Il vangelo di oggi descrive due apparizioni di Gesù ai discepoli rinchiusi nel cenacolo. Nella prima, avvenuta in assenza di Tommaso, Egli lascia intuire le conseguenze del “vedere” il Signore nella propria vita; nella seconda, alla presenza di Tommaso, fa capire che “vedere” il Signore è un fatto strettamente riservato, personale: nessuno infatti può in alcun modo sostituirci nel toccarlo, sentirlo, viverlo, sperimentarlo dentro di noi: è una esperienza intima, che ciascuno deve fare da solo.
I
discepoli, dopo la morte di Gesù, pensando che: “Se hanno ucciso Lui, sicuramente
uccideranno anche a noi!”, si sono barricati nel cenacolo. Vivono le giornate
in preda al panico, segregati da tutti, a porte sprangate. Il riferimento alle “porte
chiuse”, in simile contesto, acquista un significato molto forte: essi, in altre parole, non vogliono
più saperne di Gesù, hanno paura, vogliono dimenticare tutto, vogliono tornare
alla loro quotidianità, alla vita di prima.
Certo hanno
trascorso giorni indimenticabili con Gesù: sono arrivati anche a credergli, a
seguirlo con entusiasmo, ma la tragedia delle ultime ore ha infranto ogni loro sogno:
l’unica possibilità è quella di rinunciare a tutto e di tornare nel grigiore
dell’anonimato.
La paura
è un sentimento irrazionale che costringe spesso l’uomo a fare scelte estreme:
è infatti per paura che anche noi talvolta voltiamo le spalle a Dio, alla
nostra fede: non ce l'abbiamo con Lui, anzi lo vorremmo conoscere a fondo, vorremmo
che rimanesse nel nostro cuore; sappiamo bene che non è un nemico, che non vuole
ucciderci, condannarci, o farci del male; ma nel nostro animo proviamo comunque
una gran paura: paura di “aprirgli le porte”, paura per quello che potrebbe
trovare dentro di noi, paura di sentirci rinfacciare la perdita dell’entusiasmo
iniziale, l’abbandono dei nostri doveri, delle nostre promesse; paura di finir
sbugiardati per le nostre mascherate, per la nostra ipocrisia, per la nostra
ambiguità, per i nostri progetti fondati sul nulla.
Il
vangelo di oggi ci assicura invece che il nostro Dio non incute terrore: è un Dio
che non vuole mettere nessuno con le spalle al muro. Anzi, incontrarlo, è vitale
per noi, è un evento assolutamente positivo, indispensabile: significa
scuoterci dal nostro immobilismo, dalla nostra apatia, dal nostro nasconderci;
significa rinunciare alla nostra mentalità egoistica, vivere nella realtà, scegliere
solo il bene, ciò che è costruttivo, efficace, anche se costa, anche se è impegnativo,
talvolta doloroso, imbarazzante: perché significa togliere i “paletti” di protezione
del nostro “ego”, significa aprire ogni serratura, spalancare tutte le porte;
significa mettersi completamente nelle Sue mani, accettare ogni Sua iniziativa;
significa farlo entrare nelle nostre “segrete”, nella zona tenebrosa della
falsità, della presunzione, dell’orgoglio, dell'ignoranza, dell’inganno: nella notte
fonda della nostra anima.
Tommaso
non è presente a questa prima apparizione: come a dire che non è ancora pronto
ad incontrare Gesù: resiste, è dubbioso, nell’incertezza non vuole aprire il
suo cuore a nessuno.
Ma
quando Gesù entra per la seconda volta nel cenacolo e davanti a lui ripete:
“Pace a voi!”, tutte le sue resistenze cadono. Si rende conto che Egli non
inveisce, non rimprovera, non biasima nessuno: al contrario augura pace a
tutti, a ciascuno; un saluto, il suo, estremamente rassicurante: “Stai
tranquillo, non ti preoccupare, non ti spaventare, ci sono io, non temere, non
aver paura”. E questa volta, rivolto solo a lui, mostrandogli le ferite, dice “Metti
qui il tuo dito e guarda le mie mani… non essere incredulo, ma credente!”.
