giovedì 29 aprile 2021

2 Maggio 2021 – V Domenica di Pasqua

“Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,1-8).

 Il brano del vangelo di oggi è tratto da quel lungo discorso di addio, che Gesù ha rivolto ai suoi prima di morire (Cfr. Gv 13-27). In quel contesto Gesù apre completamente il suo cuore ai discepoli, manifestando loro, con grande amore, i suoi sentimenti più profondi: egli parla di sé, della sua “ora”, di loro, di ciò che li preoccupa, di ciò che li aspetterà nel futuro, dell’amore e dell’odio che incontreranno nel mondo. È in tale contesto che per spiegare in maniera più comprensibile chi è lui, il suo ruolo, la sua leadership, ricorre all’immagine della vite e dei tralci, un simbolismo molto conosciuto e frequente ai tempi di Gesù. Nell’Antico Testamento, per esempio, Israele, il popolo eletto, era la “vigna” di Dio. Nel Cantico dei Cantici la sposa invita lo sposo nella “vigna”, ritenuta per antonomasia il luogo dell’amore, dell’incontro, della felicità, della gioia. Così pure il “vino”, ottenuto dal frutto della vite, per gli antichi era simbolo di benessere interiore, di appagamento delle aspirazioni più profonde, di ebbrezza, di stordimento spirituale, di intensa percezione della bellezza del vivere. Quando a Cana manca il vino, la festa rischia improvvisamente di guastarsi; ma dopo che Gesù vi ha posto rimedio, assicurando vino a volontà per tutti, i festeggiamenti, i canti e le danze, riprendono a pieno ritmo, più di prima.

Se dunque manca il “vino”, elemento fondamentale per la felicità, per il benessere dell’uomo, vuol dire che a monte è venuta a mancare la materia prima, vuol dire cioè che i tralci della vite non hanno prodotto alcun frutto, che non è avvenuto più alcun passaggio di linfa vitale, che essendo secchi, sono stati tagliati via.

È esattamente in questi termini che Gesù spiega ai suoi che se vogliono ottenere dei risultati nella loro missione, devono sempre rimanere uniti a Lui: proprio come avviene in natura tra la vite e i suoi tralci. Il tralcio è diverso dal fusto della vite, ma è strutturalmente unito ad essa, è la sua propaggine, e solo se rimane unito ad essa può portare frutto: se diventa secco e viene tagliato via, non servirà più a nulla e verrà bruciato. La vite quindi è la forza per il tralcio, è il suo nutrimento, la sua vita, il suo tutto. Vite e tralcio formano un tutt’uno inseparabile.

Un’immagine che si adatta molto bene per descrivere anche il funzionamento di qualunque forma di convivenza umana (Stato, famiglia, comunità), in cui le rispettive autorità (la vite), comunicando la linfa delle loro direttive, dei loro programmi, mettono in grado i singoli componenti (i tralci) di produrre, ognuno nel suo ruolo, i frutti necessari per il benessere, la prosperità, la sopravvivenza della collettività.

In ogni comunità, infatti, ogni componente ha un ruolo ben preciso, diverso da quello degli altri, in quanto ogni persona rappresenta un unicum irripetibile: c’è infatti chi ama e interpreta a modo suo il lavoro, chi l’arte, chi la musica, chi lo studio.

In questo “mondo” variegato però, per una errata super valutazione di noi stessi, vorremmo che nessuno potesse superarci, nessuno fosse “più” di noi, non accettiamo “diversità”; ci dà fastidio cioè che nella vita gli altri esprimano meglio di noi le loro potenzialità, realizzino con maggior successo i loro programmi, diventino insomma quei “tralci” unici, speciali, che producono una tale quantità di frutto, alla quale noi non potremo mai arrivare.

Ciò che unisce una famiglia, una comunità, non sarà mai il fare tutti le stesse cose, l’essere tutti uguali, con le stesse potenzialità, ottenere identici risultati; al contrario tutti indistintamente devono dare il “meglio” delle loro possibilità personali: perché la superiore qualità del prodotto non è data dalla quantità, ma dalla bontà, dal gusto, che sono dovuti ad una circolazione più capillare della linfa, alla migliore esposizione ai raggi del sole; in altre parole è l’amore, il dialogo, la condivisione, la comprensione, la disponibilità che in una convivenza crea stabilità, serenità, pace, benessere comune.

