giovedì 14 marzo 2024

17 Marzo 2024 – V DOMENICA DI QUARESIMA


Gv 12, 20-33 
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire. 

Il vangelo di oggi ci introduce nel mistero della vita. Giunto a Gerusalemme, Gesù si trova in una situazione estremamente critica: deve decidere se tornare in Galilea o rimanere e andare avanti fino in fondo. Finché predicava nel territorio al nord aveva avuto sempre compito facile con i suoi avversari: la Galilea distava da Gerusalemme 15 giorni circa di cammino, e Lui sapeva che rimanendo in quella regione lontana, la sua vita non sarebbe mai stata in serio pericolo.
Ora però le cose sono cambiate: capisce che il suo momento è arrivato e deve decidere cosa fare: e Lui senza esitazioni, ma con fare risoluto (tò pròsopon estèrisen, indurì il suo volto: Lc 9,51) sceglie Gerusalemme, pur sapendo che continuare la sua missione nel Tempio, nella città “santa”, centro della religione e del potere, significava sottoscrivere la propria fine.
La vita pone tutti, ogni giorno, di fronte a situazioni difficili: e anche noi, come Gesù, dobbiamo affrontare scelte obbligatorie, che non offrono alternative, che vanno fatte necessariamente, anche se dolorose, senza possibilità di ritorno; scelte in cui siamo chiamati a dare un senso alla nostra vita, a darle con decisione una forma, a modellarla, perché anche per noi, è “giunta l’ora”, come scrive Giovanni, di “glorificare” Gesù: attenzione però, perché il verbo, “doxàzo”, che in greco significa “onorare, rendere gloria, glorificare”, nel testo giovanneo, perde quella venatura esteriore, un po’ superficiale, tipica del lodare, dell’osannare dell’elogiare una certa persona; qui acquista un significato particolare che dice: “rendere visibile la presenza di Dio”, quindi un significato più impegnativo, più difficile, in quanto coinvolge soprattutto la nostra esistenza, il nostro comportamento, le nostre opere: in pratica, ci avverte che “è arrivato il momento di “rendere evidente, visibile, trasparente, nella nostra persona, nella nostra vita, la presenza di Dio, rendendolo l’ispiratore unico, il motivo determinante delle nostre scelte. È esattamente in questo senso che Gesù glorifica il Padre: infatti nessuno mai, più di Lui, ha “reso visibile” la presenza di Dio nella sua persona: tutto il suo operare, il suo vivere, il suo insegnare, è sempre in perfetta sintonia con il Padre; l’occasione “culmine” poi di questo glorificare, avviene nella sua passione: è infatti sul patibolo della croce che Gesù “documenta” al mondo la sua “unione inscindibile” col Padre e la sua volontà, accettando di bere fino in fondo il calice della sua morte sacrificale; è infine nelle mani del Padre, che il Egli affida il suo spirito: gesto, di incalcolabile valore per noi, che li accomuna nel riversare dall’alto della croce il loro infinito amore sull’intera umanità.
“Se il chicco di grano (in ebraico bar), caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Poiché la parola “bar”, in ebraico, oltre che “chicco di grano”, significa anche “figlio”, è molto probabile che nel pronunciare queste parole, Gesù stia alludendo alla sua persona; Egli infatti sa perfettamente che quel “chicco di grano”, quel “bar”, quel Figlio che doveva “morire” per portare “molto frutto”, era Lui, solo Lui! In questo senso, riusciamo a capire meglio un Gesù che, giorno dopo giorno, accetta questa sua inevitabile e dolorosissima missione mortale; riusciamo anche a immaginarlo, in qualche momento, assalito dall’angoscia, dallo sgomento, scoraggiato, sfiduciato: l’uomo Gesù, come noi tutti, odia la morte, non vorrebbe morire: “Padre mio se è possibile, passi da me questo calice”; tuttavia, mai, neppure per un istante, egli ha pensato di potersi sottrarre al volere del Padre, alla sua missione: “Però non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 26,39). Egli conosce bene la sua missione: sa di essere la vittima di espiazione, sa di dover pagare sulla croce il riscatto dell’intera umanità, per restituirle la sua originale dignità.
Ci rendiamo conto, allora, che proprio per questo, abbiamo contratto con Lui un debito incalcolabile di riconoscenza? Ebbene: c’è un solo modo per cercare di ridurlo: “glorificare” Dio; rendere cioè visibile la “presenza di Dio in noi”, fare cioè in modo che il “seme” della Parola e dello Spirito che Dio ha immesso in noi, e che noi dobbiamo far “morire”, diventino nella nostra vita, “riconoscibili, evidenti”; siano cioè determinanti per la nostra “crescita” spirituale e umana, e ci trasformino in testimoni viventi di Gesù e del suo vangelo.
È chiaro che per poter giungere a ciò, dobbiamo liberarci di molta zavorra: dobbiamo modificare le nostre priorità, avere il coraggio di fare i conti con la vita; dobbiamo cioè affrontare le contrarietà, le delusioni, le sofferenze, le sconfitte. Ma soprattutto dobbiamo far morire il nostro io esibizionista, il nostro narcisismo, il nostro egoismo: perché solo così lo Spirito ci trasformerà in Vita vera, e potremo “glorificare” Dio, testimoniandolo al mondo intero. Solo così potremo umilmente considerarci una piccola, infinitesimale cellula feconda e produttiva di quell’Amore, “donato all’infinito”, che noi chiamiamo Dio. Amen.