Perché
in questo incontro Gesù mette in evidenza le sue ferite? Di fronte allo
scetticismo di Tommaso, non sarebbe stato più credibile, più perentorio, più
scenografico dimostrare in maniera eclatante la sua potenza, la sua gloria, la
sua divinità, la sua vittoria strepitosa sulla morte, piuttosto che abbassarsi
a documentare con le prove la sua passione, assecondando le pretestuose
condizioni di un povero diffidente?
Per una
ragione fondamentale: la fede cristiana, fin dal suo esordio, doveva avere come
riferimento non un Dio inavvicinabile, scontroso, incomunicabile, isolato nella
sua gloria, nella potenza della sua maestosità, ma un Dio umile, rivestito di
“umanità”, morto crocifisso; che per redimere l’uomo, per restituirgli la
dignità perduta, ha “svuotato sé stesso”, ha rinunciato alla sua divinità,
assumendo la natura umana con tutti i limiti e le sue debolezze; che per amore
ha accettato il patibolo della croce, sopportandone “fino alla fine” le estreme
e strazianti sofferenze.
È questo
il motivo per cui Gesù si presenta agli uomini senza alcuna ostentazione di
potenza, senza i fasti della sua maestosità, senza i trofei delle sue vittorie,
ma esibendo umilmente, amorevolmente, le sue piaghe, le sue mani forate dai
chiodi, il suo cuore trafitto dalla lancia. Egli si presenta con i segni della
sua passione, per rassicurare, per confortare, per accogliere e alleviare il
dolore umano, per incontrare da pari l’umanità sofferente: Egli, alle piaghe
inflittegli dalla malvagità umana, contrappone l’amore premuroso di un Padre
che vuole eliminare dai suoi figli ciò che è male, che è doloroso, che
impedisce loro di vivere, di crescere, di camminare spediti e liberi al suo
seguito.
Chiunque
ha avuto personalmente la fortuna di incontrarlo sulla propria “via dolorosa”,
non può che riconoscere questa verità: “È vero, mio Dio, avevo veramente
bisogno di te: al tuo sguardo le mie ferite sanguinanti sono completamente
scomparse. Il tuo amore mi ha ridato vita: l’unico mio rammarico è di non
averti incontrato prima!”.
Purtroppo
tanti, troppi cristiani continuano a tenere Dio fuori dalla loro porta,
preferendo vivere stupidamente da invalidi, con le loro ferite doloranti, le
loro piaghe purulente. La loro è una vita non-vita, carica di angoscia, di
rabbia, di dolore, di lacrime, di disperazione. Anche se all’esterno non
traspare nulla, anche se dal di fuori tutto sembra assolutamente normale, nel
loro intimo sono dominati dalla paura, dal sospetto, dalla solitudine. Non si
fidano di Gesù, non vogliono ascoltare le sue parole, ignorano il suo invito,
la sua amicizia, il suo aiuto: “Non temere, lo so che hai una paura folle, lo
so che chiudi tutte le tue porte, lo so che ti sei sbarrato in te stesso e non
vuoi che io entri, ma fidati, fammi entrare nella tua paura, nei tuoi spazi ermeticamente
serrati; stai tranquillo, io vengo per offrirti soltanto amore e pace! Fammi
entrare e scoprirai che la tua vita, anche nel dolore, nelle contrarietà, nelle
sconfitte, con me al tuo fianco, diventa motivo di serenità, di soddisfazioni,
di gioia, di amore”.
La nascita
e lo sviluppo della nostra fede, come tutto ciò che ci riguarda, sono legati alle
nostre personali esperienze. Il percorso che fanno gli altri, le prove che
incontrano, non incidono sulla nostra crescita spirituale; sapere come gli
altri abbiano incontrato la fede è sicuramente istruttivo, ma del tutto
irrilevante per il nostro percorso: perché è fondamentale, essenziale, che siamo
noi stessi, personalmente, ad incontrare Dio: un incontro che oltretutto deve
essere veloce, bruciante, decisivo: per consentirci di esclamare quanto prima con
Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, o Dio, ma ora i miei occhi ti
vedono…” (Gb 42,4).