Molte famiglie, molte comunità, molti “gruppi”, pensano di essere uniti solo perché si radunano insieme molto spesso. Ma non è l’incontrarsi di frequente che dimostra l’unione di un gruppo. Essere uniti è tutt’altra cosa; significa condividere nell’anima, nello spirito, nella vita gli stessi sentimenti, gli stessi ideali; significa “sentire” che gli altri condividono le nostre aspirazioni, i nostri ideali, le necessità della nostra anima, esattamente come noi facciamo con loro: l’unione vera, infatti, è data da una vicinanza “sentita”, da una commistione (mai dalla fusione!) di due spiriti assolutamente liberi e autonomi, non certo da una compresenza fisica di corpi tutti uguali.

Noi che siamo i “tralci”, pertanto, non dobbiamo mai staccarci dalla vite, che rappresenta l’unica nostra possibilità di emergere, di sopravvivere; non dobbiamo mai staccarci dalla nostra “vite”, dal nostro “Spirito”, dalla nostra anima; mai arrogarci, da tralci quali siamo, le prerogative della vite, perché nell’esatto momento in cui lo facciamo, perdiamo ogni nostra vitalità, rinsecchiamo, siamo destinati ad una morte spirituale certa. È la legge della vita: il tralcio, staccato dalla vite, inesorabilmente muore. Non abbiamo alternative.

Gesù dunque si propone come “Vite”, come “Vita” vera: “Io sono il sapore della vita, io sono il gusto, l’ebbrezza della vita, sono l’elisir della felicità, l’unico vero piacere della vita”. Parole però che lasciano trasparire anche le difficoltà del percorso per giungere a tanto: ogni qualvolta, per esempio, il sacerdote nel celebrare l’Eucaristia pronuncia sul vino, frutto della vite, la formula sacramentale “Questo è il mio calice, versato per voi”, con cui lo transustanzia nel sangue di Cristo, ci ricorda due cose importanti: che il “sangue versato”, oltre che ricordarci la passione di Gesù, ci mette di fronte alla nostra situazione umana, alle nostre malattie, alle nostre sofferenze; all’aspetto più difficile della vita, all’aspetto più duro, ostico, doloroso (non per nulla qui Gesù, alludendo ai “tralci”, parla della necessità di potarli, purificarli, tagliarli); ci ricorda in particolare che quel “sangue” è Gesù stesso in persona; è il nostro gusto, il nostro sapore, la nostra gioia di vivere: è Lui infatti che con la sua presenza dentro di noi, ci infonde vitalità, entusiasmo, serenità, vita pura, e soprattutto il suo amore dal gusto inconfondibile.

Vivere nell’intimità divina, in stretta unione con Gesù, la nostra Vite, vuol dire per noi “tralci” segregarci dalle cose futili della quotidianità, rifugiarci nel silenzio della nostra anima, lasciarci inebriare dalla Sua presenza, agevolare in noi la trasfusione della Sua forza, della potenza del Suo amore.

Chi a questo proposito dice: “Preferisco non pensare a situazioni simili, per me sono impossibili!”, oppure “Non voglio sognare, perché poi, di fronte alla realtà, mi sento peggio!”, è decisamente un rinunciatario, uno che quando piove preferisce stupidamente starsene fuori a bagnarsi, piuttosto che entrare in “casa”! Come può pensare infatti di entrare in intimità con Dio, chi si rifiuta a priori di entrare in intimità con sé stesso? Per entrare in unione con Lui non basta andare in chiesa e riempirlo di parole, di promesse, di chiacchiere, di preghiere biascicate. Sono troppi quelli che purtroppo parlano “a Dio” ma non “con Dio”. Sono troppi, anche tra persone religiose e consacrate, quelli che quando sono in chiesa, quando sono davanti a Dio, quando pregano, quando cantano, quando celebrano, non provano più alcuna emozione interiore, nessun trasporto spirituale, nessuno slancio; persone che non si commuovono più di fronte alle parole di Gesù; che non si lasciano coinvolgere in ciò che fanno; che non provano l’ebbrezza del canto o l’intima e preziosa sonorità del silenzio. Persone, insomma, che non si avvicinano a Dio, che hanno paura, hanno soggezione di Lui; persone che per giustificare la loro mediocrità, diventano logorroiche, lo subissano di vuote parole, piuttosto che di prove tangibili di amore.