  

giovedì 7 marzo 2024

10 Marzo 2024 – IV DOMENICA DI QUARESIMA


Gv 3, 14-21 
In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Il brano del vangelo di oggi, lezione di alta teologia, è inserito nel lungo colloquio intrattenuto da Gesù con un uomo di nome Nicodemo, un fariseo “capo dei Giudei”, personaggio importante dell’aristocrazia sacerdotale, profondo conoscitore della Bibbia, della religione: insomma un saggio del tempo, un maestro della Legge, un “pozzo di scienza”, diremmo noi oggi: un uomo però che in cuor suo sente la mancanza di “qualcosa”, percepisce che esiste qualcosa di più grande, di “oltre”, che supera i limiti del suo sapere. 
Nicodemo è un uomo che non si accontenta, egli vuole capire, soprattutto vuole vivere questo “di più”. Per questo decide di incontrare Gesù. E Gesù gli fa una proposta nuova, imprevedibile, impensabile, umanamente inattuabile: gli dice sostanzialmente che deve “rinascere”; in pratica: “Quella che tu chiami vita, io la chiamo morte, un non-vivere. Se tu abbandoni questo tuo modo di vivere, di pensare, di rapportarti, io ti farò vedere cos’è la vita vera, quella eterna, quella che non finirà mai, quella che ti riempirà, ti sazierà, ti renderà veramente, perfettamente felice”.
Concetti difficilmente comprensibili per il povero Nicodemo: ma lo sono, anche e soprattutto, per noi, in questa società smaccatamente materialista: la richiesta di lasciare tutto, di abbandonare la realtà, il corporeo, il tangibile, il verificabile; di scegliere l’incorporeo, l’immateriale, il puramente spirituale, l’invisibile; di lasciare il certo per l’incerto, il noto per l’ignoto, sono tutte categorie misteriose, che incutono timore, che ci lasciano profondamente perplessi: seguirle fidandosi ciecamente, rivoluzionando radicalmente l’esistenza, richiede una forza, una convinzione, una fede difficilmente riscontrabile ieri e ancor più oggi.
Ma Gesù era così, duemila anni fa, come nel presente. Gesù è un uomo che fa sempre proposte sconvolgenti, che va contro tutti gli schemi, le convenzioni e le abitudini. Gesù apre orizzonti nuovi e impensati. Egli è davvero affascinante, attraente, perché ci presenta un modo di vivere estremo, meraviglioso, da “ci manca il fiato” tanto è intenso. Gesù è per le anime grandi, mal si concilia con chi ama il quieto vivere, il tran-tran quotidiano, il piccolo cabotaggio: abbiamo a disposizione infiniti esempi nelle vite dei santi, degli apostoli, dei martiri. 
Nessuno di noi ha scelto di entrare in questo mondo; il primo atto della nostra vita, le condizioni materiali in cui essa è avvenuta, non sono dipesi da noi, non abbiamo avuto possibilità di scelta. Ci è stata donata una vita, è vero, ma non è questa la “nostra” vera vita.
La nostra vera esistenza coincide con la nostra “rinascita”: perché “rinascere” significa “scegliere personalmente di vivere”: non ci basta più che altri ci abbiano messo al mondo, ma siamo noi che ora, in questo mondo, decidiamo di “vivere da protagonisti”; significa: “Ci sono e voglio esserci”, ma voglio “ripartorirmi” come dico io: la prima volta l’ha fatto nostra madre, ma questa volta vogliamo farlo noi; siamo noi che vogliamo esistere: da “ex-sistere”, “venir fuori” “distinguersi”, emergere dalla massa, dal nulla; significa lasciare un segno in questo mondo, essere felici di aiutare chi non lo è, vivere in maniera appassionata. 
Tutti dicono di vivere: ma la loro non è vita, è un sopravvivere; solo i “rinati” nello Spirito, i rinati “dall’alto” vivono realmente: perché lo fanno in una prospettiva spirituale, immortale, in una prospettiva più alta, più ampia, seguendo le ispirazioni dello Spirito.
Se non viviamo in questa prospettiva, rimaniamo radicati nella materialità di questo mondo; rischiamo di vivere unicamente per il denaro, per il successo, per il lavoro, per la carriera, per il divertimento: rischiamo cioè di trasformare tutte queste “suppellettili coreografiche” in colonne portanti della vita, di renderle nostro unico scopo di vita.
Noi invece dobbiamo sempre aver presente chi siamo realmente (figli di Dio), da dove veniamo (dall’Alto) e dove dobbiamo andare (nell’Amore di Dio): Dio non ci ha affidati ad un inesistente destino, non ci ha abbandonati a noi stessi, ma a ciascuno di noi ha assegnato un progetto ben preciso, unico, personale: una vita da vivere, da costruire, da realizzare.
Controlliamo allora, ogni tanto, il nostro work in progress, l’avanzamento-lavori della nostra “rinascita”; controlliamo attentamente cioè se la nostra vita si sviluppa nel rispetto del progetto divino.
Chi crede in lui non è condannato”, ci ricorda Giovanni: dove “credere”, per lui, significa “fare luce”, “portare luce” là dove regnano le tenebre, dove il peccato domina, dove esistono situazioni che odiano la “Luce”. Chi rifiuta la verità, chi non accetta di conoscere sé stesso, chi non vuole vivere la Vita, praticamente rifiuta la Luce e si condanna da solo.
Distogliamo allora il nostro sguardo da terra; alziamo finalmente gli occhi al cielo: purtroppo noi abbiamo lo sguardo puntato continuamente sul basso, non ci accordiamo della realtà meravigliosa che ci indica il cielo; abbiamo una visione delle situazioni, bassa, ristretta, limitata, terrena, superficiale. Siamo talmente presi dai nostri stupidi problemi, dai nostri piccoli fastidi personali, che non sappiamo far altro che girare a vuoto intorno a noi stessi.
Guardiamo in alto, invece! Lasciamo da parte le nostre banalità (come mi vesto, cosa mangio, la marca del nuovo telefonino, che televisore, che computer, che auto mi devo comprare…), non angosciamoci, per simili stupidaggini. Vale la pena rovinarci la vita per simili banalità provvisorie? Guardiamo lassù.
Soprattutto quando ci sentiamo angosciati, soli, depressi, finiti, quando intorno a noi tutto sembra precipitare nel nulla di una vita insensata, alziamo gli occhi, guardiamo in alto!
Rivolgiamoci con fiducia a Gesù, che dall’alto della croce, ci consola, ci assicura la sua protezione, il suo amore; fissiamo il nostro sguardo su quel cuore pieno di misericordia e di bontà, che continua a sanguinare per causa nostra; soprattutto abbandoniamoci al suo amore: buttiamoci tra le braccia ferite, ma sempre spalancate e accoglienti, della Vita e dell’Amore: é questo il nostro unico rifugio sicuro; è questa l’unica possibilità che abbiamo per difenderci dai morsi velenosi e mortali dell’antico serpente. Amen.  

