Il
vangelo che la Liturgia ci propone questa domenica, è un brano profondo e
difficile: San Giovanni Crisostomo e Sant’Agostino l’hanno definito come il vangelo
che va al di là dell’umana comprensione.
A
differenza di Luca e Matteo, Giovanni non è un narratore, che racconta con scrupolosi
particolari la nascita e l’infanzia di Gesù. Il prologo del suo Vangelo è
plasmato in un modo teologicamente molto esigente: Gesù è la Parola di Dio: non
può essere una Parola qualunque, senza senso. Dio-Parola aveva rivelato il suo
eterno potere per mezzo della creazione, aveva mandato i profeti, suoi
messaggeri, perché parlassero di lui; nonostante ciò, Egli era rimasto nel mistero,
imperscrutabile, invisibile, celato dietro i principati e le potenze celesti.
Ad un
certo punto si è rivelato personalmente: incarnatosi in Gesù Cristo, ha voluto parlare
finalmente agli uomini, e lo ha fatto in maniera diretta, chiara, distinta.
In
principio c’era il Verbo: prima
ancora della creazione del mondo, esisteva dunque il Verbo, la Parola divina,
che doveva guidare e realizzare l’intera creazione: è la Sapienza di Dio, che
esisteva “prima ancora che esistesse il tempo, prima di creare la terra”,
come ci conferma il libro dei Proverbi (8, 22-24). In pratica esisteva da
sempre!
Era il Logos:
un termine che in greco, ha due significati: Progetto e Parola.
Per cui potremmo anche dire: “All’inizio c’era un Progetto”.
Un’affermazione meravigliosa con cui Giovanni dichiara che Dio, prima di creare
ogni cosa, aveva già nella sua mente un progetto, il cui contenuto era donare la
vita, dono divino per eccellenza.
Un’idea
che ci riguarda da molto vicino, perché vuol dire che non siamo qui per caso:
siamo qui perché Dio aveva ed ha un progetto su di noi. Pensate: noi, creature
insignificanti, facciamo parte del Progetto creativo di Dio: siamo qui per un
motivo ben preciso: accogliere in noi, e promuovere nel mondo, il messaggio di quel
Dio-Verbo, che si è fatto carne per rivelarsi a noi, redimerci dal nostro
primordiale peccato d’orgoglio, darci la possibilità di ridiventare figli del
Padre, creatore di Vita.
Per
questo Dio ci ha creati: perché ha bisogno di noi. Magari i nostri genitori
neppure ci vogliono, magari la gente ci rifiuta, magari noi stessi non ci approviamo,
non ci piacciamo; ma Dio ci ha voluto e continua a volerci: ci ha scelti uno
per uno, perché gli serviamo per realizzare il suo Progetto: ha bisogno delle
nostre braccia, delle nostre gambe, della nostra testa, per difendere i
principi, affidatici dal Verbo incarnato, contro l’azione di quel mondo che si
ostina a rifiutarli.
La vita
è un dono che Dio ci ha fatto; il dono che noi facciamo a Dio, è di viverla secondo
la sua Parola. È questo che Lui vuole da noi. “Io sono venuto, perché
abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza”.
Che vuol
dire “in abbondanza”: che praticamente dobbiamo vivere “in pieno”, investendo
tutta la nostra persona: corpo, anima, mente; dobbiamo buttarci, rischiare,
metterci in gioco, combattere. Chi non rischia nulla, vive per nulla, il suo
futuro non sarà che nulla. Chi rischia è quindi un uomo libero: perché solo chi
vive rischiando, vive la propria vita come dono da restituire a Dio; vivere col
freno tirato, senza rischi, significa sprecare la vita: il più grande peccato
che l’uomo possa commettere. In questo senso, allora, non diamo anni alla vita,
ma diamo vita ai nostri anni, perché solo così saremo la luce che
risplende nelle tenebre.
“Ma
le tenebre non l’hanno accolta”. Naturalmente le tenebre odiano la luce,
non la vogliono: qui Giovanni allude in particolare alle autorità religiose,
che hanno avversato Gesù in ogni modo, in ogni occasione: uomini del Tempio, freddi,
inflessibili, autoritari: dei “morti viventi”, dei senza cuore.
“Veniva
nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo”. Gesù, il verbo incarnato, è la
vera luce che illumina; ma attenzione, evitiamo di prendere degli abbagli, non
confondiamo la luce con le tenebre, perché il potere, l’orgoglio, la superiorità,
la mancanza d’amore, la rigidità mentale, ecc., non sono “luce”, non vengono da
Dio, non possono riconoscere Dio.
