giovedì 3 novembre 2022

06 Novembre 2022 - XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 20, 27-38 
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

 La pagina del vangelo di oggi per noi, per la nostra mentalità, è difficile da capire, è anacronistica, molto lontana dalla nostra cultura e dal nostro linguaggio. Vediamo in particolare di che si tratta. 
C’è ancora una discussione tra Gesù e le autorità religiose: questa volta sono i Sadducei che la provocano, gente colta, che rappresenta quella parte dell’aristocrazia sacerdotale razionalista, che non crede nella dottrina della risurrezione dei morti, così come era stata formulata nell’epoca maccabaica, ritenendola una inutile “aggiunta” alla dottrina di Mosè. 
Essi dunque si avvicinano a Gesù non per chiedere un suo parere, ma con lo scopo evidente di metterlo in difficoltà, di ridicolizzarlo: incrociando infatti la “teoria della resurrezione”, che essi non riconoscevano, con l’istituto giuridico del Levirato (legge mosaica che imponeva al cognato di sposare la propria cognata rimasta vedova e senza figli, per salvaguardare la discendenza e assicurare la sopravvivenza del clan), gli prospettano un caso paradossale, decisamente assurdo, artificioso, grottesco: la storiella di sette fratelli, costretti a sposare tutti la stessa donna, alla quale nessuno prima di morire - né il marito, né in seguito i sei cognati - era riuscito a darle un figlio; da qui la domanda astrusa: “nell’aldilà, di quale dei sette fratelli la donna sarà considerata moglie?”. 
Gesù ovviamente, con la calma e l’eleganza che lo distingue, elude la provocazione, e superando la banale questione dei Sadducei, ne approfitta per parlare del mistero della risurrezione e della vita futura, dando in proposito due risposte. 
La prima di ordine formale: non è possibile servirsi dei nostri attuali criteri razionali per parlare e spiegare l’aldilà. Tutto quello che diciamo sono solo ipotesi, balbettii, allusioni, immagini, parabole. In genere, ogni religione quando affronta il problema della destinazione finale dell’uomo dopo la morte, parla infatti, quando va bene, di luoghi incantevoli, di latte e miele, di pascoli erbosi, di luce splendente, di giardini fioriti; quando invece va male, di fuoco, di tenebre, di tormenti, di angosciose sofferenze. In ogni caso, sono solo supposizioni: è come se un bambino, ancora nel grembo della madre, volesse descrivere il cielo, il mare, un fiore, la fisionomia della mamma e del papà: ma come potrebbe farlo? È impossibile, non può. 
Ebbene: succede la stessa cosa anche quando noi pensiamo l’aldilà. Abbiamo solo dei presentimenti, delle intuizioni, dei segnali, che possiamo cogliere dall’osservazione della natura in cui viviamo, che possiamo trarre dai nostri sentimenti, dalla nostra fantasia: così l’alternarsi delle stagioni con fiori e piante che muoiono e rinascono; il seme piantato che “muore” per rinascere, crescere, e dare frutto; il sentimento dell’amore vero che ci estasia, che ci fa toccare il cielo, che ci unisce in maniera indissolubile, sono tutte semplici “trasposizioni” logiche che, quando oggi “balbettiamo” di aldilà, ci offrono un’idea, vaga e imprecisa, di cosa potrebbe significare “risurrezione, rapporto con Dio, paradiso, vita beata”: ma sappiamo per fede, che la vita in Dio, l’Amore eterno, sarà un’esperienza completamente diversa, sarà un’altra cosa, indescrivibile, talmente sublime da farci cadere in deliquio. 
Di concreto, quindi, non possiamo dire nulla, non possiamo descrivere nulla, non abbiamo alcuna certezza. L’unica cosa certa che sappiamo, l’unica verità sulla quale non possiamo dubitare, è che siamo figli di Dio. Una certezza che dovrebbe bastarci. Perché se arriviamo a capire che siamo veramente figli dell’Altissimo, quale altro motivo potremmo ancora avere per preoccuparci? “Io sono la risurrezione e la vita”, siamo figli suoi, figli della Risurrezione! Qualunque morte futura non potrà mai farci paura. 
La seconda risposta è di ordine concettuale: c’è un “aldilà” e Gesù lo fonda sul rapporto di amicizia che l’uomo, durante la sua vita terrena ha stabilito con Lui. Dice: “Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi” e ancora: “Il Signore è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”
I Patriarchi cui Gesù qui si riferisce, sono state persone che nella loro vita hanno amato e servito Dio: sono state creature “amiche” di Dio, “vive”, fedeli a Lui. 
Con queste persone, con tutta la loro discendenza, e con tutta l’umanità grazie a loro, Dio ha stabilito un legame indissolubile di amicizia, di amore, di speranza. E poiché Dio è fedele, dobbiamo credere a questa promessa; è sulla certezza di questa Sua fedeltà che dobbiamo poggiare la nostra fede nella “risurrezione”. Chi si appoggia a Lui è come il ramo di una pianta: anche se non porta frutto, anche se la linfa non scorre più in esso, anche se muore, non può separarsi, non può staccarsi di sua iniziativa da quel tronco che l’ha originato. Fidiamoci. Come un amico si appoggia ad un altro amico, la sposa allo sposo, un bimbo alla mamma, così dobbiamo appoggiarci a Dio. Perché Dio è l’unico essere che non abbandona le sue creature. 