 

giovedì 29 febbraio 2024

03 Marzo 2024 – III DOMENICA DI QUARESIMA


Gv 2, 13-25 
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 Siamo in prossimità della Pasqua, la festa ebraica per eccellenza, in occasione della quale tutti gli israeliti si recano in pellegrinaggio al tempio di Gerusalemme. È quindi, soprattutto in quei giorni che, in quel luogo, c’è un’eccezionale affluenza di persone, e di conseguenza, anche una maggior concentrazione di attività commerciali. Il pio ebreo, come pure i commercianti, sanno bene che per tale occasione la legge prescrive di presentarsi davanti a Dio, grande e onnipotente, offrendogli in sacrificio animali, oggetti preziosi, denaro, in segno di amore e di gratitudine.
La grande confusione di persone, animali, venditori, banchi, merce, che regna fuori e dentro il tempio, è quindi normale, ovvia. Come ovvia è anche la presenza dei “cambiavalute”: gli Ebrei che vengono da lontano, disponendo di monete romane con le raffigurazioni pagane dell’imperatore o degli dei, devono necessariamente cambiarle con le monete ebraiche, perché solo con queste è possibile versare alle autorità del Tempio la tassa di ingresso in denaro. Uno stratagemma che assicura ai grandi sacerdoti e ai dirigenti un incasso enorme e continuativo di denaro, trasformando addirittura il tempio in una specie di banca, quindi nel posto più sicuro in cui conservare i cospicui proventi di questo “sacro” commercio, tanto da far pensare che nel tempio, non si adora più Jahweh, il Dio di Israele, ma il Dio denaro, Mammona, il Dio ricchezza.
Gesù, dunque, giunto anch’egli a Gerusalemme, sale al Tempio e improvvisamente si trova di fronte al baccano di questa enorme folla di pellegrini e venditori, impegnati i primi a contrattare la merce, i secondi a richiamare urlando la loro attenzione: pertanto non all’ingresso del Tempio di Dio, ma nel bel mezzo di un mercato affollato.
Di fronte a ciò cosa fa Gesù? Si prepara una “frusta di cordicelle”, e con quella inizia a percuotere quanti stazionano alle porte del tempio, compresi dirigenti e autorità, e incalzandoli, rovescia i banchi con la loro mercanzia, cacciandoli tutti via!
Un vangelo singolare, molto forte quello di oggi: anche perché, leggendo attentamente tra le righe, possiamo cogliere, nel comportamento di Gesù, un significato ben più profondo del voler solo “ripulire” l’area del Tempio da gente indegna: possiamo infatti vedere in prospettiva l’eliminazione, la distruzione finale del tempio di Gerusalemme, peraltro apertamente confermata con le parole: “Non resterà qui pietra su pietra che non sia diroccata” (Mc 13,2). In altre parole Gesù annulla non solo “quel tipo” di tempio, con la sua ritualità, con la mentalità che lo anima, ma introduce una nuova concezione di “tempio”, un tempio più stabile e prezioso di quello in pietra, un tempio nuovo costituito dalla sua persona che, di fronte al tentativo dei giudei di distruggerlo, lui garantiva “in tre giorni lo farò risorgere”: e Giovanni si premura di precisare: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,19-21).
Con questo tempio indistruttibile, anche il modo di rapportarsi con Dio viene completamente rinnovato, sostituito; Gesù infatti introduce una nuova immagine di Dio, un Dio fino ad allora sconosciuto a tutti: un Dio che non gradisce, né tantomeno pretende dall’uomo, “offerte” e sacrifici “cruenti”, materiali; un Dio che, cosa fino ad allora impensabile e improponibile, diventa lui stesso “offerta e sacrificio” per l’uomo: da quel momento infatti, non è più l’uomo che si priva del pane, che se lo toglie di bocca per poter compiere il suo sacrificio a Dio, ma è Dio stesso che si fa “pane”, e diventa “nutrimento” per l’uomo.
Di conseguenza, il Dio di Gesù mette la parola fine anche al tempo delle imposizioni divine, della paura, del rapporto “servile” con un Dio Padrone, caratterizzato da una intransigente severità e regolamentato da rigide prescrizioni di legge: Dio non vuole più essere “servito” in questo modo: al contrario sarà Lui stesso, per primo, a servire e ad amare l’uomo.
