“Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro” (Gv 20,1-9).
Una
festa però che, in genere, non coinvolge molto la gente. A differenza del
Natale. Il Natale è più seducente: un bambino che nasce fa tenerezza a tutti; è
una festa che riunisce le famiglie, richiama i parenti, gli amici, lo stare
insieme; c’è un anno vecchio che muore, uno nuovo che nasce; un contorno di
feste insomma che la gente ama di più.
La
Pasqua è più difficile da capire; ci ricorda una tragedia, la crocifissione e
la morte di Gesù, seguita dopo tre giorni dalla sua risurrezione, la vittoria
sulla morte: per quanto la conclusione sia esaltante, ci lascia comunque abbastanza
freddi e indifferenti.
Ma cosa
significa questa “resurrezione”? È una parola che deriva dal latino “resurrectio”
(in greco ἀνάστασις)
che vuol dire “rialzarsi”: è il movimento di una persona distesa, immobile
(morta) e si ri-alza, ritorna cioè a vivere. In pratica avviene un
cambiamento di stato, di direzione, dalla morte alla vita.
Storicamente,
cos’è successo? Dopo che Gesù venne arrestato e condannato, tutti i suoi
discepoli lo abbandonarono e scapparono. Probabilmente se ne tornarono in
Galilea, alle loro case. Solo alcune donne, tra cui Maria sua madre, trovarono
il coraggio di rimanere ad assisterlo fino alla crocifissione e morte.
I
discepoli vissero questa tragedia come un fallimento personale: si sentirono
finiti, morti dentro; di fronte agli scherni di quanti li avevano messi in
guardia su Gesù: “Come fate a fidarvi di quel pazzo? È un eretico, un senza-Dio!”,
dovettero convenire ammettendo la propria sconfitta: “Avevate ragione!”.
Ma poi
successe il grande, l’imprevedibile miracolo della resurrezione: quella
esperienza con Gesù, che pensavano chiusa per sempre, improvvisamente riacquista
tutta la sua attualità: improvvisamente essi cominciano a sentire vivo,
potente, dentro di loro quel Gesù che tutti davano per morto: lo sentono nuovamente
presente nella loro vita, in maniera inequivocabile, indiscutibile. E come se
non bastasse, “lo vedono” chiaramente, senza alcuna possibilità di errore. Quei
discepoli che il venerdì santo erano disperati, fuggiti in preda alla paura e
al terrore, dopo appena cinquanta giorni sono pronti ad annunciare ovunque Gesù
risorto, vivo, Signore del mondo. Per lui finiscono in prigione, per lui vengono
derisi, umiliati, percossi; per lui sono pronti a morire, come avviene
realmente per molti di loro: sono spinti da un fuoco nuovo, inestinguibile, da
una nuova forza interiore: nulla potrà mai più fermarli.
Tutto ciò
è realmente successo, ne siamo certi: nessuno infatti potrà mai spiegare un
cambiamento simile, così repentino, radicale, se non ammettendo l’improvvisa irruzione
in loro di una forza divina. O sono impazziti tutti o ciò che dicono è vero:
“Il Signore è risorto, noi lo abbiamo visto! Il Signore è vivo, lo sentiamo, è
dentro di noi, vive in noi, è con noi!”.
Ma
ripercorriamo mentalmente l’esperienza di quella domenica mattina vissuta dai
due discepoli Pietro e Giovanni: quest’ultimo, testimone oculare, ci descrive
infatti minuziosamente nel suo vangelo come si sono svolti i fatti: Maria
Maddalena, recatasi di buon mattino al sepolcro, lo trova aperto e vuoto:
preoccupatissima, temendo che qualcuno abbia trafugato il corpo di Gesù, si reca
immediatamente dai discepoli, e li sollecita a correre per verificare quanto accaduto:
i due col cuore in gola affrontano velocemente il percorso per arrivare al
luogo della sepoltura; Giovanni, più giovane e più veloce, precede Pietro ma
non entra; aspetta che anche lui arrivi per dargli la precedenza: Pietro
infatti entra per primo, ma non “vede”: chi “vede” è lui, Giovanni.
È chiaro che qui “vedere” significa “credere”. Pietro, infatti,
nel vangelo è sempre colui che vuol “vedere” con la testa (Cefa), con il
raziocinio; Giovanni, invece, “quello che Gesù amava”, è guidato dall’amore,
dall’intuizione, dal sentimento. Entrambi, sia la “mente” che il “cuore”
poi crederanno: mentre però la mente cerca di controllare i sentimenti, di
contenerli, di verificarne i contenuti, il cuore si apre immediatamente
all’onda d’urto travolgente, incontenibile dei sentimenti: la mente serve per
capire, per spiegare, per interpretare, il cuore è l’organo della vita: infatti
l’anima, l’amore, lo stupore, la fede, prima di tutto si percepiscono, si
“sentono”, si sperimentano: poi la mente “spiega” cos’è successo.
