore, che merita immediatamente, da parte nostra, una risposta valida e adeguata. Amen.