Già anticamente per bocca dei profeti, Dio aveva espresso la sua contrarietà per come venivano compiuti i sacrifici in suo onore: “Sono sazio dei vostri olocausti di montoni e del grasso di pingui vitelli; smettete di portare offerte inutili” (Is 1,11-13); e decretava: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio e non gli olocausti” (Os 6,6).
Gesù poi, nel suo vangelo, è ancora più diretto: se la prende con l’esteriorità e l’esibizionismo delle elemosine, con la legge puntigliosa del sabato, con le riunioni in suo nome fatte senza convinzione, con le liturgie vuote e vanesie. Dio insomma non sopporta queste cose, non le gradisce, non vuole più offerte materiali: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Mt 9,13; 12,7).
Del resto, che senso avrebbe mantenere la ritualità dell’antico tempio, un manufatto in pietra destinato a scomparire, quando Cristo stesso si è fatto tempio, unico e autentico santuario di Dio? “È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv 4,23-24).
Sono parole chiare, determinanti, con cui Gesù stabilisce in via definitiva l’unico modo con cui adorare Dio. Dio è Spirito, è presente ovunque: per pregarlo, lodarlo, entrare in comunione con Lui, è sufficiente che il nostro “spirito”, la nostra anima, comunichi, interagisca con Lui, non importa dove ci troviamo. Per entrare in contatto personale con Dio non serve un luogo esclusivo, un tempio unico e grandioso, impreziosito da capolavori artistici.
Il Vangelo di oggi ci porta dunque a fare qualche considerazione proprio sul comportamento dei cristiani in quegli “spazi liturgici”, destinati fin dai primi secoli della Chiesa a raccogliere le moltitudini dei fedeli per le celebrazioni comunitarie, le liturgie sacramentali. Spazi che col tempo diventeranno nel mondo delle vere e proprie meraviglie architettoniche, orgogliose dimostrazioni della religiosità del nuovo popolo di Dio.
Certo, le Chiese possono essere anche di rara bellezza, le liturgie e i canti possono estasiarci per la loro maestosa solennità, ma se in esse non partecipiamo attivamente e consapevolmente, se alla nostra voce non uniamo anche il nostro spirito, la nostra anima (“mens nostra concordet voci nostrae”, raccomandava san Benedetto ai suoi monaci!), in una parola, se non entriamo in sintonia con Dio, se la nostra partecipazione non è per nulla “actuosa”, se non condividiamo quella “agàpe”, cioè quell’amore profondo e vitale per Lui e per i fratelli, il nostro sacrificio, la nostra liturgia, la nostra preghiera, la nostra lode a Dio, rimarranno sempre un culto puramente esteriore, inanimato, sterile.
Osservando infatti la scarsa affluenza domenicale nelle nostre chiese cattoliche, molti pastori giustamente si chiedono se i cristiani di oggi sentono ancora il bisogno di frequentarle, di presentare a Dio un degno sacrificio di lode. Giusta preoccupazione: ma sarebbe forse ancor più utile chiedersi: “Ma quelli che frequentano regolarmente le nostre liturgie, le nostre messe, percepiscono realmente la concreta presenza di Dio? Quando escono dalla chiesa, provano veramente in cuor loro la pace della “sua” benedizione, la serenità del “suo” perdono, la forza della “sua” misericordia? Si sentono veramente rinfrancati, toccati, guariti, conquistati dall’amore di Dio? Escono insomma seriamente consapevoli di dover trasmettere ai fratelli una testimonianza più credibile della loro fede, della loro carità, dell’amore a quel Dio, con cui hanno appena concluso un “pretiosum et admirabile convivium” assumendo Cristo, vero Dio e uomo perfetto, sotto le specie di un po' di pane?”
In questa quaresima di conversione armiamoci allora di ramazza, facciamo piazza pulita di tutte quelle icone squallide che deturpano il “tempio” della nostra anima. Ripuliamolo a fondo, questo nostro tempio così imbrattato: “cacciamo fuori”, come ha fatto Gesù, tutto ciò che schiavizza il nostro cuore, restituendogli la sacralità, la grandezza, la bellezza che merita, per poter rivivere con maggior partecipazione e dignità interiore, il nostro “culto” sacrificale per eccellenza, la nostra “Eucaristia”, la nostra Pasqua settimanale. Perché solo così potremo tornare a vivere “liberi e immacolati” nell’amore gratuito e incondizionato di Dio nostro Padre.
Amen.