Ogni giorno sperimentiamo questa Sua fedeltà: anche se sbagliamo, anche se ci allontaniamo da Lui, anche se in certi giorni non accettiamo ciò che ci propone, anche se gli siamo infedeli e lo tradiamo (che poi non facciamo nient’altro che tradire noi stessi), Lui rimane con noi, Lui è sempre presente. Lui è roccia (in ebraico hesed, roccia, significa amore fedele): Lui è granito; è la mano che non si stanca di sorreggerci, che non molla, che ci tiene forte. 
Nelle nostre categorie umane, non sappiamo con esattezza cosa voglia dire “Risorto, risurrezione”: sappiamo bene però che Dio è Vita, è Amicizia, è Amore, è Colui che non ci abbandona mai, qualunque cosa succeda: e questo ci deve bastare. 
Dobbiamo solo affidarci a Lui, consapevoli che con Lui non cadremo nel buio, nel vuoto: se la nostra vita poggia su di Lui, infatti, durerà per sempre, perché Dio è eterno e offre ai suoi figli solo amicizia eterna. 
Quindi: se noi in questo cammino terreno abbiamo riconosciuto Dio, se lo abbiamo fatto diventare centro della nostra vita, se lo abbiamo amato, nonostante le nostre fragilità, non dovremo avere mai alcun motivo per temere: perché il nostro incontro con Lui, alla fine del nostro percorso, sarà come l’incontro tra due persone che si amano. Se al contrario Dio è rimasto estraneo, sconosciuto, se lo abbiamo relegato tra le cose inutili, se nella nostra esistenza lo abbiamo ignorato, contrastato, oltraggiato, vilipeso, allora sì che dovremo avere paura! 
È questo il motivo per cui la morte, con quello che ci aspetta nell’aldilà, costituisce l’incognita più tragica e angosciante: ma ciò non deve preoccuparci, perché risponde al nostro bisogno naturale di voler sapere, di avere il controllo su tutto, di essere sempre noi a gestire qualunque situazione. 
Gesù al contrario ci chiede oggi di abbandonare queste fantasie, questa innata presunzione; ci chiede semplicemente di aver fiducia; ci chiede di fidarci di Lui. “Perché debbo fidarmi?”, gli chiediamo; “perché ti amo”, risponde Lui: “Osserva attentamente la tua vita, e vedrai quanto ti ho amato e quanto continuo ad amarti; e se ti amo così intensamente, come potrei abbandonarti? Fidati di me!”. 
Giusto: solo che la fiducia, quella sincera, quella totale, esige confidenza, adesione, fedeltà. Esige soprattutto amore: perché è l’amore che ci spinge, che determina il nostro fidarci, il nostro andare avanti con sicurezza: e questo, credetemi, non dipende dal fatto che sappiamo dove andremo, cosa faremo, come saremo; ma piuttosto perché conosciamo Lui, perché ci fidiamo ciecamente di Lui, perché è Lui che ci guida. 
Una sera di tanti anni fa, alcuni amici mi hanno bendato e mi hanno detto di fidarmi e di lasciarmi condurre. Non era il mio compleanno, non c’erano motivi particolari per questa sceneggiata. Non mi fidavo; anzi, poiché non capivo il senso della cosa, avevo paura di qualche “brutta” sorpresa, facevo un sacco di domande, tenevo le mani avanti ed ero attento ad ogni rumore. Non avevo la più pallida idea di come sarebbe finita. Quando mi tolsero la benda, meraviglia: c’era una grande tavola imbandita con tutti i miei amici più cari seduti intorno. Volevano solo festeggiare con me i decenni trascorsi insieme in grande e sincera amicizia. È stato emozionante. 
Ebbene, questo rappresenta, molto pallidamente, quella che è la nostra vita attuale e quello che ci succederà quando andremo di là: abbiamo paura nell’andare, siamo bendati, vogliamo sapere, ma poi una visione incantevole ci apparirà. Sarà una festa decisamente diversa da come la possiamo immaginare ora: inutile pensarci, inutile cercare di farci delle idee a modo nostro; inutile voler sapere ad ogni costo i particolari. Sappiamo solo che sarà un tripudio d’amore. Punto e basta! 
Noi siamo come i bambini al momento della loro nascita: sono traumatizzati dal dover uscire, dal lasciare un ambiente tanto confortevole; non sanno che quel passaggio così difficile è la loro unica salvezza, è l’inizio di una nuova vita, una nuova, inimmaginabile, meravigliosa, avventura che inizia tra le braccia accoglienti, calde, protettive e amorevoli della loro mamma.
Tante persone sono scioccamente convinte che il risultato finale, l’inferno o il paradiso, sia solo una questione di fortuna, un po’ come giocare alla lotteria: la speranza è di vincere, ma può capitare anche di finir male. Nossignori. L’inferno o il paradiso non capitano a caso: l’inferno o il paradiso ce li scegliamo noi, ce li costruiamo noi; il futuro è soltanto nelle nostre mani: quando andremo di là, Dio non farà altro che confermare la nostra scelta! Scegliamo allora la Vita, amici! Scegliamo fin d’ora il Paradiso, la gioia, la pace! Scegliamo l’Amore eterno, e in Lui ci sentiremo completamente soddisfatti, felici, e soprattutto amati! Amen.