Non
lasciamoci incantare da luci, ancorché luminosissime, ma “diverse” dalla Luce
vera; noi siamo creature di Dio, siamo “divini”, cioè ripieni, impregnati di
Dio; non dimentichiamo mai chi siamo veramente, da dove veniamo, e dove
dobbiamo tornare.
Se dimentichiamo
che nel cuore abbiamo l’impronta di Dio, e viviamo come se non lo conoscessimo,
siamo come dei re detronizzati, degli emarginati che sopravvivono in schiavitù.
Una vera disgrazia!
“A
quanti però l’hanno accolto, ha dato la possibilità di diventare figli di Dio”.
Ecco,
questo è il progetto originario, il motivo pilota, l’idea primordiale di Dio
per ognuno di noi: farci diventare suoi figli.
Per anni
ci hanno insegnato che l’uomo è stato creato per “servire” Dio, che Dio è il
padrone del mondo, inavvicinabile, che preordina ogni cosa, che in quanto suo
servitore l’uomo deve ubbidirgli sempre, prontamente e fedelmente, perché Dio,
se non stiamo attenti, ci punisce prima in vita con dei castighi, e dopo, alla
morte, con l’inferno, con la dannazione eterna.
Ma non è
così: in realtà noi non siamo “servi” di Dio, siamo piuttosto degli amici, dei
figli che sono serviti continuamente e di tutto punto da Dio. Abbiamo
presente la lavanda dei piedi? (Gv 13,1-20). Ecco, è Dio che serve
l’uomo, non l’uomo che serve Dio. Dio non ci chiede particolari preghiere,
servizi, sacrifici per lui: è Lui, al contrario, che è venuto a portare i suoi
servizi, il suo amore a noi. La fede, allora, non va più alimentata da quanto
noi facciamo per Lui, ma da tutto quello che Lui fa per noi.
Altra
cosa importante: noi non siamo figli di Dio per nascita, per diritti acquisiti;
lo dobbiamo diventare. Come? Amando gli altri. “L’amore è da Dio: chiunque
ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché
Dio è amore” (1Gv 4,7-8).
Questa
di Giovanni è la teologia dell’amore: “trasgressiva” rispetto a quella
“vendicativa” di una volta: Dio non è più rinchiuso nelle chiese, nei suoi
tabernacoli, ma “in mezzo” al suo popolo, alla sua “Chiesa”; non è più immobile,
statico, com’era nel Tempio, ma è dinamico, in costante cammino verso l’eskaton
finale insieme alla sua gente. Dio non è più un luogo (tempio), ma è un tempo
(“kairòs”): perché nell’istante stesso in cui nasce amore, lì c’è Dio.
Il
Vangelo dice ancora che: “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo
a noi”.
Prospettiva
meravigliosa: perché vuol dire che questa nostra carne, il nostro corpo, è immagine,
è somiglianza di Dio. Vuol dire che il Verbo di Dio è realtà, concretezza, carne
umana come noi.
Se Dio
non si fosse incarnato in Gesù, non avremmo mai potuto ammirare il suo volto: “chi
vede me, vede il Padre!”. Dio ha avuto bisogno del
volto, delle mani, degli occhi, della bocca, esattamente come gli uomini, per
esprimere la sua Parola, per farsi vedere, per agire, per fondare e diffondere il
suo Regno su questo mondo.
Diceva Tertulliano: “Caro
salutis cardo, la carne è il cardine della salvezza”. Senza l’incarnazione
di Dio non vi è salvezza. “Incarnazione”
infatti vuol dire che Dio è sceso sulla terra, è presente qui, da noi e con
noi, per salvarci.
“Dio non
si conosce”, continua a insistere la mente; “Dio si riconosce eccome!” le ribatte
il cuore. Noi possiamo vedere Dio dovunque, oppure da nessuna parte: dipende solo
dai nostri occhi.
In Gesù,
“unigenito del Padre”, c’è tutto quello che si può vedere di Dio. Quindi
non è Gesù ad essere come Dio, ma è Dio che è come Gesù. Pertanto, se vogliamo
sapere chi è Dio, cerchiamo, guardiamo, conosciamo, studiamo Gesù.
Infatti,
se ciò che vediamo, che ammiriamo con gli occhi e con l’anima, non è pura
bellezza inebriante, non è amore infinito, non potrà mai essere il Dio di Gesù.
Sulla
sommità di una vetta dolomitica, ricordo un cartello che diceva: “Non cercate
Dio: ci siete immersi”. Infatti Lui era lì, lo si sentiva... e per vederlo,
bastava guardarsi intorno! Amen.