  

giovedì 22 febbraio 2024

25 Febbraio 2024 – II DOMENICA DI QUARESIMA


Mc 9, 2-10 
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

 Oggi il Vangelo cambia radicalmente ambiente. Domenica scorsa eravamo nel deserto, nella solitudine, nella fatica, nella tentazione, nel pericolo di fare scelte sbagliate. Oggi siamo invece in una situazione completamente opposta: la scena è dominata dalla luce, dalla gioia, dalla felicità, dalla pienezza: è come “toccare il cielo con un dito”. Domenica scorsa Gesù era solo, oggi è insieme a Pietro, Giacomo, Giovanni, gli amati discepoli. Lì la voce e la visione del maligno, qui la voce e la visione di Dio; lì la sofferenza, qui la gioia e la festa; lì il buio e le tenebre, qui tanta luce e il volto di Gesù trasfigurato nel sole. A un Gesù umano che “vive” le tentazioni come tutti noi, si contrappone un Gesù divino che rivela a tutti la sua vera natura.
Che senso ha questo cambiamento così repentino, in una quaresima che dobbiamo vivere come un’esperienza rigorosa, votata alla penitenza, alla conversione, al sacrificio, alla preghiera continua? Cosa significa?
La spiegazione sta nel messaggio che Gesù vuole trasmetterci proprio dal Tabor: Egli in sostanza vuole anticiparci, già su questa terra, una piccola visione di quella che sarà la felicità futura, quella finale, paradisiaca, fatta di luce, di amore, di contemplazione divina. Ci dice in pratica che la quaresima non deve essere tristezza, ma gioia, entusiasmo; che il nostro cammino di “conversione” deve essere fatto volentieri, con il sorriso, con la fiducia nel suo amore. Gesù in poche parole ci dice che la nostra vita potrà un giorno diventare radiosa solo se ora siamo mossi dall’amore: perché solo l’amore potrà farci salire sull’eterno e luminoso Tabor celeste, dove regna la felicità, l’Amore, e farci trasfigurare contemplando quelle meraviglie che nessun occhio umano ha mai visto e mai potrà vedere, meraviglie che commuovono, che trasmettono sensazioni e commozioni uniche.
Una volta pensavo che commuoversi fosse segno di debolezza, di mancanza di maturità. Oggi so che vuol dire soltanto essere vivi: significa cioè percepire la nostra anima, chi siamo dentro; significa lasciarsi toccare il cuore, farsi coinvolgere da ciò che ci succede intorno; vuol dire non essere gelidi come il ghiaccio, impenetrabili come la roccia, insensibili come un organismo arido, sterile. Vuol dire, in una parola, lasciarsi “trasfigurare”.
La vita è piena di questi momenti di Trasfigurazione; per farne esperienza dobbiamo soltanto saperli “vedere”: sono momenti in cui ci rendiamo conto di essere veramente amati, di essere “speciali” per qualcuno; momenti in cui siamo particolarmente felici di stare al mondo, di esistere, di amare, di credere, di donare; momenti che ci danno la forza, il coraggio, di andare sempre avanti, di affrontare serenamente le “discese” dai nostri Tabor, le croci, le crocifissioni di ogni giorno.
Senza queste “ricariche” di Dio, di soprannaturale, di infinito, tutto rimarrebbe drammatico, angoscioso, “nero”, invivibile. Ecco perché dobbiamo permettere alla Luce, al Calore, all’Amore divini di entrarci dentro; perché dobbiamo accettare con entusiasmo che Dio ci immerga completamente nella sua Vita, che viva in noi, che ci faccia sussultare, commuovere, estasiarci, rinascere continuamente in Lui, per Lui.
“Tabor”, il monte della trasfigurazione e della felicità, in ebraico, oltre che “principio di luce” significa anche “ombelico, cordone ombelicale”. Ebbene: la nostra personale trasfigurazione ci impone di tagliare tutti i cordoni “ombelicali” che ci legano al superfluo, tutte quelle dipendenze inutili che ci ostacolano la crescita, che ci avvizziscono la vita. Insistere nel vivere situazioni negative, esperienze traumatizzanti che ci procurano solo dolore e disperazione interiori, significa scegliere una fine già annunciata, una caduta nel nulla, implacabile e devastante. Se invece vogliamo rinascere, se vogliamo camminare spediti verso la Luce, impediamo con determinazione che zavorre pericolose ci rallentino, ci ostacolino: il nostro taglio deve essere netto, risoluto, definitivo.
Soltanto un cordone ombelicale non va mai reciso: è quello che ci lega a Dio; anzi dobbiamo conservarlo gelosamente, dobbiamo proteggerlo con grande cura, perché per noi vuol dire salvezza, beatitudine, trasfigurazione; troncarlo, significherebbe lontananza, condanna, perdizione, morte. È l’unico canale attraverso cui Dio può riversare direttamente l’amore nel nostro cuore. Un canale flessibile che, per quanto possiamo allontanarci, ci terrà sempre uniti a Lui, evitando che malefici deliri ci inducano a perderci nel vuoto. Solo così potremo andare serenamente ovunque la vita ci porti, anche verso le sue inevitabili “prove”; solo così potremo affrontare i momenti più duri e difficili: perché dentro di noi troveremo sempre nuova energia, nuova forza, nuovo entusiasmo: perché il Dio-Amore abita stabilmente nel nostro cuore. E potremo esclamare felici con Pietro: “Signore, è proprio bello stare qui con te!”.
Ma è proprio vero? È veramente bello per noi rimanere soli con Dio, estasiarci di Lui nel silenzio della nostra anima, in Chiesa, nei momenti di preghiera, di meditazione, nella Messa, nelle sacre liturgie? Oppure il nostro “esserci” è frutto soltanto di stanche abitudini senza vita, senza passione? Ebbene, la quaresima è il tempo degli esami, è il tempo ideale per darci delle risposte sincere, per ritagliarci nuovi spazi di silenzio, per aprire il nostro cuore a Dio con maggior sincerità e amore filiale, per ristabilire nella nostra vita una perfetta armonia con Lui.
Per farlo, come ci ordina la Voce dalla “nube”, dobbiamo “ascoltare”. Dobbiamo cioè “ascoltare” il Figlio, ascoltare la sua Parola, ascoltare noi stessi, la nostra coscienza, ascoltare ciò che di bello, di divino, hanno da dirci gli uomini nostri fratelli, la natura, il creato, la vita. Dobbiamo insomma imparare ad ascoltare Dio con umiltà, con attenzione: è da questo che dobbiamo ripartire; perché purtroppo oggi viviamo in un mondo in cui i valori inalienabili della vita sono calpestati impunemente, abbandonati nel totale disinteresse; il mondo, la natura, la società, lontani da Dio, sono ormai allo sbando: orribili sono le città, orribili le periferie, orribili sono le ideologie che imperversano, orribili le proposte martellanti e sguaiate della pubblicità, orribile il linguaggio che ci raggiunge dal mondo della politica, dello spettacolo, dell’informazione, orribili sono le nuove scelte di vita.
È proprio vero! L’umanità intera necessita urgentemente di “trasfigurazione”: di quella trasfigurazione vera, luminosa, autentica, divina; ha improrogabile bisogno di rivestirsi con la bellezza unica di Dio, che è Verità, Vita, Amore. Smettiamola di vivere allo sbando, di ingannare noi stessi, ostinandoci ad indossare maschere demenziali di stolti e idioti pagliacci, che si affannano a vivere senz’anima, senza luce, senza calore, senza amore. Una scelta decisamente stolta, insensata! Amen.