 

giovedì 27 ottobre 2022

30 Ottobre 2022 - XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

 


Lc 19, 1-10  
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 Gesù stava andando verso Gerusalemme: era quindi costretto ad attraversare la cittadina di Gerico, posta a circa trenta chilometri dalla capitale giudaica, lungo la grande via di comunicazione che, dalla Galilea e la Samaria, entrava in Giudea. Per questa sua posizione la città era un punto strategico dell’amministrazione romana: era quindi normale incontrare in essa funzionari imperiali, uomini dell’esercito, e “pubblicani”, ossia quei residenti del luogo, incaricati dagli invasori di gestire per loro conto la riscossione delle tasse. 
È quindi qui a Gerico che Zaccheo incontra Gesù. O meglio, è Gesù che “incontra” qui Zaccheo! Ma chi è questo pubblicano di nome Zaccheo? 
Il suo nome (in ebraico Zakkay) significa “giusto, puro, immacolato”, ma nessuno di quanti lo conoscono, sicuramente, lo considera tale; nessuno degli uomini, ma Gesù sì: perché anche se l’uomo si comporta da ladro, da profittatore, anche se è un corrotto, un disonesto o quant’altro, Dio riesce sempre e comunque a scorgere in lui quel minuscolo seme di bontà, quell’invisibile “marchio” divino, che lui stesso ha impresso nel suo cuore donandogli la vita. 
Il termine “pubblicano” è dunque per la gente sinonimo di “immorale”; dare del “pubblicano” a qualcuno equivaleva dargli del falso, del ladro, del traditore. E Zaccheo non solo è un pubblicano ma è il capo dei pubblicani: il più ladro dei ladri. E tutti lo sanno! È insomma un poco di buono, un infedele, un venduto ai Romani invasori, un collaborazionista, un peccatore. Uno che si è arricchito a dismisura, defraudando la povera gente. 
Ma Zaccheo “cerca di vedere”: un verbo, quel “cerca”, che lascia chiaramente intuire il suo proposito di trovare una soluzione alternativa alla sua: il presente non lo soddisfa, dentro di lui c’è tormento, inquietudine, irrequietezza: non è felice; egli materialmente ha tutto, ma quel tutto non gli basta più, perché la felicità non sta nelle cose materiali ma nei valori morali. Le “cose” devono servire soltanto per raggiungere quei valori, i soli che possono dare all’uomo una serenità e un appagamento totali.  
Zaccheo, quindi, decide in quel giorno, di fare improvvisamente qualcosa di diverso: abbandona per qualche ora il banco delle imposte, per andare a vedere Gesù.
Ha sentito molto parlare di quel Maestro che dona a tutti salute, pace e serenità, e lui vuole sincerarsene, vuole “vedere” con i propri occhi, vuole rendersene conto. Perché, 
nonostante sia uno materialmente “superiore” agli altri, nonostante sia un uomo affermato, potente, egli non è soddisfatto di sé stesso, si sente inappagato, menomato, privo di quella ricchezza spirituale così tanto “diversa” dalla sua, e per questo avverte nel suo cuore un forte disagio. 
Da qui la sua reazione: 
trova dentro di sé un residuo di forza per riscattarsi, per ribellarsi da questa situazione, ogni giorno sempre più soffocante, insopportabile: e va.
Ma c'è un ma: oltre che “piccolo” spiritualmente, egli è piccolo anche di statura. 
E allora, pur essendo uno degli uomini più in vista della cittadina, incurante dei commenti sarcastici della folla, si arrampica su di un robusto sicomoro per veder “passare”, per poter comodamente osservare da vicino lo sconosciuto “predicatore” così tanto osannato dalla gente. Ci vuole molto coraggio! Il suo infatti è un esempio forte, significativo, trainante, in particolare per tutti quelli che ancora oggi vogliono incontrare Dio, ma sono trattenuti dalla piaga morale del “rispetto umano”. 
Zaccheo, salito sull’albero, in qualche modo si tranquillizza, da “piccolo” qual era, si sente già un “grande”: ora può finalmente “vedere” Gesù; ma è Gesù che lo “vede” per primo! E che fa? Non improvvisa catechesi, non fa predicozzi, non impone a Zaccheo di convertirsi, di cambiare vita: lo chiama semplicemente per nome "Zaccheo!". Se per tutti gli altri egli è “il capo dei pubblicani”, il “riccone” imbroglione, per Gesù è soltanto “Zaccheo”. Chiamare per nome una persona significa già dargli rispettabilità, dargli un volto, riconoscergli dignità: in questo caso è come se Gesù dicesse: “Io credo in te Zaccheo, so che in te c’è qualcosa di prezioso. Non è necessario che tu rimanga su quell'albero. Per gli altri sarai anche un ladro, un venduto, ma io vedo in te un’anima che soffre, uno spirito che vuole sinceramente riscattarsi”. E gli fa una proposta, secca, veloce, efficace: “Scendi subito!”. (Da notare che Gesù è sempre diretto, lapidario, con chi gli chiede qualcosa: “alzati; taci; esci; mettiti nel mezzo; vai dai sacerdoti; apriti; vieni fuori”; ecc..); e gli dice anche il motivo: «perché oggi devo fermarmi a casa tua». Zaccheo non sa esattamente cosa voglia Gesù, ma intuisce, “sente” che qualcosa di grande, di estremamente importante, sta per accadergli: scende, e crede; scende e guarisce; scende e spalanca a Dio le porte del suo cuore! Obbedendo a Gesù, sceglie l’amore. Non più accumulo di ricchezze, non più scelte squallide, non più disordine interiore, ma generosa “condivisione” di carità, di amore fraterno: «do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». L’entusiasmo spontaneo del pentito, dell’innamorato, l’esplosione di gioia del “rinato”: ma amare non è “dare”, è “darsi”, è donare sè stessi, donare agli altri il nostro surplus di amore divino. L’amore non è elitario, non è esclusivo di pochi ricchi fortunati: tutti indistintamente possono amare, anche i poveri, anche chi non possiede proprio nulla; perché per amare basta avere cuore. 
Gli uomini si convertono all’amore soprannaturale non perché l’hanno fatto i Santi del calendario, ma perché si rendono conto che vivere senza alcun contatto personale con Dio, vivere senza dare e ricevere amore, non è vivere, ma un lento, inarrestabile annullarsi, precipitare nel nulla, preferire caparbiamente una morte tetra, tenebrosa, ad una vita splendente e gloriosa. 
È Dio che ci cerca: è sempre lui che prende l’iniziativa, anche se non ce ne accorgiamo: Lui ci ama da sempre come siamo, indipendentemente da “chi” siamo, da “come” viviamo. Dio non ci ama perché siamo buoni, ma è Lui che amandoci ci rende buoni. 
Di fronte a tanto, scendiamo allora anche noi dai nostri “sicomori”, obbediamo anche noi alla sua Parola; spalanchiamo generosamente le porte a questo Dio, che aspetta pazientemente di entrare nella nostra casa: cerchiamo, anche noi, Colui che ci cerca da sempre. Smettiamola di giocare a rimpiattino con Lui, lasciamoci raggiungere, abbandoniamoci, diventiamo suoi! 
Gesù non mercanteggia, non “vende” nulla, non pone condizioni al suo amore: Egli lo dona continuamente, gratuitamente, a tutti; non può farne a meno, perché Lui è Amore infinito, incondizionato, assoluto: se Gesù avesse posto delle condizioni, se avesse detto a Zaccheo: “Non temere, so che sei un ladro, ma se restituisci il quadruplo di ciò che hai rubato, vengo a casa tua per stare con te”, credetemi: Zaccheo non si sarebbe mosso, non sarebbe mai sceso dall’albero! 
Crediamo dunque in Lui, nella sua Parola: è la nostra garanzia perenne; non importa se ci troviamo ancora immersi nella nostra materialità, nel nostro nulla; non importa se abbiamo già fatto un tratto di strada, oppure se dobbiamo ancora iniziare; non importa se dall’alto del nostro “ego”, stiamo ancora aspettando di “vedere” il passaggio di Gesù nella nostra vita; nulla deve importarci, nulla deve distrarci, perché noi sappiamo, e ne siamo certi, che l'oggi in cui Dio vuole entrare in casa nostra, siamo noi a stabilirlo, dipende solo da noi: è un “oggi” sempre valido, perché appartiene al suo “presente” eterno. Amen.