Troppe persone parlano agli altri dell’amore di Dio, invitandoli ad amarlo: sono anche ripetitivi, insistenti, ma lo fanno soltanto con la voce, con la bocca, perché il loro cuore è arido, insensibile; la loro vita lascia trasparire solo tristezza, amarezza, rinunce, sconfitte, rimorsi. Non è così che dimostriamo di “amare Dio”. Non è questo l’amore che Dio vuole da noi, non è questa la felicità che ha pensato per noi: Egli al contrario, per noi, ha creato il sole, le stelle, la natura, i colori, tutto il mondo; soprattutto ci ha donato il suo amore, perché lo gustassimo, lo assaporassimo, perché ci saziassimo il cuore e l’anima.

Tutto ciò che esiste, esiste solo per noi. Non per essere conquistato, nascosto, posseduto in maniera esclusiva, ma per essere fraternamente goduto con gli altri, per essere generosamente condiviso. Il Talmud, infatti, dice giustamente a questo proposito: “Sarete giudicati su tutte le occasioni di gioia e di felicità alle quali in vita avete rinunciato!”.

Purtroppo abbiamo a che fare con una natura umana che è fondamentalmente egoista; vorremmo sempre essere solo noi i padroni, i fruitori unici di tutto. Anche nelle piccole cose, in quelle che facciamo meccanicamente, senza pensare: per esempio quando ci troviamo di fronte ad un paesaggio, ad una veduta incantevole, cosa ci viene di getto? Piuttosto che ammirarli sul posto, di viverli in quel momento, assaporandone in silenzio ogni particolare, ogni sfumatura, ci preoccupiamo di farli “nostri”, li fotografiamo per “metterceli via”, vogliamo inconsciamente catturarli, possederli, averli sempre in esclusiva per noi.

Dovremmo invece “gioire”, “ringraziare Dio” perché le cose esistono, perché ci sono, perché tutti possono ammirarle. Lasciamole vibrare liberamente dentro di noi, assaporiamole con intensità, ma lasciamole libere; non pretendiamo di possederle, non sono nostre, non ci appartengono.

Amiamole così come sono, perché se riuscissimo ad averle, non le godremmo più: il possesso infatti soffoca, “fagocita”, oltraggia, svilisce; è schiavitù, voracità, insaziabilità. L’amore al contrario è libertà, gioia, felicità, serenità, altruismo.

Ma torniamo all’immagine della vite e dei tralci: perché essa ci ricorda appunto i principi fondamentali della vita e della convivenza; primo: se ci stacchiamo dalla linfa, moriamo; secondo: se non “distribuiamo” questa linfa anche ai tralci che si diramano da noi, il nostro frutto non sarà mai copioso e completamente valido.

Gesù dice: “Rimanete in me”. E ce lo ripete quasi ossessivamente, perché dobbiamo coglierne il pieno significato. È importantissimo, perché in questo “rimanere in Lui” c’è tutto il segreto della vita felice; potremo cioè anticipare già in questa vita quella felicità futura che ci è stata promessa per quando lo vedremo “così come egli è(1Gv 3,2).

I ragazzi di oggi, a chi è visibilmente distratto, chiedono: “Sei connesso?”. Ebbene, chiediamocelo anche noi: il nostro cuore, il nostro cervello, la nostra anima, sono sempre “connessi” tra loro e con Lui? Guai a noi se chiudiamo questo contatto, guai a noi se stacchiamo la spina, perché, ci dice Gesù, “senza di me, voi non potete far nulla”: è Lui infatti l’unico canale attraverso cui riceviamo linfa, forza, vita, amore, felicità. Amen.

  

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