  

giovedì 15 febbraio 2024

18 Febbraio 2024 – I DOMENICA DI QUARESIMA


Mc 1, 12-15 
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

È la prima domenica di quaresima. La Parola ci riporta oggi al primo capitolo del vangelo di Marco, che nel suo stile stringato ed essenziale, in tre versetti liquida l’esperienza di Gesù nel deserto. Subito dopo la teofania del battesimo in cui la voce del Padre lo riconosce come Figlio amato, Gesù deve affrontare un altro evento, completamente diverso: lo stesso Spirito di Dio lo spinge nel deserto: cioè quel Dio che come Padre lo qualificava come “figlio prediletto”, ora lo manda, lo spinge addirittura, nel deserto, luogo di stenti, di privazioni, dimora dei demoni e del male.
“Com’è possibile?” ci chiediamo: “come può un Padre dimostrarsi così insensibile, incoerente, nel mandare il figlio amato in un luogo tanto pericoloso, arido, inospitale, come il deserto”?
Ovviamente, se cerchiamo di capire il Vangelo con la mentalità di questo mondo, dimostriamo di non aver capito nulla di Dio; soprattutto di non aver capito nulla della missione salvatrice di Gesù. 
Noi, purtroppo, con i paraocchi della società contemporanea, siamo abituati a ragionare solo in un certo modo: se una cosa è bella, buona, gradevole, e soprattutto se non ci fa soffrire, vuol dire che viene da Dio, è un suo regalo, e quindi Dio è buono; se, al contrario, una cosa è brutta, ostica, dolorosa, difficile, allora Dio è cattivo, non gli importa nulla di noi, ci abbandona con indifferenza in balia del diavolo e delle forze del male. 
Solo che in questo caso specifico, dimostriamo di non aver capito che “il deserto” non è un fatto negativo. I due momenti, battesimo-deserto, che vedono protagonista lo Spirito di Dio, sono infatti strettamente correlati, e si inseriscono perfettamente nel progetto divino della redenzione umana attraverso l’incarnazione di Gesù: riconosciuto “figlio di Dio” nel battesimo, Egli avrebbe potuto appellarsi alla sua natura divina, rifiutando di misurarsi col male; al contrario, rimane coerente alla sua realtà di uomo: accetta cioè di vivere fino in fondo questa vita umana con le sue prove, talvolta anche difficili e dolorose, ma tutte con una prospettiva altamente positiva e meritoria: perché nel “deserto”, luogo della prova e della fedeltà di Gesù alla sua missione, Egli propone all’umanità una via, un comportamento indispensabile ad ogni singolo uomo per amministrare correttamente la sua vita, meraviglioso dono di Dio. 
Un dono, la vita, che non è un regalo già pronto, finito, incartato e infiocchettato: ma, come una pianta, va coltivata, cresciuta, seguita, trattata con cura; è come un compito da svolgere, un quadro da dipingere, un manufatto da costruire in tutta la sua bellezza.
Dio ci affida questa minuscola parte del suo universale “progetto” di vita, questa piccola tessera che noi dobbiamo “elaborare, perfezionare” per poterla reinserire al suo posto nel maestoso mosaico dell’intera creazione. 
È una grande responsabilità, che richiede lavoro, applicazione, volontà, coraggio. Le contrarietà sono all’ordine del giorno, dobbiamo superarle: ma troppo spesso noi preferiamo abbandonare il compito assegnatoci da Dio, senza combattere, senza lottare, dimostrando di non aver capito nulla del suo progetto; perché Lui si aspetta da noi un comportamento positivo, vuole che vinciamo i nostri demoni, le tentazioni del male: ci vuole vincenti, vuole che il nostro impegno, i nostri progressi, risplendano preziosi agli occhi del Padre.
Purtroppo le contrarietà, il dolore, le difficoltà, le tentazioni che incontriamo in tale percorso, non sono delle pietre che Dio semina sul nostro cammino per farci inciampare, per farci cadere, come se lui si divertisse in questo. Lui non ama la nostra sofferenza: lui ama noi e vuole che siamo sempre felici. Le prove, il dolore, la sofferenza, sono invece parte integrante della vita umana, come ci insegna oggi Gesù stesso, che da uomo le ha affrontate.
Lui ha vissuto tutto ciò nella sua vita umana senza appellarsi mai, pur potendolo, alla sua natura divina!
Rileggiamolo allora quel versetto che inizialmente ci aveva scandalizzato: “lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche…”. 