 

giovedì 20 ottobre 2022

23 Ottobre 2022 - XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO



Lc 18, 9-14 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La parabola di oggi ci propone due personaggi, uno fariseo, l’altro pubblicano; due uomini “diversi”, che si accingono a pregare: e lo fanno, in due modi altrettanto diversi. 
Il fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono: fariseo significa, infatti, “separato”, uno che si “distingue”; farisei erano coloro che si dedicavano all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità, si sentivano “separati”, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso siano proprio i giusti, i fedeli, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere. 
Poi c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici dei Romani, gli invasori, gli occupanti; erano considerati dei traditori, dei collaborazionisti, e per questo erano cordialmente odiati dagli ebrei.
I due dunque salgono al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nel pregare, che i due rivelano la loro profonda diversità: una preghiera, quella del fariseo, lunga, piena di precisazioni, autoreferenziale, compiaciuta, mentre quella del pubblicano è brevissima, umile, intimamente e profondamente contrita. 
«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé»: un atteggiamento normale per l’ebreo osservante, quello di pregare rimanendo dritto, in piedi, con lo sguardo rivolto in direzione del “Santo dei Santi”, la parte invalicabile del Tempio, sede dell’Arca; Luca però lo interpreta qui come un segno di superbia: è possibile infatti notare questa sfumatura nell’uso particolare del verbo “prosèuketo, pregava”, che letteralmente significa “rendeva grazie (“èuketo”) a favore di sé stesso (“pròs”): con la sua preghiera, quindi, egli ringraziava Dio per averlo fatto “diverso” dai miserabili, dalla gentaglia che gli stava intorno: una preghiera che non era altro che un misero panegirico di sé stesso: prima di tutto, si affretta a precisare ciò che lui non è: non è un disonesto, non agisce fuori della legge, non è un ladro, non è un adultero, non è in pratica come l’altro, un “pubblicano”; poi, non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: lui digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescriveva la Legge, che limitava il digiuno solo per alcuni giorni all'anno), lui paga regolarmente le “decime”, (ossia la decima parte degli averi, la tassa destinata al tempio e ai poveri). Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla. Quello che sostiene è in apparenza tutto vero. Il fariseo, bontà sua, sembra veramente una persona esemplare. 
Il “pubblicano”, invece, se ne sta a distanza, piegato fino a terra. Egli è consapevole di far parte di quelle persone, malviste da tutti, proprio per la loro vita senza scrupoli, amorale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i miseri, i deboli; era coinvolto in traffici di denaro “sporco”: faceva insomma un mestiere maledetto, oltretutto proibito agli ebrei: egli ne è consapevole, è pentito di questo, per cui quando si riconosce “peccatore”, dice la verità, è sincero con sé stesso, non si nasconde dietro a scuse, attenuanti, falsità: il suo atteggiamento di battersi il petto, prostrato con il volto a terra, ne è la conferma.
Entrambi quindi all’esterno sono ineccepibili, sinceri: ma Gesù, che scruta l’anima, che legge anche i pensieri più intimi, più nascosti, afferma con decisione che uno se ne va giustificato, cioè cambiato, reso giusto, scagionato, e l'altro no. Perché? Scendiamo nei particolari.
Il fariseo inizia molto bene: «O Dio, ti rendo grazie»; si rivolge cioè a Dio esprimendogli “lode e onore”, come dovrebbe fare chiunque prega: la funzione dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio, di esprimergli gratitudine, riconoscenza. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa, per mezzo di Gesù Cristo”. Se capissimo veramente l’importanza di ringraziare Dio per tutto, per ogni cosa che ci capita, gioiosa o dolorosa che sia, la nostra vita si trasformerebbe in una “Eucaristia” perenne, in una “liturgia”, in una lode a Dio, sincera e continua. 
Poi però, nel voler eccellere rispetto agli altri, sbaglia tutto, scredita sé stesso, finisce col precipitare in basso: la sua “preghiera” non è preghiera, non può risultare gradita a Dio, perché in pratica egli giustifica la sua disonestà interiore, il suo “nulla” spirituale, enfatizzando quelle quattro cose materiali che egli compie. Non è onesto con sé stesso, si inganna, mente, racconta un sacco di falsità, non perché quanto afferma non corrisponda al vero, ma perché considera le sue azioni soltanto dal punto di vista materiale, esteriore; mette cioè in evidenza il semplice fatto di averle “compiute”, punto: che poi è quello meno importante, meno meritorio per Dio, ma di contro quello fondamentale per il suo “ego”, per il suo apparire, per la gloria umana. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che in realtà anche lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore, un meschino trasformista.
Purtroppo, in una società come la nostra, votata al carrierismo, all’apparire, all’esibizionismo assoluto, c'è sempre qualcuno che, pensando di essere perfetto, si “gonfia”, come il fariseo, attribuendosi meriti e qualità inesistenti: c'è sempre qualcuno che, non vedendo la spazzatura maleodorante che ristagna dentro il suo cuore, a causa delle tenebre che lo avvolgono, si permette di giudicare con disprezzo il prossimo ritenendosi superiore a tutti, distinguendosi con arroganza dalla mediocre folla dei “poveracci”. Sono quelle persone che hanno ormai rimosso così magistralmente dalla loro coscienza ogni traccia di trasgressione, di debolezza, di imperfezione, di pentimento, da “sentirsi” completamente “puliti”, immacolati: sono quelli che disinvoltamente pregano appunto “a voce alta”, “in piedi”, per farsi notare, convinti di essere non dei gretti opportunisti, ma degli ottimi cristiani, osservanti e fedeli.
Il pubblicano invece, contrariamente al borioso fariseo, nella sua preghiera non millanta meriti inesistenti, non nasconde a sé stesso le sue responsabilità: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»: una realtà che lo confonde, lo addolora sinceramente; per questo chiede perdono, chiede pace, misericordia, riconciliazione per i suoi lati oscuri, per i suoi peccati, per i suoi errori, per le ferite e le offese procurate ad altri. Egli riconosce che la sua situazione è compromessa, non mente a sé stesso, non cerca giustificazioni. Sa di aver bisogno di Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa” dei leoni, dalla cattiveria. Lui sa di essere ammalato, sa di aver bisogno di un medico spirituale, e ricorre alla misericordia di Dio. Per questo torna a casa giustificato, sentendosi amato, liberato, pacificato.
Succede purtroppo che quando stiamo davanti a Dio, quando preghiamo, anche noi talvolta ci aggrappiamo alla nostra “rispettabilità”, mentiamo sulle nostre vere intenzioni, contrabbandiamo qualche menzogna per verità; indossiamo insomma anche noi le maschere del mondo, creandoci una identità posticcia, pensando di far bella figura con Dio.
Chi ci vede “pregare”, chi ci vede andare in chiesa, fare carità, impegnarci nel volontariato, non potrà che esclamare: “Ma che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare!”. Solo che di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non valgono; ai suoi occhi tutte le nostre costruzioni di sabbia, crollano rovinosamente, e rimaniamo soli davanti a Lui, nudi e spogli. Perché è soltanto dalla “verità”, dalla sincerità, dall’umiltà, che sgorga la vera preghiera, quella che piace a Dio, quella sola che Lui sa apprezzare.
Ecco perché la preghiera non deve partire dalle labbra, non deve essere formale, puramente esteriore; ma deve nascere dal cuore, deve essere intima, sincera, onesta, vera: pregare è spalancare a Dio tutti gli ermetismi della nostra vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra per consentire alla sua luce, al suo calore, di illuminare e sanare ogni angolo oscuro; e al suo amore, di bruciare, di estinguere quelle voci malefiche che urlano dentro di noi, che noi fingiamo di ignorare, di soffocare, poiché ci ripugna anche solo ammettere la loro esistenza. Dio non ha paura, non teme nulla; noi abbiamo paura, Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non si scandalizza delle nostre nefandezze, ci ama sempre e comunque, così come siamo, in tutto il nostro squallore. Lui può andare anche là dove noi ci rifiutiamo di andare. “Pregare” allora, per noi, significherà lasciarci condurre per mano da Lui; pregare sarà permettergli di entrare nei bassifondi della nostra coscienza, proprio là dove noi ci rifugiamo per nascondere la vergogna, il disgusto per la nostra falsità, per la nostra doppiezza; dobbiamo solo armarci di umiltà e distruggere i nostri invadenti miraggi di fama, di potere, di grandezza: dobbiamo insomma spogliarci completamente da quell’innato orgoglio “farisaico”, da noi tanto amato e ostentato. Amen.

