giovedì 20 ottobre 2022

23 Ottobre 2022 - XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO



Lc 18, 9-14 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La parabola di oggi ci propone due personaggi, uno fariseo, l’altro pubblicano; due uomini “diversi”, che si accingono a pregare: e lo fanno, in due modi altrettanto diversi. 
Il fariseo si ritiene giusto. Già la parola “fariseo” non promette nulla di buono: fariseo significa, infatti, “separato”, uno che si “distingue”; farisei erano coloro che si dedicavano all'osservanza meticolosa della legge, e proprio per questa loro scrupolosità, si sentivano “separati”, diversi, superiori a tutti gli altri. Erano stimati dalla gente proprio per la loro puntigliosa religiosità; essi questo lo sapevano e se ne compiacevano. “Ma non erano quelli che perseguitavano Gesù? Non sono stati proprio loro che hanno tentato in tutti i modi di metterlo a tacere, arrivando poi ad ucciderlo?”. Una domanda pertinente, che ci dimostra come molto spesso siano proprio i giusti, i fedeli, gli osservanti, ad essere i peggiori nemici di Dio. Una constatazione che deve farci riflettere. 
Poi c'è l’altro personaggio, il pubblicano. I pubblicani erano amici dei Romani, gli invasori, gli occupanti; erano considerati dei traditori, dei collaborazionisti, e per questo erano cordialmente odiati dagli ebrei.
I due dunque salgono al Tempio per pregare: la preghiera ufficiale si teneva due volte al giorno, alle nove e alle quindici. Ed è proprio nel pregare, che i due rivelano la loro profonda diversità: una preghiera, quella del fariseo, lunga, piena di precisazioni, autoreferenziale, compiaciuta, mentre quella del pubblicano è brevissima, umile, intimamente e profondamente contrita. 
«Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé»: un atteggiamento normale per l’ebreo osservante, quello di pregare rimanendo dritto, in piedi, con lo sguardo rivolto in direzione del “Santo dei Santi”, la parte invalicabile del Tempio, sede dell’Arca; Luca però lo interpreta qui come un segno di superbia: è possibile infatti notare questa sfumatura nell’uso particolare del verbo “prosèuketo, pregava”, che letteralmente significa “rendeva grazie (“èuketo”) a favore di sé stesso (“pròs”): con la sua preghiera, quindi, egli ringraziava Dio per averlo fatto “diverso” dai miserabili, dalla gentaglia che gli stava intorno: una preghiera che non era altro che un misero panegirico di sé stesso: prima di tutto, si affretta a precisare ciò che lui non è: non è un disonesto, non agisce fuori della legge, non è un ladro, non è un adultero, non è in pratica come l’altro, un “pubblicano”; poi, non soddisfatto, passa a sottolineare i suoi meriti, ciò che lui fa: lui digiuna due volte alla settimana (quindi più di quanto prescriveva la Legge, che limitava il digiuno solo per alcuni giorni all'anno), lui paga regolarmente le “decime”, (ossia la decima parte degli averi, la tassa destinata al tempio e ai poveri). Tutto in Lui è perfetto, ineccepibile: la sua vita, la sua preghiera, il modo di rapportarsi con Dio. Nessuno può rimproverargli nulla. Quello che sostiene è in apparenza tutto vero. Il fariseo, bontà sua, sembra veramente una persona esemplare. 
Il “pubblicano”, invece, se ne sta a distanza, piegato fino a terra. Egli è consapevole di far parte di quelle persone, malviste da tutti, proprio per la loro vita senza scrupoli, amorale: imbrogliava Dio, imbrogliava i poveri, i miseri, i deboli; era coinvolto in traffici di denaro “sporco”: faceva insomma un mestiere maledetto, oltretutto proibito agli ebrei: egli ne è consapevole, è pentito di questo, per cui quando si riconosce “peccatore”, dice la verità, è sincero con sé stesso, non si nasconde dietro a scuse, attenuanti, falsità: il suo atteggiamento di battersi il petto, prostrato con il volto a terra, ne è la conferma.
Entrambi quindi all’esterno sono ineccepibili, sinceri: ma Gesù, che scruta l’anima, che legge anche i pensieri più intimi, più nascosti, afferma con decisione che uno se ne va giustificato, cioè cambiato, reso giusto, scagionato, e l'altro no. Perché? Scendiamo nei particolari.
Il fariseo inizia molto bene: «O Dio, ti rendo grazie»; si rivolge cioè a Dio esprimendogli “lode e onore”, come dovrebbe fare chiunque prega: la funzione dell'uomo è infatti quella di ringraziare Dio, di esprimergli gratitudine, riconoscenza. San Paolo dice: “Rendete grazie a Dio in ogni cosa, per mezzo di Gesù Cristo”. Se capissimo veramente l’importanza di ringraziare Dio per tutto, per ogni cosa che ci capita, gioiosa o dolorosa che sia, la nostra vita si trasformerebbe in una “Eucaristia” perenne, in una “liturgia”, in una lode a Dio, sincera e continua. 