Succede
come di fronte ad un dolce: la mente cerca di individuarne i componenti, per
capire se è più o meno buono: il cuore al contrario lo assaggia, lo gusta e ne
sente subito la bontà.
Noi siamo
Pietro, la mente, la durezza, quando non vogliamo dare spazio alla vita che c’è
in noi: vediamo tante cose, ma è come se non vedessimo nulla, perché nulla più ci
emoziona. Siamo invece Giovanni, l’amore, il cuore, il sentimento, quando
vediamo e “accettiamo”, quando crediamo.
Quando
parliamo con una persona cara, guardiamola allora negli occhi, entriamole
dentro. Ascoltiamo non tanto le parole che dice, ma le vibrazioni del suo
cuore; cogliamo la sua tristezza, il suo slancio, la sua gioia, la sua
meraviglia, il suo amore. Quando cantiamo, fermiamoci e ascoltiamo le onde che
vibrano dentro di noi; onde che provocano emozioni, che fanno risuonare le
corde della nostra anima. Quando siamo in chiesa, facciamo silenzio, mettiamo
da parte le nostre preoccupazioni, ascoltiamo il battito del nostro cuore: e allora
potremo percepire, forte e chiara, la presenza e la voce di Colui che abita dentro
di noi.
Fermiamoci
e ascoltiamoci ogni tanto: all’inizio magari sentiremo uscire da noi demoni e
mostri; ma se avremo pazienza, col tempo, nella calma, nel silenzio, scopriremo
dentro di noi una presenza soprannaturale, che si rivelerà essere una sorgente
inesauribile di vita e di luce.
Resurrezione
è riuscire a cogliere l’invisibile nel visibile: ma ci servono degli “occhi
speciali”, gli occhi della fede, quegli occhi che andando oltre i limiti del
materiale, riescono a cogliere la realtà del soprannaturale. Con la
resurrezione di Gesù, noi affermiamo: Dio è qui. Dobbiamo solo cercarlo,
dobbiamo solo scoprirlo, dobbiamo solo conoscerlo.
Parlando
di Maria di Magdala, Giovanni sottolinea un particolare: “si recò al sepolcro
di mattino, quando era ancora buio”. Apparentemente sembra una
contraddizione: se infatti diciamo “di mattino”, lasciamo capire che in
quel momento c’è “chiarore, luce, giorno, visibilità”; se invece diciamo “quand’era
ancora buio”, sottolineiamo che è ancora “notte, tenebre, oscurità”; allora viene da chiedersi: la Maddalena è andata al sepolcro con la luce o con il buio?
In
realtà le due espressioni si adattano perfettamente allo stesso evento: è
infatti nel cuore di quella donna e in quello dei discepoli, che regna il buio
più profondo: essi sono immersi nella notte più buia, nell’oscurità profonda,
non hanno più stimoli; senza la presenza di Gesù, del loro maestro, non riescono
più a pensare ad un loro domani. Improvvisamente però qualcosa di nuovo succede
in loro: le tenebre vengono disperse da una Luce abbagliante, dallo splendore sfolgorante
della risurrezione: è Gesù, il “Sol invictus”, che restituisce loro la chiara
visione della Vita.
Un
repentino cambiamento che Giovanni lascia chiaramente intendere: un cambiamento
che deve essere di conforto e di particolare insegnamento per noi: perché ogni
volta che ci smarriamo, che vediamo nero, che crolliamo in noi stessi pensando
di aver raggiunto un punto di non ritorno, è in quel momento che avremo la
netta percezione che qualcosa di nuovo, di positivo, sta per nascere. Qualcosa che
ci pone su di un livello decisamente superiore, che ci offre la possibilità di
fare un salto di qualità, di crescita, di decisiva evoluzione: ebbene, quel
“qualcosa” che emerge confortante dalle nostre macerie, si chiama “fede”.