 

 

giovedì 13 ottobre 2022

16 Ottobre 2022 - XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


 Lc 18, 1-8 
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 La parabola del vangelo ci presenta oggi due personaggi: un giudice e una vedova. Per la Bibbia, uno dei compiti primari dei giudici era quello di difendere i più deboli, cioè i bambini, le vedove, i poveri. Ma non è stato sempre così neppure allora: in realtà, la stessa Bibbia condanna più volte le ingiustizie commesse con la complicità e l’appoggio di giudici disonesti (1Re 21,8-14; Am 5,10-33; Mic 3,1-2); come si vede, da che mondo è mondo, il malcostume è sempre esistito!  
Questo giudice dunque non teme nessuno, se ne infischia altamente di quanto la gente può pensare o dire sul suo conto. Non ha una coscienza morale che gli crei sensi di colpa o lo induca a ricredersi sui suoi comportamenti. 
È quindi partendo da un caso di mala giustizia che Gesù costruisce la sua parabola: un giudice corrotto, dovendo risolvere il caso di una donna completamente povera, impossibilitata a pagargli una tangente extra, rimanda continuamente la sentenza, per poi addirittura accantonarla in attesa di tempi migliori. La poveretta, ovviamente, sprovvista oltre che di beni anche di amicizie influenti cui chiedere aiuto, non può fare nulla: tecnicamente il suo è un caso chiuso in partenza, irrisolvibile: non le rimane che la resa.
Solo che questa volta la donna è una “tosta”; una che non si ferma di fronte a nulla, una che noi oggi definiremmo, più argutamente, una “rompiscatole”: infatti ogni santo giorno, puntualmente, senza mai demordere, ella continua a presentarsi imperterrita davanti al giudice per sollecitare il riconoscimento dei suoi diritti: il verbo greco all’imperfetto, ci sottolinea proprio la ripetitività costante di questa sua azione. Alla fine questa sua tenacia, questa sua ostinazione avrà la meglio, la poverina verrà giustamente ripagata.
Quanti di noi, invece, di fronte a difficoltà anche minime, si scoraggiano, si bloccano, rinunciando perfino a trovare qualche possibile soluzione. Preferiscono fare le vittime, farsi compatire. Quando invece la donna della parabola sembra dirci: “Fai come me. Provaci sul serio, continuamente; lotta, non abbatterti mai, non guardare solo alla difficoltà, ma abbi fede, conta sulle tue forze; soprattutto fidati di Dio, del fatto che Lui è sempre con te, al tuo fianco; pregalo e Lui correrà in tuo aiuto”. Bisogna “combattere”: il verbo greco “hypopiàzo”, usato qui da Luca, significa esattamente “colpire ripetutamente, colpire sotto la cintura, tormentare, importunare, dare fastidio”. La vedova, in pratica, diventa per il giudice un incubo, una incessante sequenza di “colpi bassi”, una puntuale, costante scocciatura. Una situazione insomma veramente insopportabile! Ora, non è che con Dio dobbiamo comportarci proprio così (di rompiscatole ce ne sono già troppi in giro!); ma se teniamo a qualcosa, se qualcosa è per noi veramente importante, vitale, indispensabile, dobbiamo tentare tutte le vie a nostra disposizione.  
Il messaggio della parabola è molto chiaro: “Insisti: sii ostinato, caparbio, assillante; abbi fede, sii fiducioso, non arrenderti, non mollare, tieni duro”. Questo, tuttavia, non significa imporre a Dio la nostra volontà, pretendere che faccia ciò che vogliamo noi: sarebbe un delirio di onnipotenza! Dobbiamo semplicemente non lasciare nulla di intentato, affidarci alla fede, percorrere quella strada nuova e sconosciuta che essa ci suggerisce. Se ci accontentiamo delle solite vie che già conosciamo, la fede non serve: basta ripetere i passi che abbiamo sempre fatto; ma sappiamo già che questa scelta non porterà a nulla. Ciò che invece ci serve è la fede della vedova, essere cioè sicuri, come lei, che prima o poi una soluzione ci sarà: non sa come, non sa quando, ma sa per certo che arriverà: e agisce di conseguenza. Se non abbiamo fede, se non crediamo che le cose possono cambiare, non cambierà mai nulla. Virgilio esprime con parole sue questa grande verità: “Possono, perché credono di potere”. Conclusione: se non crediamo in ciò che facciamo, se non abbiamo fede, se non “sfianchiamo” Dio con la preghiera, non arriveremo mai a nulla. 
L’importanza della fede! Ma come siamo messi oggi con la fede? Pensiamo qualche volta al tragico interrogativo che Gesù pone anche a noi alla fine del vangelo di oggi: “Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà ancora la fede sulla terra?”
Certo, durante la predicazione per le strade della Palestina, Gesù di interrogativi ne ha posti tanti; ma questo, in particolare, mette veramente l’angoscia, perché prospetta la tremenda possibilità di un “domani” completamente senza fede, che la fede in questo mondo sia una virtù introvabile, scomparsa, inutile, sconosciuta. Una prospettiva drammatica, carica di allarmanti conseguenze, che noi mentalmente proiettiamo in un futuro molto remoto, alla “fine dei tempi”, senza accorgerci che, per certi versi, è una situazione molto concreta già nel presente, nell’oggi.
Gesù infatti non si chiede se quando tornerà sulla terra, ci saranno ancora associazionismi, movimenti cattolici, congregazioni ecclesiastiche, “iniziative” pastorali e liturgiche, giubilei, sinodi; non si chiede se esisteranno ancora la Chiesa, il papa, i vescovi, i preti; se la gente andrà ancora a Messa, o farà ancora la carità. No! Gesù non si preoccupa di tutto questo, di questi “organismi esteriori”: Egli si chiede semplicemente se ci sarà ancora, o no, la fede! E scusate se è poco! Per sincerarsi di questo non c’è bisogno di aspettare il suo ritorno, non serve spingersi troppo in là nel tempo, perché già da oggi Egli può vedere come la fede, quella vera, sincera, profonda, la fede che piace a Lui, sia praticamente inesistente, o quantomeno molto rara; come la preghiera del “popolo di Dio” sia troppo spesso priva di “fede” (da non confondere la fede con alterazioni psichiche esibizionistiche); come i Sacramenti siano vissuti e praticati senza fede, il seme dell’annuncio evangelico cada sistematicamente sul terreno arido; come ahimè anche in gran parte del clero, dei movimenti religiosi, degli associazionismi cattolici, la fede in Dio non sia più cristallina, sincera, profonda, esclusiva, ma contaminata, deformata, fagocitata da superficialità, esibizionismo, infatuazione, materialismo. 
Di fronte però a questa preoccupante situazione, di fronte ad una società, ad un mondo contrario a Dio, sempre più ingiusto, più crudele, più materialista, noi cristiani, noi cattolici, che dovremmo essere i convinti, fedeli sostenitori e collaboratori di Cristo, come ci comportiamo? Da perfetti incapaci: ci demoralizziamo, cadiamo nel sonno dell’apatia, siamo indifferenti, spiritualmente asfittici, involuti; mantenere integra la fede è l’ultimo dei nostri problemi! Inutile offenderci, scandalizzarci: è la sacrosanta verità! Credere con coerenza, con fervore, oggi è una rarità, è sempre più difficile: il “buon” cristiano, quello che in cuor suo si ritiene tale, è debilitato, insicuro, frastornato da mille opinioni innovative contrastanti, da catechesi sterili, inconcludenti; non coglie più indicazioni certe neppure dai pastori, da quegli “Episcopoi”, ai quali Gesù ha affidato la guida e la custodia del suo gregge. Oggi il dubbio attanaglia il cuore anche i più fedeli: eventi come le guerre per il potere, l’arricchimento truffaldino, il relativismo culturale, le dilaganti ideologie amorali, sono diventati “normalità”: Dio, Cristo, la Chiesa, vengono pubblicamente, mediaticamente, irrisi e dileggiati; perfino le Chiese, dimora del sacro, del Dio Eucaristia, vengono dissacrate da iniziative fasulle, con mostre ed esibizioni di pseudo “artisti” e scrittori, peraltro osannati da una critica acefala e servile. Tutto è messo in discussione, tutto è messo alla berlina, tutto è negato, tutto è oltraggiato. 
Dio aveva consegnato all’uomo un mondo che doveva diventare un capolavoro di fraternità, di amore, di rispetto, di pace: ma questi, con la sua presunzione, con il suo egoismo, lo ha ridotto ad una spelonca di ladri, di malfattori, un accumulo di falsità e ingiustizie.
Ebbene, di fronte a tanto sfacelo, il Vangelo di oggi ci ricorda che nulla è irrimediabilmente perduto, ci ripete ancora una volta quanto sia importante la “fede in Dio”, quanto sia determinante la “costanza” nella preghiera: tutti indistintamente siamo chiamati a ridare spazio, visibilità, convinzione, forza ed entusiasmo alla nostra fede, nei confronti di quel Dio che con noi ha sempre dimostrato “fedeltà e amore” in maniera pronta, sicura e innegabile; dobbiamo pertanto impegnarci ad arginare l’attuale nefasta situazione, così drammatica e invasiva: non possiamo più avallare questa subdola e trasgressiva adulterazione dell’autentico messaggio di Cristo, in nome di un falso “buonismo”, di una fantasiosa “fratellanza universale”. Riprendiamoci il nostro autentico “credo” cattolico, difendiamo i nostri sani principi, le nostre tradizioni millenarie, la nostra morale cristiana.
Non servono barricate, non servono manifestazioni di piazza: serve soltanto un’azione personale, umile, convinta, perseverante, alimentata da una preghiera incessante, puntuale, insistente; serve una vita vissuta coerentemente con una fede coraggiosa, autentica, costante, fiduciosa: perché questa è la certezza che ci offre il vangelo: Dio farà «giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui». Se da noi sollecitato, sarà Dio stesso che interverrà a mettere le cose a posto. Fidiamoci di Lui, crediamo in Lui. Anche se non capiamo bene come, lui lo farà sicuramente: e questo ci basti! Amen.

