“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (Gv 10,11-18).
Giovanni, nel vangelo di oggi, ci presenta Gesù che si definisce “buon pastore”. Non un pastore qualunque, ma “ò poimèn ò kalòs”, come dice il testo greco: “il pastore quello bello, quello piacevole, buono”.
E si
sofferma a descrivere quelle che sono alcune delle caratteristiche particolari
di questo pastore: non solo guida le pecore, si prende cura
di loro, ma le conosce per nome, una per una; le difende dai
pericoli, le protegge dai lupi; se si perdono, va a cercarle fino
a quando non le ritrova; le ama talmente, da dare per loro la
propria vita.
Un
pastore, dunque, decisamente agli antipodi rispetto al mercenario: a
colui cioè che lo fa per lavoro, per soldi, per interesse, per guadagno. Al
mercenario non interessa il bene delle pecore, ma unicamente il proprio, egli
guarda soltanto il proprio tornaconto, a ciò che può guadagnare da esse. Egli
non le ama, ma si serve di esse, le utilizza, sono una merce di scambio.
Un po’ come ci comportiamo oggi anche noi “cristiani”, immersi in una società che di cristiano ha ben poco: in una società del benessere in cui ciascuno non dispone mai di un po’ di tempo per pensare concretamente al prossimo, per aiutare i più bisognosi, per prodigarsi a favore dei fratelli più deboli.
Siamo circondati da
gente che usa e abusa del prossimo: governanti, politici, datori di lavoro,
amici, colleghi, noi stessi: siamo tutti indistintamente “pastori” che cercano
di trarre dalle “pecore” un utile personale; dimostriamo loro attenzione soltanto
se la pensano come noi, se sono mansuete, accomodanti, se ci obbediscono, se
non creano problemi, se sono produttive. E poi? Più nulla.
Certamente così non siamo dei “buoni” pastori: non nutriamo vero amore, siamo autoritari, presuntuosi,
egocentrici, il nostro interesse primario è una smodata affermazione personale.
Al contrario invece l’intera umanità, noi per primi, sentiamo l’assoluto bisogno di “buoni” pastori:
di persone che ci siano vicine, che ci diano fiducia, che ci offrano la
certezza dell’accoglienza, di essere benvoluti, amati, ascoltati, al di là di
ciò che facciamo o di ciò che siamo. Persone alle quali poter dire: “So che se non
mi abbandonerai mai: sia nella buona che nella cattiva sorte, tu sarai sempre
con me”. Persone insomma che ci rassicurino, ci tranquillizzino; pastori veri,
pastori “buoni”, che trabocchino di carità e regalino amore sull’esempio di Gesù.
Sono
questi infatti i pastori che desideriamo costantemente al nostro fianco: in
particolare per adeguarci a loro, per imitarli, per immedesimarci in loro;
perché anche noi abbiamo il nostro piccolo gregge da accudire: anche noi siamo
“pastori”: anzi lo siamo doppiamente, sia nei confronti di noi stessi, che nei
confronti dei nostri fratelli.
Siamo pastori
di noi stessi, perché, raccolte nel recinto della nostra anima, della nostra
mente, abbiamo molte “pecore” da accudire: sono le nostre emozioni, le nostre
paure, le nostre aspirazioni, gli ideali della nostra vita, i richiami della
nostra coscienza, i nostri propositi, le nostre necessità spirituali. Come
dobbiamo comportarci con queste “pecore”? Noi le conosciamo bene, le sentiamo
nostre, in genere ci teniamo ad esse. Cerchiamo anche di riservare una maggiore
attenzione alle “malate”, a quelle che strada facendo si sono ferite.
Per
essere però degli autentici “pastori”, per meritare pienamente il titolo di
“buoni”, non dobbiamo mai lasciarci condizionare dall’orgoglio, non dobbiamo
mai “pretendere”, essere duri, testardi, esigere da noi stessi l’inarrivabile;
al contrario dobbiamo essere umili, riconoscere i nostri errori e porvi immediato
rimedio, non smettere mai di “cercarci” quando ci perdiamo, dobbiamo, insomma, percorrere sempre la
strada maestra, quella sicura, per condurre questo nostro “gregge” al recinto
sicuro della pace.
Tutto
ciò che prende forma nella nostra mente e che vive in noi, ha bisogno di cura,
di amore, di protezione, di dedizione; non ogni tanto, ma di continuo, ogni
giorno. Raggiungere un controllo maturo delle nostre “pecore”, diventare fedeli,
rispettosi dei nostri principi, precettori coscienziosi di noi stessi, richiede
tempo, applicazione, costanza. “Quanto ci vorrà?” È la classica domanda che puntualmente
ci poniamo nell’affrontare qualcosa di impegnativo: non lo sappiamo; ci vorrà
tutto il tempo che ci vorrà! Risolvere tutto velocemente, il più in fretta
possibile, significa non affrontare correttamente il problema, equivale a cercare
un risultato di comodo, un compromesso, un rimedio, soprattutto una risposta, che
potrebbe poi rivelarsi deleteria per la nostra vita.
Quello
di condurre, di guidare saggiamente quella miriade di “pecore” che escono
quotidianamente dal recinto della nostra mente, è ovviamente un compito
invisibile all’esterno, ma non per questo meno fondamentale, poiché si tratta
di un “gregge” che inevitabilmente si proietta, si materializza all’esterno.