Il “deserto”, quindi, non è stata una “cattiveria” di Dio Padre, ma la “fedeltà”, la coerenza di Dio Figlio che, assumendo le nostre sembianze umane, ha accettato di farsi carico anche delle relative debolezze, comprese anche le tentazioni di satana: e tutto questo, per diventare, come dice Clemente Alessandrino, nostro “pedagogo”, nostro “maestro”, nostra guida: per insegnarci cioè come dobbiamo comportarci nella nostra vita.
È quindi Dio, è la Vita stessa, che ci chiedono una gestione responsabile dei nostri progetti: per questo motivo lo Spirito spinge anche noi nel “deserto”: luogo difficile, impegnativo; luogo, che ci fa capire come, per conquistare qualcosa di veramente importante, qualcosa di bello, di assoluto, dobbiamo essere pronti ad affrontare anche un tempo di sacrifici, di prove, di contrarietà, di solitudine interiore.
Ebbene: la Quaresima rappresenta questo nostro passaggio nel deserto; un passaggio che va fatto necessariamente: perché è lì che dobbiamo spogliarci di noi stessi, vederci per quello che siamo realmente; è lì che dobbiamo affrontare le barriere, gli ostacoli, le montagne, per diventare solerti camminatori sulla strada che conduce a Dio. È un percorso che tutti dobbiamo affrontare e concludere. È un’esperienza ineludibile. È il nostro “esodo” dalla negligenza, dall’indifferenza, dalla nostra sciatteria spirituale, dalla nostra tiepida e indolente quotidianità.
Fintanto che il tempo della vita ci scivola via, calmo e silenzioso, noi stiamo bene nel nostro guscio autoreferenziale, tutto funziona, siamo soddisfatti, non ci sono problemi di sorta. Improvvisamente però, quando le cose cambiano, il meccanismo si inceppa, il rapporto con noi stessi si incrina. Non ci accontentiamo più di quel che facciamo; non ci basta, cominciamo a pretendere di più; siamo insoddisfatti, ci sentiamo soffocare; ciò che prima ci andava bene, ora non ci soddisfa più. Nuove esigenze emergono; nuovi lati del carattere bussano alla porta; nuove situazioni e sfide si impongono.
È normale: siamo arrivati ai margini del nostro “deserto”: non ci rimane che affrontarlo.
Dio dice al popolo eletto: “Ti ho fatto camminare nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no, i miei comandi” (Dt 8,2). Soltanto il deserto, infatti, può mostrare anche a noi cosa abbiamo dentro, solo il deserto può toglierci le illusioni costruite negli anni, le incrostazioni, le nostre maschere; solo il deserto può spogliarci, riportarci all’essenziale, all’originale, alla nostra candida e innocente nudità.
Perché il deserto è “peirasmòs”, vale a dire controllo, prova, verifica”.
Lo eviteremmo molto volentieri; lo vediamo come “zona di pericolo”, zona insidiosa, dominata dai richiami della coscienza che ci destabilizzano, ci scuotono dentro: molto meglio rimanere nel mondo, stordirli con il baccano, con fiumi di chiacchiere insensate, con rumori assordanti, con vuoti divertimenti, annegarli definitivamente nelle mille attrazioni inutili. Quanti cristiani infatti oggi si riducono a vivere così! 
Ma la vita che viviamo è la nostra: è vero che le esperienze positive, piacevoli, ce la rendono bella, godibile; ma sono quelle dolorose che ci fanno crescere, che ci maturano, che ci trasformano in meglio. È incontrando e vincendo i nostri demoni, che arriveremo ad incontrare i nostri angeli. Non giustifichiamo la nostra accidia, lamentandoci di non poter far nulla di meglio, di essere la vittima prescelta dal male, che la vita riserva a noi solo difficoltà, problemi, amarezze. Non ricorriamo a falsi pretesti, per rinunciare a combattere, non “tiriamo avanti” carponi, ma rialziamoci e marciamo eretti, da vincitori.
Soprattutto perché lo dobbiamo a Dio, nostro Padre, che pazientemente sta in attesa del nostro ritorno a casa.
Mercoledì scorso il sacerdote ci ha imposto la cenere sul capo: non è stato così, per gioco, ma per ricordarci quanto siamo deboli e provvisori: è stata l’occasione per guardarci con un po' più di umiltà. Ebbene, con questa stessa umiltà, attraversando il nostro deserto quaresimale, riconosciamo davanti a Dio la nostra debolezza, ammettiamo le nostre infedeltà, chiediamo la sua costante e misericordiosa protezione. Soprattutto non dimentichiamo mai: a chi apparteniamo, da dove veniamo, dove siamo diretti, di quale dignità siamo rivestiti, e con quale dignità siamo chiamati a presentarci. Buona quaresima! Amen.