 

giovedì 6 ottobre 2022

09 Ottobre 2022 - XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17, 11-19
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

 Gesù entra in un villaggio e gli vanno incontro dieci lebbrosi. La lebbra, allora, era considerata la peggiore delle malattie, non tanto per gli effetti devastanti sulla persona, quanto per le conseguenze sociali che comportava: il lebbroso per la società era infatti un morto vivente, un escluso, uno che non poteva avere più contatti con nessuno, che andava assolutamente evitato. Avere la lebbra significava essere condannato a morte lenta. Qualora il malato guarisse, cosa molto rara, aveva l’obbligo di presentarsi, prima di tutto, ai sacerdoti del tempio, l’unica autorità che, dopo averlo sottoposto a severi controlli rituali, era in grado di dichiararlo “puro”, cioè guarito, e quindi libero di reinserirsi nella società. 
Qui Gesù – contrariamente al suo solito nei casi di guarigione - non fa ai dieci nulla di particolare: non li tocca, non si informa su di loro, sulla loro vita, non li guarisce immediatamente. Si limita semplicemente a mandarli dai sacerdoti, così come sono, ancora malati, ancora lebbrosi. Come mai? Non poteva prima guarirli? Oppure la guarigione dipendeva proprio da questo loro “andare” dai sacerdoti? In effetti è così: i poveretti non chiedono spiegazioni, non oppongono alcuna resistenza, ma eseguono immediatamente l’ordine di Gesù: essi credono sinceramente in Lui, hanno una fede profonda, sono convinti che Lui li guarirà. 
Non doveva essere facile per loro presentarsi a quell’autorità che, proprio per la loro malattia, li aveva cacciati, segregandoli dalla comunità; tuttavia essi, senza frapporre indugi, sfidano a testa alta il giudizio del pubblico e delle stesse autorità. Ecco; il segreto della loro guarigione sta proprio qui: nell’aver recuperato, grazie a Gesù, la fiducia in sé stessi, una fiducia che li determina ad affrontare e risolvere questa loro situazione particolarmente difficile e problematica. 
Se anche noi non proviamo a muoverci, a raggiungere concretamente una migliore condizione di vita, un ideale, un sogno, saremo sempre fermi nelle retrovie, non riusciremo mai a raggiungere alcun traguardo. Così, se non siamo convinti che Dio ci ama, che Lui può cambiare la nostra condizione, se dubitiamo, se siamo scettici, non potremo mai collaborare con Lui alla nostra “guarigione”. Se rimaniamo nell’idea di non poter mai guarire, in nessun modo, non guariremo mai! 
Se ci troviamo in qualche situazione critica, particolarmente brutta, negativa, vergognosa, il nostro naturale impulso è quello di nasconderci, di scappare, di isolarci, per evitare di dover fornire spiegazioni a chiunque ci conosce. Gesù invece ordina: “Fuori. Hai paura di esporti? Bene: è lì che devi andare! Vai, cammina, apriti, fatti vedere, chiedi aiuto e agisci: non vergognarti di rimediare, di guarire”.  
Ai lebbrosi che invocano la sua misericordia, Egli non dice: “Mettetevi qui a pregare”, ma: “Andate dai sacerdoti”; egli cioè ordina loro di raggiungere una destinazione ben precisa, una strada da percorrere, non un rassegnato immobilismo, una staticità passiva. Qualunque “richiesta” di aiuto, qualunque preghiera rivolta a Dio, presuppone quindi una convinta disponibilità a soddisfare le sue condizioni, altrimenti le nostre preghiere, le nostre richieste, si riducono ad un inutile lamento, ad una filastrocca di suppliche vuote e superficiali. Per pregare Dio con fede vera, dobbiamo prima di tutto spogliarci completamente del nostro “ego”, delle nostre pretese, delle nostre presunzioni; quindi, spalancare la nostra mente, liberare da ogni costrizione il nostro cuore, la nostra anima, completamente disponibili a muoverci, a partire, a cambiare direzione, a fare esattamente cioè quello che Gesù ci chiede.
Non cadiamo in un qualunquismo religioso, non trasformiamo il Vangelo, la Parola di Dio, in una egoistica e distorta religione personale, a servizio esclusivo di ciò che ci fa comodo: non pretendiamo che Dio sia sempre pronto ad intervenire con i suoi miracoli, ad ogni nostro minimo cenno. I miracoli avvengono, certamente, di continuo, ma solo per chi crede in Dio seriamente, con una fede autentica, intima, cristallina, per chi ha stabilito con Lui un rapporto sincero di convivenza, di collaborazione; Lui, infatti, non può intervenire a favore di qualcuno, quando dall’altra parte non c’è alcun interesse, ma solo il vuoto, il nulla. Non basta averne bisogno, non basta volerlo, tanto meno pretenderlo: il miracolo, la nostra guarigione, si verificherà solo se noi la chiediamo umilmente, con fede, se ne siamo convinti, se ci mettiamo completamente a sua disposizione. 
Altro particolare importante nel racconto di Luca: tutti e dieci i lebbrosi guariscono, ma uno solo torna indietro a ringraziare Gesù. Come mai? Perché, sottolinea, soltanto quell’uno si è accorto di essere stato guarito: “vedendosi guarito. Ebbene: è proprio questa constatazione improvvisa che riempie il suo cuore di gioia, di soddisfazione, ma soprattutto di riconoscenza. All’inizio tutti e dieci sono unanimi nel chiedere, sono tutti ugualmente spinti dallo stesso desiderio, ma a cose fatte, uno solo “vede”, uno solo si accorge, uno solo si rende conto di ciò che gli è successo: riconosce cioè che quanto accadutogli, è un dono soprannaturale incommensurabile, una immeritata benedizione divina. E gli altri? Il vangelo non dice nulla, non ne parla: hanno eseguito materialmente l’ordine di Gesù, sono andati dai sacerdoti, sono guariti: punto. Hanno obbedito al suo ordine, e si sentono a posto; l’idea del “grazie” non li sfiora, la loro fede è rimasta ferma ad uno sterile livello “contabile”: tu mi ordini una cosa, io la eseguo, entrambi siamo pari. Non hanno “visto”, non si sono accorti del “dono”; non sono stati “toccati” nel profondo dell’anima; sono guariti dalla malattia esteriore, epidermica, ma non da quella interiore, dalla loro superficialità, dal loro disinteresse, dalla loro aridità, dalla loro “cecità” spirituale: sono guariti, ma non hanno “visto” Dio. Non hanno percepito nulla: nessun sussulto, nessuna meraviglia, nessuna gratitudine, nessun pensiero di lode, nessun ringraziamento: erano assetati, hanno chiesto un bicchier d'acqua, hanno bevuto, e tutto è finito lì: non hanno capito che a pochi passi da loro c’era la “Sorgente di acqua limpida”, dalla quale potevano attingere e bere a volontà, potevano inondare l’anima, il cuore, di quella stessa Forza, di quell’Amore, che poco prima li aveva gratuitamente e generosamente lavati, purificati, guariti. 
Solo le persone aride, presuntuose, arroganti, pensano che nella vita tutto sia loro dovuto: sono sempre insoddisfatte, insofferenti, vantano continuamente pretese sempre più alte, esagerate, eccessive: i privilegi, i favori, i doni, a loro non bastano mai; anzi, sono un loro “diritto”, ottenuto il quale, proprio perché “dovuto”, non è previsto alcun “grazie”, alcuna riconoscenza. 
C’è da dire che la gente in genere è molto avara nel ringraziare. Anche noi cristiani “praticanti” siamo, in questo, particolarmente distratti: siamo anche noi un po’ refrattari alla gratitudine. Prendiamo per esempio la grande occasione che abbiamo per esprimere il nostro “grazie” a Dio: mi riferisco alla Messa, alla nostra “Eucarestia”, (dal greco eukarizomai, ringraziare, esprimere gratitudine, riconoscenza): dovrebbe rappresentare per tutti l’opportunità ideale, la celebrazione perfetta, in cui “rendere grazie” ufficialmente a Dio, per averci son solo “riscattati” dal peccato originale, grazie al sacrificio di Gesù, suo Figlio: ma anche per le successive, continue “guarigioni” dalle nostre malattie spirituali, per la sua costante presenza di “pronto intervento” nella nostra vita. Purtroppo, dobbiamo invece ammettere che le nostre Eucaristie domenicali sono troppo spesso senz'anima; sono viste perlopiù come un precetto, un obbligo da compiere; sono tristi, senza gioia, senza vitalità, senza passione; non c'è sussulto, non c’è calore, non c’è “partecipazione”, non c’è soprattutto “ringraziamento”: esserci o non esserci è indifferente per la giornata, quella che dovrebbe essere la nostra “dies dominica”: non riusciamo a “vedere”, non ci “accorgiamo”, non ci rendiamo conto del “passaggio” di Dio, della sua presenza; non ci interessa ascoltare e capire con profitto la sua Parola; non diamo insomma alcun peso a quel divino “memoriale” dell’estremo sacrificio e dell’amore di Cristo per noi, che al contrario meriterebbe un “grazie” ininterrotto, lungo come l’intera nostra vita. 
Tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che siamo, è assolutamente gratuito: noi non ci meritiamo nulla, nulla ci è dovuto, tutto è dono, tutto è grazia: è insomma la conferma che tutti noi rappresentiamo una minuscola tessera di quell’immenso, meraviglioso mosaico divino, di quel mistero incomprensibile di Dio-amore, di quel mistero che ci trascende, che ci supera vertiginosamente, nel quale scoprirci totalmente immersi. 
Ecco perché dobbiamo fare del nostro vivere una lode perenne a Dio: per dimostrare la felicità intima, profonda, concreta, di saperci amati come figli suoi; per esprimere la gioia umile e serena di dirgli sempre di sì, per accoglierlo in noi, per dargli voce, per “tornare indietro” continuamente, per esternargli la nostra riconoscenza di autentici “miracolati”: perché è grazie a Lui che abbiamo “visto” e abbiamo “toccato con mano” i segni del suo infinito, insostituibile amore. Amen. 



giovedì 29 settembre 2022

02 Ottobre 2022 - XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Lc 17, 5-10
«In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: “Accresci in noi la fede!”. Il Signore rispose: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: Sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe. Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola? Non gli dirà piuttosto: Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».