L’importanza
del nostro essere dei “buoni pastori” in questo nostro compito nascosto è infatti
strettamente correlato con la nostra seconda identità di pastori, quella che ci
impegna all’esterno, che ci qualifica immediatamente per come ci comportiamo nei
confronti di un altro nostro gregge, di quelle “pecore” cioè che si
identificano come nostro prossimo, nostri fratelli, “pecore” che vivono materialmente
la nostra stessa esistenza, che ci stanno sempre vicine, oppure che incontriamo
saltuariamente: pecore con le quali dobbiamo relazionarci materialmente, pecore
che meritano tutta la nostra attenzione, la nostra carità, la nostra dedizione:
soprattutto, pecore che non dobbiamo “usare”, non dobbiamo “gestire”, non
dobbiamo umiliare; pecore che al contrario, proprio nel nostro ruolo di pastori,
guide, maestri, genitori, leader, dobbiamo “servire” con la massima attenzione
e cura: perché sono tutte “creature” speciali, che Dio ci ha affidato come compagne
di percorso: sono insomma quelle “pecore” che costituiscono il nostro “capitale
umano”.
Il “buon pastore”, al contrario,
trasmette stima, crea serenità, fiducia, gioia; egli crede nelle proprie
pecore; è convinto che in ognuna di esse ci siano germogli di bontà: “Io credo
in te perché sei importante, sei una creatura di Dio, sento che tu vali”. Per
questo egli vuol conoscere personalmente una ad una le proprie pecore: vuole
valorizzarle singolarmente, perché nessuna è uguale all’altra: egli sa infatti che
dirigerle, guidarle, significa stimolarle, incoraggiarle, spronarle nella loro personale
creatività, aiutarle a tirar fuori il meglio da loro stesse.
Essere “buon pastore”, in una
parola, significa amare le proprie pecore. Dove amare, come
insegna Gesù, sta per servire: mettersi cioè al servizio delle loro possibilità,
delle loro necessità, ponendo in secondo piano la propria volontà. “Servire”
non è assolutamente “asservire”, termine simile, ma che significa l’esatto
contrario; poiché indica un comportamento inaccettabile in un buon pastore,
come sottomettere, assoggettare, conquistare, dominare gli altri.
Anche qui però bisogna fare
attenzione, perché questa importante “apertura” verso l’altro, questa
sensibilità, questa bontà, non va assolutizzata, indiscriminatamente: non deve
cioè “condizionare” sistematicamente il pastore, non deve influenzare a
priori ogni sua valutazione. Egli deve sempre rimanere neutrale, libero,
per decidere con equità, con imparzialità; chi comanda, chi dirige
non può assecondare passivamente ogni velleità, ogni capriccio delle persone
affidate alle sue cure, soprattutto se sono minori. Se c’è da dire un “no”, se
c’è da correggere, se c’è da puntare i piedi per riprendere una “pecorella”
finita fuori strada, va fatto nella carità ma con mano ferma, senza esitazioni
o ripensamenti. Il capo, l’educatore, non deve temere il loro rifiuto, non deve
temere di deludere, e soprattutto non deve prestarsi a ricatti psicologici.
Ci sono genitori letteralmente in
balia dei figli. Non riescono a dire “no”. Non sanno tenere un punto fermo.
Madre e padre per assecondarli finiscono per mettersi l’una contro l’altro: con
il risultato che in genere l’una, la madre, per lo più disponibile al “sì”, è
la buona; l’altro, il padre, propendendo per il “no”, è il “solito” cattivo. In
questo modo, però, si finisce col permettere al figlio di averla sempre vinta,
di comportarsi come vuole, diventando col crescere sempre più un tiranno, un
despota, un patologico narcisista, che non avrà rispetto per niente e nessuno,
convinto di potersi permettere tutto ciò che vuole.
Molti “pastori” confondono la
bontà con la debolezza: si guardano bene dal dire un “no” deciso, temendo di
offendere, di ferire, di mancare di rispetto, di passare per “senza cuore”. Pensano
che deludere talvolta le aspettative, i desideri di qualcuno, equivalga ad
averlo in odio, ad essere crudeli nei suoi confronti. Ma non è vero: la
delusione, il disappunto, l'irritazione per dei “no” ricevuti, sono posizioni decisamente
positive, costruttive, perché obbligano il destinatario a fare delle
riflessioni altamente educative, a capire cioè che nella vita non tutto è
permesso, non tutto è legittimo; che esistono dei limiti, delle condizioni, dei
paletti da rispettare; che la convivenza umana, la morale, la coscienza,
impongono delle restrizioni, dei “no” precisi, che non consentono a nessuno di
fare ciò che si vuole.
D’altro canto però, i “pastori”
non devono neppure “maramaldeggiare”: non devono cioè infierire per principio,
per partito preso, sui loro sottoposti, opponendo sistematicamente,
sadicamente, un netto rifiuto ad ogni loro iniziativa: perché anche questo è
sbagliato, è altrettanto diseducativo; est modus in rebus, diceva
Orazio: ogni cosa ha una sua misura, un suo modo ottimale per affrontarla; non
bisogna mai scegliere gli eccessi, il rigore preconcetto, perché, pur
trovandosi nel giusto, colui che comanda senza amore, senza carità, finisce col
perdere la propria autorevolezza, col diventare un burbero fantoccio che difficilmente
otterrà ciò che chiede.
Il buon “pastore” sta sempre
davanti, perché deve condurre gli altri (in greco agaghèin, da àgo,
portare, precedere, guidare): deve cioè percorrere la loro stessa
strada, deve dare il buon esempio, senza urlare ordini in continuazione, ma
indicando con i suoi passi la direzione più agevole e sicura da seguire: convinto
che le regole del reciproco rispetto, dell’amore, della comprensione, sono le
stesse, sia per chi precede che per chi segue, sia per i pastori che per le
pecore. Amen.