Poi però, nel voler eccellere rispetto agli altri, sbaglia tutto, scredita sé stesso, finisce col precipitare in basso: la sua “preghiera” non è preghiera, non può risultare gradita a Dio, perché in pratica egli giustifica la sua disonestà interiore, il suo “nulla” spirituale, enfatizzando quelle quattro cose materiali che egli compie. Non è onesto con sé stesso, si inganna, mente, racconta un sacco di falsità, non perché quanto afferma non corrisponda al vero, ma perché considera le sue azioni soltanto dal punto di vista materiale, esteriore; mette cioè in evidenza il semplice fatto di averle “compiute”, punto: che poi è quello meno importante, meno meritorio per Dio, ma di contro quello fondamentale per il suo “ego”, per il suo apparire, per la gloria umana. Gli ripugna ammettere l’evidenza, di riconoscere cioè che in realtà anche lui, come e forse più del pubblicano, è un poveraccio, un peccatore, un meschino trasformista.
Purtroppo, in una società come la nostra, votata al carrierismo, all’apparire, all’esibizionismo assoluto, c'è sempre qualcuno che, pensando di essere perfetto, si “gonfia”, come il fariseo, attribuendosi meriti e qualità inesistenti: c'è sempre qualcuno che, non vedendo la spazzatura maleodorante che ristagna dentro il suo cuore, a causa delle tenebre che lo avvolgono, si permette di giudicare con disprezzo il prossimo ritenendosi superiore a tutti, distinguendosi con arroganza dalla mediocre folla dei “poveracci”. Sono quelle persone che hanno ormai rimosso così magistralmente dalla loro coscienza ogni traccia di trasgressione, di debolezza, di imperfezione, di pentimento, da “sentirsi” completamente “puliti”, immacolati: sono quelli che disinvoltamente pregano appunto “a voce alta”, “in piedi”, per farsi notare, convinti di essere non dei gretti opportunisti, ma degli ottimi cristiani, osservanti e fedeli.
Il pubblicano invece, contrariamente al borioso fariseo, nella sua preghiera non millanta meriti inesistenti, non nasconde a sé stesso le sue responsabilità: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»: una realtà che lo confonde, lo addolora sinceramente; per questo chiede perdono, chiede pace, misericordia, riconciliazione per i suoi lati oscuri, per i suoi peccati, per i suoi errori, per le ferite e le offese procurate ad altri. Egli riconosce che la sua situazione è compromessa, non mente a sé stesso, non cerca giustificazioni. Sa di aver bisogno di Dio; ha bisogno che Dio corra da lui con le braccia spalancate, che lo accolga, che lo stringa al cuore, che gli restituisca dignità, che lo salvi dalla “fossa” dei leoni, dalla cattiveria. Lui sa di essere ammalato, sa di aver bisogno di un medico spirituale, e ricorre alla misericordia di Dio. Per questo torna a casa giustificato, sentendosi amato, liberato, pacificato.
Succede purtroppo che quando stiamo davanti a Dio, quando preghiamo, anche noi talvolta ci aggrappiamo alla nostra “rispettabilità”, mentiamo sulle nostre vere intenzioni, contrabbandiamo qualche menzogna per verità; indossiamo insomma anche noi le maschere del mondo, creandoci una identità posticcia, pensando di far bella figura con Dio.
Chi ci vede “pregare”, chi ci vede andare in chiesa, fare carità, impegnarci nel volontariato, non potrà che esclamare: “Ma che brava persona! Che bravo cristiano! Che uomo esemplare!”. Solo che di fronte a Dio questi teatrini non servono, questi trucchi non valgono; ai suoi occhi tutte le nostre costruzioni di sabbia, crollano rovinosamente, e rimaniamo soli davanti a Lui, nudi e spogli. Perché è soltanto dalla “verità”, dalla sincerità, dall’umiltà, che sgorga la vera preghiera, quella che piace a Dio, quella sola che Lui sa apprezzare.
Ecco perché la preghiera non deve partire dalle labbra, non deve essere formale, puramente esteriore; ma deve nascere dal cuore, deve essere intima, sincera, onesta, vera: pregare è spalancare a Dio tutti gli ermetismi della nostra vita, della nostra anima; è spalancare ogni finestra per consentire alla sua luce, al suo calore, di illuminare e sanare ogni angolo oscuro; e al suo amore, di bruciare, di estinguere quelle voci malefiche che urlano dentro di noi, che noi fingiamo di ignorare, di soffocare, poiché ci ripugna anche solo ammettere la loro esistenza. Dio non ha paura, non teme nulla; noi abbiamo paura, Lui no! Lui ha vinto il mondo. Lui non si scandalizza delle nostre nefandezze, ci ama sempre e comunque, così come siamo, in tutto il nostro squallore. Lui può andare anche là dove noi ci rifiutiamo di andare. “Pregare” allora, per noi, significherà lasciarci condurre per mano da Lui; pregare sarà permettergli di entrare nei bassifondi della nostra coscienza, proprio là dove noi ci rifugiamo per nascondere la vergogna, il disgusto per la nostra falsità, per la nostra doppiezza; dobbiamo solo armarci di umiltà e distruggere i nostri invadenti miraggi di fama, di potere, di grandezza: dobbiamo insomma spogliarci completamente da quell’innato orgoglio “farisaico”, da noi tanto amato e ostentato. Amen.

 

 

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