Gli apostoli chiedono a Gesù di aumentare la loro fede. Il fatto che gli chiedano una cosa del genere, sta ad indicare che nel loro animo sentono il bisogno di maturare, di capire, di crescere; dopo i discorsi fatti da Gesù in precedenza, essi si rendono conto di non aver afferrato il vero senso delle sue parole, di essere ancora terra terra, di avere ancora tantissima strada da fare. Indiscutibilmente una prova di umiltà, la loro. Se anche noi arrivassimo a provare sinceramente una simile necessità, beh, significherebbe che stiamo già ad un buon punto del nostro cammino. Sarebbe quanto meno una concreta presa di coscienza dei nostri limiti.
Gesù a tale richiesta, tuttavia, non risponde né sì né no; e non stabilisce neppure cosa dovrebbero, o non dovrebbero affrontare, per raggiungere un livello ottimale di efficienza; si limita semplicemente a dire che se avessero una quantità di fede, anche solo minima, sarebbero in grado di realizzare le imprese più ardue: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe».
Da notare le caratteristiche opposte dei due elementi: un granello di senape è veramente poca cosa, è minuscolo, insignificante, quasi invisibile; il gelso, invece, è un albero secolare che ha radici molto profonde, che si saldano tenacemente col terreno: è un albero molto difficile da sradicare, è simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. Ora, che un gelso si sradichi dal suo posto e si trasferisca addirittura nel mare, ad un solo soffio di volontà, beh non solo è difficile, ma realisticamente impossibile!
Eppure – dice Gesù – basta un soffio di fede, una fede microscopica, purché autentica, sincera, trasparente, per rendere possibile anche l’impossibile. In altre parole, nessun ostacolo, di qualunque natura, può arrestare il cammino di chi ha un po’ di fede.
La fede infatti è fondamentale: nel vangelo troviamo molti riferimenti sulla sua importanza: “Tutto è possibile per chi crede”; “la tua fede ti ha salvato”; “chi ha fede sposta le montagne”; “credete e tutto ciò che chiederete vi sarà dato”, ecc.
Ma come facciamo a sapere se la nostra fede è veramente all’altezza, se abbiamo cioè una fede autentica, di completa fiducia in Dio e nella Vita? Semplice: dobbiamo osservare come reagiamo di fronte alle difficoltà che incontriamo.
Abbiamo un problema da affrontare e da risolvere nella nostra vita? Dobbiamo spostare il “gelso”, l’albero possente, inattaccabile, che ci sbarra la strada? Quel gelso fastidioso, che è paura dell’ignoto, di non essere all’altezza, di rimanere soli, di malattie improvvise, di dover morire? Sicuramente la nostra prima ovvia reazione è di esclamare: “Impossibile! Non ce la farò mai a sradicarlo quel gelso! È un’impresa troppo grande, impossibile per me”. Invece no! ci assicura Gesù: “se hai anche un briciolo di fede (il granello di senape!), tu ci riuscirai sicuramente, perché con essa puoi fare miracoli”. Niente infatti sarà impossibile con un po’ di fede, niente sarà più insuperabile, niente insopportabile.
Allora capiremo finalmente che aver fede non è una questione di “quantità”, (“Accresci in noi la fede, aumentala, dammene di più”), ma solo una questione di “qualità”: la fede in Dio, cioè, dev’essere necessariamente sincera, autentica, profonda.
Non cadiamo nell’errore di identificare “l’aver fede” con “l’andare in chiesa”: sono due cose diverse. “L’andare in chiesa a pregare” non implica automaticamente anche il “farlo con fede: “io vado in chiesa, prego, e questo significa che ho fede”; non è vero: tant’è che chi prega, non sempre lo fa con fede: ci sono tanti, infatti, che pregano solo per ottenere qualcosa, per soddisfare il proprio esibizionismo, il proprio egoismo, quasi per “sfidare” Dio, per costringerlo ad ascoltarli! In quante Eucaristie la fede sembra completamente assente negli stessi ministri: si comportano distrattamente, con la testa altrove; eseguono riti e movimenti meccanicamente, per abitudine, nonostante Cristo in persona, con la sua carne e il suo sangue, sia presente (“hic et nunc”) proprio tra le loro mani! Non parliamo poi di noi “fedeli”, in quella stessa occasione: un disastro! Ritardi, convenevoli, chiacchere, cellulari, noia, sguardi nel vuoto: tutto meno che fede! Noi, poi, siamo convinti che partecipare a raduni di preghiera esclusivi, magari con esibizioni e coreografie spettacolari, che visitare santuari di fama internazionale, con folle urlanti e distratte, siano occasioni irrinunciabili, uniche, per dimostrare agli altri la nostra “grande” fede; e non ci rendiamo conto invece che spiritualmente è molto più proficuo, più edificante per tutti, partecipare con devozione, nella propria sconosciuta parrocchia, all’Eucaristia domenicale, nella quale, in un contesto più riservato e umile, lontano da folle invadenti, chiassose, innamorate di protagonismo, possiamo incontrare Dio, possiamo ospitarlo realmente, concretamente dentro di noi, condividendo con Lui momenti intensi, personali, profondi, della nostra vita. 
La fede non è esibizionismo! È una disposizione intima dell’anima, del cuore, è prestare attenzione a Dio, alla sua volontà, al suo vangelo, è seguire e praticare i suoi insegnamenti; è sapersi protetti e amati pur non meritandolo, è vivere il presente amando Dio, nell’attesa di raggiungerlo un giorno nel suo Regno celeste, e unirci a Lui nella gloria eterna: perché la fede è profonda convinzione, piena fiducia, incrollabile certezza. Aver fede in Dio, pertanto, non vuol dire sapere tutto di Dio: la “fede” non è una scienza, una nozione, una materia scolastica, che si studia nel catechismo, nei libri di teologia, nei trattati di mistica, a completamento della nostra cultura; “l’aver fede”, al contrario, consiste nel “come viviamo il tempo che viviamo”, “quanto viviamo del suo Vangelo”, di tutto ciò che Egli silenziosamente continua a suggerire alla nostra anima: la “fede”, insomma, non è una “conoscenza” sterile asettica, ma sentimento, forza, energia, entusiasmo, amore, intima emozione, regola di vita. 
Certo, la fede non elimina i problemi, le contrarietà, le difficoltà della vita: ma l’uomo di fede è costantemente sorretto da una fiducia incrollabile: “Io sono protetto da Dio; Lui è con me. Se Lui è con me, di cosa ho paura? Perché mi devo preoccupare? Perché devo temere?”. È quindi con tale certezza, con tale serenità, che egli affronta e supera qualunque ostacolo si delinei sul suo cammino. 
Luca, nel vangelo di oggi, introduce infine una breve parabola, per la verità di non immediata comprensione, dalla quale però possiamo ricavare non tanto il comportamento di Dio nei confronti dell’uomo, quanto piuttosto il comportamento dell’uomo nei confronti di Dio: un comportamento cioè che deve essere di totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza ricorsi a fantomatici “accordi”. 
«Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili»
In pratica, non si entra nello spirito del vangelo con la mentalità di un lavoratore salariato: “lavoro tot, guadagno tot, niente di più, niente di meno”. Non possiamo, dopo aver lavorato la nostra giornata, esclamare soddisfatti: “ho finito, ora me ne vado, sono libero di fare ciò che voglio”: la nostra giornata lavorativa non conosce pause, interruzioni; inoltre se abbiamo fatto degli “extra” fuori orario, non possiamo pretendere riconoscimenti straordinari; non dobbiamo mai vantarci di quanto abbiamo fatto o di come l’abbiamo fatto: mai fare confronti, mai criticare il lavoro degli altri, ma riconoscere sempre con umiltà che tutto quanto abbiamo fatto, lo abbiamo fatto solo perché Dio ci ha aiutato lavorando per noi: “è vero, Signore, senza di Te siamo proprio dei servi inutili”. 
È una constatazione, quella di Gesù, che ci colpisce in particolare quando avanziamo delle pretese nei suoi confronti: se organizziamo iniziative caritatevoli, se facciamo delle donazioni, delle offerte generose, se siamo sempre puntuali nei nostri doveri di cristiani, ci comportiamo con Dio come se fossimo in “credito” con Lui: siamo cioè convinti di meritare un trattamento particolare, ricco di grazie e di benedizioni, esente da malattie, da disgrazie, e via dicendo. Dobbiamo stare molto attenti in questo: mai mercanteggiare con Dio, mai imporgli la nostra volontà, soprattutto quando preghiamo: la nostra preghiera, deve servire sempre e solo per aprirgli il nostro cuore, per accettare docilmente la Sua volontà, per ringraziarlo di tutto, per esprimergli il nostro amore, la nostra riconoscenza. Nel pregare Dio, dobbiamo insomma saper ascoltare umilmente la sua voce, imitando il comportamento del giovane Samuele: “Parla Signore, che il tuo servo ti ascolta(1Sam 3,10)
Noi cristiani “impegnati”, allora, accantoniamo una buona volta le nostre arie di superiorità, sempre meschine e inopportune; evitiamo di armarci di quel sacro “zelo” da “invasati”, purtroppo così frequente, che ci spinge ad imbarcarci in “sante crociate”, a sentirci protagonisti in “visioni soprannaturali”, destinatari prescelti di “volontà divine”. 
Non pretendiamo riconoscimenti per il nostro impegno nella comunità in cui viviamo, non aspiriamo a incarichi “onorifici”, di “particolare evidenza”, per i quali siamo oltretutto inadeguati, incapaci, impreparati. Rimaniamo umilmente al nostro posto, accettando di buon grado le scelte dei nostri responsabili, ancorché non condivise. Quello che Gesù desidera da noi è che viviamo semplicemente, con grande fede, proseguendo sempre in avanti per la strada che Lui ci ha tracciato, con cuore umile, sincero e generoso, nei confronti dei nostri fratelli: sempre con gioia, riconoscenza, serenità. Nient’altro. Lasciamo che Dio faccia tranquillamente il suo mestiere! Noi, “servi inutili”, non abbiamo proprio nulla da insegnargli. Amen. 

