Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, manifestando loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: egli parla di sé, della sua “ora”, di loro, di ciò che li preoccupa, di ciò che li aspetterà nel futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. È in tale contesto che per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vite e dei tralci, un simbolismo molto conosciuto e frequente ai tempi di Gesù. Nell’Antico Testamento, per esempio, Israele, il popolo eletto, era la “vigna” di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nella “vigna”, ritenuta per antonomasia il luogo dell’amore, dell’incontro, della felicità, della gioia. Così pure il “vino”, ottenuto dal frutto della vite, per gli antichi era simbolo di benessere interiore, di appagamento delle aspirazioni più profonde, di ebbrezza, di stordimento spirituale, di intensa percezione della bellezza del vivere. Quando a Cana manca il vino, la festa rischia improvvisamente di guastarsi; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando vino a volontà per tutti, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo, più di prima.
Se dunque
manca il “vino”, elemento fondamentale per la felicità, per il benessere
dell’uomo, vuol dire che a monte è venuta a mancare la materia prima, vuol dire
cioè che i tralci della vite non hanno prodotto alcun frutto, che non è
avvenuto più alcun passaggio di linfa vitale, che essendo secchi, sono stati tagliati
via.
È esattamente
in questi termini che Gesù spiega ai suoi che se vogliono ottenere dei
risultati nella loro missione, devono sempre rimanere uniti a Lui: proprio come
avviene in natura tra la vite e i suoi tralci. Il tralcio è diverso dal fusto
della vite, ma è strutturalmente unito ad essa, è la sua propaggine, e solo se
rimane unito ad essa può portare frutto: se diventa secco e viene tagliato via,
non servirà più a nulla e verrà bruciato. La vite quindi è la forza per il
tralcio, è il suo nutrimento, la sua vita, il suo tutto. Vite e tralcio formano
un tutt’uno inseparabile.
Un’immagine
che si adatta molto bene per descrivere anche il funzionamento di qualunque forma
di convivenza umana (Stato, famiglia, comunità), in cui le rispettive autorità
(la vite), comunicando la linfa delle loro direttive, dei loro programmi, mettono
in grado i singoli componenti (i tralci) di produrre, ognuno nel suo ruolo, i frutti
necessari per il benessere, la prosperità, la sopravvivenza della collettività.
In ogni
comunità, infatti, ogni componente ha un ruolo ben preciso, diverso da quello
degli altri, in quanto ogni persona rappresenta un unicum irripetibile: c’è
infatti chi ama e interpreta a modo suo il lavoro, chi l’arte, chi la musica, chi
lo studio.
In
questo “mondo” variegato però, per una errata super valutazione di noi stessi, vorremmo
che nessuno potesse superarci, nessuno fosse “più” di noi, non accettiamo “diversità”;
ci dà fastidio cioè che nella vita gli altri esprimano meglio di noi le loro
potenzialità, realizzino con maggior successo i loro programmi, diventino
insomma quei “tralci” unici, speciali, che producono una tale quantità di
frutto, alla quale noi non potremo mai arrivare.
Ciò che
unisce una famiglia, una comunità, non sarà mai il fare tutti le stesse cose,
l’essere tutti uguali, con le stesse potenzialità, ottenere identici risultati;
al contrario tutti indistintamente devono dare il “meglio” delle loro
possibilità personali: perché la superiore qualità del prodotto non è data
dalla quantità, ma dalla bontà, dal gusto, che sono dovuti ad una circolazione più
capillare della linfa, alla migliore esposizione ai raggi del sole; in altre
parole è l’amore, il dialogo, la condivisione, la comprensione, la
disponibilità che in una convivenza crea stabilità, serenità, pace, benessere
comune.
Molte
famiglie, molte comunità, molti “gruppi”, pensano di essere uniti solo
perché si radunano insieme molto spesso. Ma non è l’incontrarsi di frequente
che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è tutt’altra cosa;
significa condividere nell’anima, nello spirito, nella vita gli stessi sentimenti,
gli stessi ideali; significa “sentire” che gli altri condividono le nostre
aspirazioni, i nostri ideali, le necessità della nostra anima, esattamente come
noi facciamo con loro: l’unione vera, infatti, è data da una vicinanza “sentita”,
da una commistione (mai dalla fusione!) di due spiriti assolutamente liberi
e autonomi, non certo da una compresenza fisica di corpi tutti uguali.
Noi che
siamo i “tralci”, pertanto, non dobbiamo mai staccarci dalla vite, che
rappresenta l’unica nostra possibilità di emergere, di sopravvivere; non dobbiamo
mai staccarci dalla nostra “vite”, dal nostro “Spirito”, dalla nostra anima; mai
arrogarci, da tralci quali siamo, le prerogative della vite, perché nell’esatto
momento in cui lo facciamo, perdiamo ogni nostra vitalità, rinsecchiamo, siamo
destinati ad una morte spirituale certa. È la legge della vita: il tralcio,
staccato dalla vite, inesorabilmente muore. Non abbiamo alternative.
Gesù
dunque si propone come “Vite”, come “Vita” vera: “Io sono il sapore
della vita, io sono il gusto, l’ebbrezza della vita, sono l’elisir
della felicità, l’unico vero piacere della vita”. Parole però che lasciano trasparire anche le difficoltà del
percorso per giungere a tanto: ogni qualvolta, per esempio, il sacerdote nel
celebrare l’Eucaristia pronuncia sul vino, frutto della vite, la formula
sacramentale “Questo è il mio calice, versato per voi”, con cui lo
transustanzia nel sangue di Cristo, ci ricorda due cose importanti: che il
“sangue versato”, oltre che ricordarci la passione di Gesù, ci mette di fronte alla
nostra situazione umana, alle nostre malattie, alle nostre sofferenze; all’aspetto
più difficile della vita, all’aspetto più duro, ostico, doloroso (non per nulla
qui Gesù, alludendo ai “tralci”, parla della necessità di potarli, purificarli,
tagliarli); ci ricorda in particolare che quel “sangue” è Gesù stesso in
persona; è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere: è Lui
infatti che con la sua presenza dentro di noi, ci infonde vitalità, entusiasmo,
serenità, vita pura, e soprattutto il suo amore dal gusto inconfondibile.