I testimoni, i santi, la fede degli altri, non ci bastano: incontrare Dio è una nostra esclusiva esperienza. Che poi, concretamente, non è che sia un’esperienza tanto difficile.
Quando alla domenica andiamo in chiesa per l’Eucaristia, non andiamo forse per incontrarlo? Non andiamo per alimentare la nostra relazione d'amore, per stare un po’ con Lui, per “vedere” il nostro Amore? Altrimenti che ci andiamo a fare!
Molte
persone dicono: “Io a Messa ci vado solo quando ho tempo, quando ne ho voglia,
quando non ho niente da fare”. Errore! Esprimersi così è sbagliato, da
ignoranti: perché se amiamo veramente qualcuno, la cosa più importante che vogliamo
è di vederlo sempre, di continuo. Una relazione d’amore ha bisogno di vicinanza
continua, di incontrarsi, di vedersi, di conoscersi: ha bisogno di intimità, altrimenti
che amore è?
Molte
persone vanno in chiesa, ma non ci sono con il cuore, con l'anima; non cantano,
non pregano, non ascoltano la Parola di Dio; non partecipano, non si lasciano
coinvolgere, sono sordi, disinteressati, chiusi nella loro indifferenza:
esserci o non esserci per loro è la stessa cosa. In questo modo però è
impossibile qualunque intimità con Dio, qualunque incontro, qualunque relazione.
È come andare a far visita ad una persona amata e non parlarle, stare
ammutoliti, immusoniti, non interessarsi a lei. Che amore è? Che rapporto è?
Allora,
ogni volta che ci raduniamo nel nostro “cenacolo”, nelle nostre chiese,
consapevoli di essere degli innamorati fedifraghi, comportiamoci da peccatori
pentiti: mostriamo al Signore le nostre “ferite”: inosservanze, incomprensioni,
egoismi, liti, giudizi maligni, relazioni sbagliate; ferite doloranti da cui sentiamo
il bisogno di guarire, di disintossicarci: mettiamoci umilmente ai piedi di
Gesù, entriamo un istante in noi stessi, chiudiamo gli occhi e ascoltiamo la
sua voce suadente: “Pace a te; non aver paura; ci sono io, sta’ tranquillo”.
Ogni volta che andiamo a Messa, mostriamo al Signore il nostro “costato trafitto”, le ferite profonde del nostro cuore, del nostro io, della nostra dignità, del nostro onore, dell’essere rifiutati dagli altri, traditi, incompresi, umiliati, evitati. Sono sensazioni amare che corrodono la vita, ci destabilizzano, ci umiliano: l’aver fallito nella vita, nel matrimonio, nel lavoro, nell'educazione dei figli; l’aver umiliato, usato, ingannato il prossimo; l’essere superficiali, trasgressivi, incuranti di migliorare, di maturare spiritualmente.
Offriamole, tutte queste
nostre ferite, proprio perché dolorose, alla misericordia divina. E aspettiamo
umilmente il balsamo delle parole di Gesù, cariche di amore, di comprensione,
di condivisione: “Pace a te; ci sono io con te: non disperare, fatti coraggio, risorgi,
riposati qui un momento con me. Io ti amo così come sei: io posso guarirti, ma
solo se anche tu lo vuoi; insieme affronteremo la strada da percorrere; anche
se ti senti debole, tu puoi seguirmi: stabilisci tu la lunghezza del passo, io
non ho fretta, ti aspetto, e se cadi ancora, ti prenderò in braccio. Ti amo e continuerò
sempre ad amarti, in ogni caso, perché io ho bisogno del tuo amore!”.
Sono
parole preziose, importanti, sono di Dio, sono quelle di cui abbiamo bisogno, quelle
che ci ridanno pace, fiducia, amore, forza per rialzarci e ripartire
rinvigoriti.
Ecco,
questo è un nostro semplice, umile, “incontrare” Gesù: facciamolo ogni domenica;
facciamo questa esperienza di risurrezione con Lui, col Risorto. Incontriamolo,
assicuriamogli la nostra buona volontà, il nostro amore, la nostra riconoscenza:
e diciamogli convintamente che senza di Lui, senza la sua vicinanza, senza il
suo aiuto, senza il suo amore, è veramente impossibile vivere. Amen.
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