  

giovedì 22 settembre 2022

25 Settembre 2022 – XXVI Domenica del Tempo Ordinario


Lc 16,19-31 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

 

Il vangelo di oggi ci presenta in primo piano due personaggi: uno ricco e l’altro povero. Il ricco ha tutto: vestiti di porpora e bisso, una casa signorile, cibo a volontà per sfamarsi lautamente e abbondantemente tutti i giorni; ha “fratelli”, cioè amici, relazioni, amore; alla sua morte ha una sepoltura, cosa che solo i ricchi, i potenti, potevano permettersi a quel tempo. Non è cattivo, non è malvagio, non fa niente di male. Decisamente ha tutto, non gli manca nulla, non gli serve proprio niente. L’unica cosa che gli manca è un nome: il testo lo identifica semplicemente come “un uomo ricco”.
Poi c’è l’altro personaggio che, a differenza del primo, non ha assolutamente nulla: non ha casa, non ha cibo, non ha amici, non ha sepoltura; è solo con i suoi cani, indifeso, affamato, malato, ricoperto di piaghe, bisognoso di cibo e di cure. L’unica cosa che possiede è un nome: Lazzaro.
Per la Bibbia, il nome è fondamentale, perché in qualche modo riassume la vita della persona che lo porta, è la sua immagine speculare; persona e nome coincidono. Avere un nome significa conoscere in proiezione la propria vita, vuol dire conoscere la propria identità, quale sarà il futuro, quale il programma preciso da realizzare, insomma, vuol dire “essere vivi”. Nel nostro caso il nome “Lazzaro” significa “Dio aiuta, Dio provvede, Dio salva”. Il poveretto, trovandosi infatti in una situazione disperata, di assoluta necessità, può contare solo sull’aiuto di qualcuno, spera che qualcuno si prenda cura di lui, che gli dia una mano, che lo salvi dalla sua condizione: in pratica si affida a Dio, ha bisogno di Lui.
Il ricco, invece, non avendo un nome come quasi tutti i ricchi del vangelo di Luca, non ha un progetto di vita, un programma, non è interessato a nulla; è incosciente, irresponsabile, vive le cose superficialmente, nulla lo interessa, nulla attira la sua attenzione; non si accorge neppure di Lazzaro: eppure egli era lì, tra i piedi, tutti i giorni; mendicava alla sua porta, chiedeva, si lamentava, gridava il suo disagio, il suo malessere, come ha potuto non vederlo? Ecco, questo è stato il suo problema, la causa della sua condanna: non accorgersi, non voler prendere coscienza di nulla.
Ebbene, questo ci dice il vangelo di oggi: che anche a noi sarà riservato lo stesso trattamento del ricco, se vivremo ignorando il “Lazzaro” che è dentro di noi: non prestando cioè alcuna attenzione alla nostra anima, alle sue necessità, ai disagi profondi in cui la costringiamo a vivere!
“Lazzaro” infatti siamo noi, è la nostra anima, il nostro “io” più profondo. Quante volte ci siamo trovati anche noi a mendicare amore! Quante volte nella nostra vita abbiamo avuto bisogno di amore, di aiuto, di tenerezza, di comprensione e nessuno ci ha soccorso! Non sentirci amati, aiutati, considerati, è sicuramente tremendo: fa tanto male stendere la mano per chiedere, per aprirsi, per pregare qualcuno che ci presti attenzione, ascoltandoci, e lenisca il nostro dolore, ricolmando il vuoto abissale del nostro cuore: c’è sempre il timore di ricevere un no, di venire apertamente ignorati, rifiutati! Viviamo schiavi della paura: di parlare, di uscire, di fare le nostre scelte, di gestire la nostra vita, perché temiamo il giudizio impietoso degli altri; e così ci perdiamo nella ricerca irrazionale dell’effimero, di apparire, almeno esteriormente, importanti, di sembrare qualcuno.
Ma “Lazzaro” sono anche quelli che ci stanno vicini: sono le persone che sono tristi, che ci gridano di star male, di aver bisogno di noi, della nostra attenzione: e noi spesso facciamo finta di nulla, di non sentirle: vediamole, queste persone, accogliamole, ascoltiamole! Se chi ci è vicino non parla mai, ammutolisce, è sempre chiuso in sé stesso, vuol dire che ci sta urlando silenziosamente la sua paura. Se chi ci è vicino è sempre di malumore, non ci rivolge la parola, anzi ci evita, fermiamolo, ascoltiamolo, cerchiamo di capire i motivi del suo urlo silenzioso. Come facciamo a non accorgerci che proprio accanto a noi ci sono tanti “Lazzaro” bisognosi della nostra presenza, della nostra vicinanza, delle nostre dimostrazioni di stima, del nostro amore? Come facciamo a non vedere i loro dolori, i pesi, le delusioni, che opprimono il loro cuore? Purtroppo noi continuiamo a non vederli, a non sentirli: siamo distratti, immersi solo nelle nostre cose, nei nostri affari privati, nei nostri inutili svaghi, e non ci accorgiamo del loro inferno: l’inferno della mancanza di amore, della solitudine, dell’abbandono, delle porte del nostro cuore e della nostra mente completamente sbarrate; l’inferno drammatico del sentirsi dimenticati dal prossimo, di non sentire più il calore dell’amore, di non percepire, dentro il loro cuore, ascolto, liberazione, pace, misericordia, ma solo solitudine, sofferenza, tormento.
Ecco perché il nostro futuro, i nostri paradiso o inferno finali, sono già nelle nostre mani: perché siamo noi che decidiamo oggi se soccorrere i vari Lazzaro o abbandonarli a loro stessi. 
Tutti noi abbiamo a disposizione “Mosè e i Profeti”, il Vangelo e quant’altro; ma molto spesso ignoriamo i loro messaggi, preferiamo vivere a modo nostro, condurre una vita insensata, da sordi; ci tappiamo le orecchie per non udire, ignorando volutamente i richiami di Dio, i suoi ripetuti inviti alla conversione. 
In questa vita abbiamo ogni possibilità per imparare, per fare esperienze, per crescere spiritualmente, per coltivare la nostra sensibilità, la nostra anima: ma i risultati sono pochi. Ci serve forse qualcos’altro di speciale per salvarci? Abbiamo bisogno di altri profeti? No: sono sufficienti due cose soltanto: la fede che ci indichi il “come”, e la carità con cui “metterla in pratica”! Ci servono altri “segni”, altri miracoli? Neppure: il miracolo più bello lo viviamo ogni giorno: risvegliarci al mattino, aprire gli occhi e vivere, vivere ogni istante di questo splendido dono divino che è la vita, l’amore, il cielo, il sole, il creato! Abbiamo già tutto per poterci elevare, per far risplendere nel mondo e nei fratelli, il meglio della nostra dignità umana. Eppure tutto ciò non ci entusiasma, non ci stupisce, non ci commuove. 
Purtroppo siamo esseri impastati di ombra e di luce: possiamo cioè essere contemporaneamente sia “ricchi” come l’epulone gaudente, che “poveri” come Lazzaro, il sofferente; possiamo cioè essere sia quelli che si disinteressano dei bisognosi, quelli che si chiudono nel loro egoismo rifiutando gli altri, quelli che sprecano la vita senza far nulla, quelli che non vogliono impegni né con Dio né col prossimo, ed essere anche i bisognosi, i nullatenenti, i sofferenti, che tuttavia, con fede e carità spendono le loro energie nel seguire Dio. 
Siamo insomma creature miseramente “umane” se preferiamo girarci dall’altra parte, chiudere gli occhi, far finta di nulla, e scegliere di non vivere: ma siamo anche e soprattutto creature splendidamente “divine”, create dall’Amore di Dio, in costante cammino verso la sua Luce: e quando una Sua scintilla, ancorché piccolissima, riesce a squarciare le tenebre del nostro cuore, immediatamente tutto diventa più sopportabile, tutto diventa gioiosamente più vivibile; e se la condividiamo con i nostri fratelli dimenticati, allora anche il loro “inferno” improvvisamente si attenua. Questo perché, nonostante tutte le nostre inadeguatezze, siamo sempre figli di quel Padre che ci ama e che pazientemente aspetta il nostro “cambiamento”, il nostro definitivo “riscatto”, per meritare anche noi un giorno, come Lazzaro, di sedere alla sua destra, nello splendore del suo Amore eterno. Amen.