Avere
fede significa infatti “fidarci” di Dio: credere cioè che quanto di grave, di
imprevedibile possa succederci nella vita, non è mai in assoluto un male, un
fatto puramente negativo, ma è un’opportunità che Dio, nella sua bontà, ci
offre per plasmarci, forgiarci, purificarci, mettendo a nudo le nostre
debolezze, i nostri errori. Tutto ciò che ci succede, pertanto, ha sempre un
valore positivo, a fin di bene: certo, a volte è doloroso, duro, incomprensibile,
per niente piacevole, ma è sempre un invito spiritualmente valido, perché ha lo
scopo di rimetterci nella giusta direzione.
Se
rimaniamo ad un livello razionale, come è successo per gli apostoli, il venerdì
santo diciamo: “Che disastro! Gesù è morto! Tutto è finito!”. Ma se compiamo il
“salto” di fede, la domenica di Pasqua esclameremo gioiosi: “Gesù è morto per
redimerci, per la nostra salvezza; oggi Lui è risuscitato e continuerà a
proteggerci: Dio sia lodato e ringraziato!”.
Dal
punto di visto materiale, una crisi è sempre “buio pesto”, è sempre
distruttiva, dolorosa, non piace a nessuno, tutti vorremmo evitarla: separarsi
definitivamente da una persona cara è sempre molto doloroso; vedere distrutti i
progetti di una vita è sconfortante; constatare di aver sbagliato tutto, dopo
anni di lavoro e di sacrifici, è destabilizzante.
Se però
facciamo il salto di qualità, di evoluzione, se guardiamo con gli occhi
della fede, allora tutto è resurrezione, tutto è vita. Qualunque evento grave,
per quanto grave sia, per quanto ci sprofondi nel buio più totale, se
affrontato con gli occhi della fede, diventa “luce”, diventa vita, diventa
resurrezione”.
Ma praticamente,
per la nostra vita cristiana, in cosa consiste il “salto di qualità” che
siamo chiamati a fare? Prima di tutto nell’esercizio della “carità”: non
dobbiamo cioè inveire e reagire sempre e solo contro gli altri, se l’esistenza
ci chiude qualche porta in faccia, se quanto ci succede è sempre insoddisfacente:
gli altri non sono per principio i responsabili di tutto il male del mondo; non
sono peggiori di noi: sono anch’essi figli dello stesso Padre, sono nostri
fratelli; sono soltanto “diversi” da noi, non sono noi: seguono vie di
perfezione diverse, hanno tempi di crescita e maturazione diversi: forse noi
siamo chiamati a “lavorare” nella Vigna di Dio fin dalla prima ora, loro magari
all’ultimo istante: ma tutti indistintamente dobbiamo presentarci davanti allo
stesso proprietario, a nostro Signore. Le accuse, le condanne non servono, ci
pongono in un ruolo giudiziale che non ci compete, non è il nostro. Dobbiamo
invece guardare le cose con occhio sereno, nella loro giusta luce. Solo se guardiamo
l’oggi alla Luce dell’Amore di Dio, ci accorgiamo che tutto ha una sua autenticità,
uno scopo, un suo lato buono; il male che vediamo nella sua ineluttabilità, si
trasforma in un bene concreto, possibile: tutto diventa recuperabile,
riscattabile; tutto diventa positivo; magari in maniera incomprensibile, ma
tutto si rimette nella sua giusta prospettiva.
Dobbiamo
insomma vivere i nostri giorni da protagonisti, con entusiasmo, con iniziative
sempre nuove; ma dobbiamo farlo sapendo che il “mondo” non è nostro, non
ci appartiene; risponde a delle regole che trascendono la nostra comprensione. Dobbiamo
imparare a guardare sempre al di là del momento presente, dobbiamo imparare a
guardare il “domani”, perché è su di esso che dobbiamo lavorare, perché è in
esso che verrà valutato il grado della nostra maturazione. Prima o poi infatti
arriverà quel “domani” in cui la morte si presenterà alla nostra porta, e ci
chiederà il “consuntivo” del nostro lavoro; è il normale ciclo della
vita, inutile abbandonarci all’angoscia. Inutile opporsi: “No, non voglio. Ho
ancora troppe cosa da fare qui. Non sono ancora pronto!”. Inutile dimenarsi:
non abbiamo appigli sindacali o avvocati del lavoro cui appellarci. Allora
capiremo alcune ovvietà: che tutto quello che pensavamo “nostro”, lo abbiamo
avuto soltanto in “concessione” “in uso”; che niente e nessuno ci appartiene,
niente e nessuno può sostituirsi a noi: con nulla siamo nati, con nulla
moriremo. Assolutamente soli. Solo se saremo “ricchi” di povertà, di umiltà, di
fede, risorgeremo con Dio, nella gloria dei santi. Amen.
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