Vivere nell’intimità divina, in
stretta unione con Gesù, la nostra Vite, vuol dire per noi “tralci” segregarci
dalle cose futili della quotidianità, rifugiarci nel silenzio della nostra
anima, lasciarci inebriare dalla Sua presenza, agevolare in noi la trasfusione
della Sua forza, della potenza del Suo amore.
Chi a
questo proposito dice: “Preferisco non pensare a situazioni simili, per me sono
impossibili!”, oppure “Non voglio sognare, perché poi, di fronte alla realtà,
mi sento peggio!”, è decisamente un rinunciatario, uno che quando piove preferisce
stupidamente starsene fuori a bagnarsi, piuttosto che entrare in “casa”! Come può
pensare infatti di entrare in intimità con Dio, chi si rifiuta a priori di
entrare in intimità con sé stesso? Per entrare in unione con Lui non basta andare
in chiesa e riempirlo di parole, di promesse, di chiacchiere, di preghiere
biascicate. Sono troppi quelli che purtroppo parlano “a
Dio” ma non “con Dio”. Sono troppi, anche tra persone religiose e
consacrate, quelli che quando sono in chiesa, quando sono davanti a Dio, quando
pregano, quando cantano, quando celebrano, non provano più alcuna emozione
interiore, nessun trasporto spirituale, nessuno slancio; persone che non si
commuovono più di fronte alle parole di Gesù; che non si lasciano coinvolgere
in ciò che fanno; che non provano l’ebbrezza del canto o l’intima e preziosa sonorità
del silenzio. Persone, insomma, che non si avvicinano a Dio, che hanno paura, hanno
soggezione di Lui; persone che per giustificare la loro mediocrità, diventano logorroiche,
lo subissano di vuote parole, piuttosto che di prove tangibili di amore.
Troppe persone
parlano agli altri dell’amore di Dio, invitandoli ad amarlo: sono anche
ripetitivi, insistenti, ma lo fanno soltanto con la voce, con la bocca, perché
il loro cuore è arido, insensibile; la loro vita lascia trasparire solo tristezza,
amarezza, rinunce, sconfitte, rimorsi. Non è così che dimostriamo di “amare
Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi, non è questa la felicità che
ha pensato per noi: Egli al contrario, per noi, ha creato il sole, le stelle, la
natura, i colori, tutto il mondo; soprattutto ci ha donato il suo amore, perché
lo gustassimo, lo assaporassimo, perché ci saziassimo il cuore e l’anima.
Tutto
ciò che esiste, esiste solo per noi. Non per essere conquistato, nascosto,
posseduto in maniera esclusiva, ma per essere fraternamente goduto con gli
altri, per essere generosamente condiviso. Il Talmud, infatti, dice giustamente
a questo proposito: “Sarete giudicati su tutte le occasioni di gioia e di
felicità alle quali in vita avete rinunciato!”.
Purtroppo
abbiamo a che fare con una natura umana che è fondamentalmente egoista;
vorremmo sempre essere solo noi i padroni, i fruitori unici di tutto. Anche
nelle piccole cose, in quelle che facciamo meccanicamente, senza pensare: per
esempio quando ci troviamo di fronte ad un paesaggio, ad una veduta
incantevole, cosa ci viene di getto? Piuttosto che ammirarli sul posto, di
viverli in quel momento, assaporandone in silenzio ogni particolare, ogni
sfumatura, ci preoccupiamo di farli “nostri”, li fotografiamo per “metterceli
via”, vogliamo inconsciamente catturarli, possederli, averli sempre in
esclusiva per noi.
Dovremmo
invece “gioire”, “ringraziare Dio” perché le cose esistono, perché ci
sono, perché tutti possono ammirarle. Lasciamole vibrare liberamente dentro di
noi, assaporiamole con intensità, ma lasciamole libere; non pretendiamo di possederle,
non sono nostre, non ci appartengono.
Amiamole
così come sono, perché se riuscissimo ad averle, non le godremmo più: il
possesso infatti soffoca, “fagocita”, oltraggia, svilisce; è schiavitù,
voracità, insaziabilità. L’amore al contrario è libertà, gioia, felicità,
serenità, altruismo.
Ma
torniamo all’immagine della vite e dei tralci: perché essa ci ricorda appunto i
principi fondamentali della vita e della convivenza; primo: se ci stacchiamo
dalla linfa, moriamo; secondo: se non “distribuiamo” questa linfa anche ai tralci
che si diramano da noi, il nostro frutto non sarà mai copioso e completamente
valido.
Gesù
dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete quasi ossessivamente, perché
dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo “rimanere
in Lui” c’è tutto il segreto della vita felice; potremo cioè anticipare già
in questa vita quella felicità futura che ci è stata promessa per quando lo
vedremo “così come egli è” (1Gv 3,2).
I
ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono: “Sei connesso?”.
Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra
anima, sono sempre “connessi” tra loro e con Lui? Guai a noi se
chiudiamo questo contatto, guai a noi se stacchiamo la spina, perché, ci dice
Gesù, “senza di me, voi non potete far nulla”: è Lui infatti l’unico
canale attraverso cui riceviamo linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.