 

 

giovedì 8 febbraio 2024

11 Febbraio 2024 – VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


Mc 1, 40-45 
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va', invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

Il vangelo di oggi ci propone il toccante incontro di Gesù con un lebbroso. È difficile per noi, oggi, capire cosa volesse dire a quel tempo essere lebbrosi. In pratica erano dei morti viventi. La lebbra, oltre che una malattia invalidante, era anche un oltraggio alla persona, perché il lebbroso, confinato fuori dall’abitato, escluso dalla comunità, doveva vivere lontano da tutti, tra stenti, privazioni, imposizioni. Se qualcuno inavvertitamente si avvicinava al suo rifugio, il disgraziato doveva allertarlo suonando un campanaccio e gridando: “lebbroso, lebbroso!”. Si pensava infatti che il contagio della malattia si trasmettesse anche a distanza.
Nel nostro caso, Marco dice che “venne da Gesù un lebbroso”. È quindi il poveretto che prende l’iniziativa e, contro ogni regola, si butta in ginocchio ai suoi piedi, supplicando: “Se vuoi puoi guarirmi!”: è un uomo stanco, distrutto dalla malattia: capisce di non aver ancora molto da vivere, di non poter continuare una simile esistenza, nel disprezzo e nella solitudine. Capisce che da solo non potrà mai venirne fuori: si rivolge quindi a Gesù e con il pianto in gola, prostrato per terra, guardandolo umilmente negli occhi, con grande fiducia mormora: “Signore, non ne posso più, ho bisogno di te, del tuo aiuto”.
Per una persona consumata, deformata, corrosa dalla malattia, evitata e schifata da tutti, è naturale provare il desiderio, intenso, essenziale, di sentirsi accolta, amata, stimata; di trovare qualcuno che le dimostri bontà, amore, che non la tratti con disprezzo, non la respinga. È solo in questo modo, infatti, che lei potrà nuovamente considerarsi una “persona umana” e non un miserabile rifiuto della società; solo così ritroverà la forza di combattere, la gioia di vivere, di riconquistare la sua rispettabilità, la sua dignità morale.
Gesù dunque, di fronte a quest’uomo così psicologicamente provato, ridotto quasi alla disperazione ma ancora con una grande volontà, dimostra subito di provare un sentimento forte, intenso: “Mosso a compassione”. Il verbo greco “splanknìstheis”, più che compassione, indica quell’ amore profondo, viscerale, femminile, tipico di una madre per il suo neonato, un insieme di amore, tenerezza, generosità, apprensione, dolcezza.
Gesù dunque lo guarda, ma lo fa con occhi diversi da quelli dei presenti: “Io credo in te; so che dentro questo tuo corpo, reso così ripugnante dalla malattia, c’è una perla, c’è un fiore profumato, c’è una forza grande e preziosa. Sei stato deformato dal dolore della vita, ma io che ti conosco, vedo la bellezza interiore della tua anima. Per questo voglio che tu possa tornare a risplendere nella tua dignità!”.
E trasforma immediatamente questo sentimento “materno”, in guarigione fisica; “stese la mano”: l’amore diventa azione; “lo tocca”: il miracolo si compie, la lebbra scompare.
Oggi tutti noi possiamo vivere tranquilli, perché questa malattia è stata quasi del tutto debellata. Ma c’è un’altra lebbra con cui dobbiamo fare i conti, meno visibile ma molto più diffusa, dalle mille varianti, tutte gravi e invasive: è la lebbra dell’incomunicabilità, dell’indifferenza, dell’incomprensione, dell’ermetismo, della chiusura totale verso gli altri; è la lebbra di chi non ha alcun ideale per cui valga la pena di combattere, di vivere; la lebbra di chi ha sbagliato e non riesce a ritrovare la propria dignità; la lebbra del disagio di chi si sente incompreso, vittima della società; la lebbra dell’essere ritenuti inaffidabili, inesistenti, insignificanti. Ci sono ancora poi altre lebbre, moralmente più distruttive: come quella dell’invidia, della superbia, dell’impudenza, della maldicenza, dell’avarizia, della gola, della lussuria…: tutte "malattie" che ci rendono ripugnanti nel cuore e nell’anima.
Purtroppo tutto il genere umano è afflitto da questa persistente pandemia: sono pochi coloro che riescono a vaccinarsi alla luce della Parola di Dio. Che fare allora?
Come il lebbroso del vangelo, buttiamoci anche noi ai piedi di Gesù; “malati terminali”, irriconoscibili, chiediamogli a gran voce, umilmente, di tornare ad essere le creature immacolate delle nostre origini: “Se vuoi, puoi purificarmi!”.
Entriamo più da vicino in quella scena, riviviamola nel nostro cuore: un pover’uomo, abituato ad essere rifiutato, respinto, che rimane sconcertato, sbalordito di fronte a Gesù che, a differenza di tutti, gli va incontro, lo tocca, gli stende le mani, quasi ad abbracciarlo, sfidando il pericolo del contagio. Un gesto di comprensione e accoglienza, imprevisto e imprevedibile: “Lo voglio, guarisci”. In altre parole, “sii te stesso: sii puro, sii chiaro, schietto. È questo il significato del verbo greco “katharìzo”, usato da Gesù: tornare ad “essere puri, immacolati”, tornare allo stato originale”, tornare ad essere, cioè, quell’immagine di Dio, che Egli, creandoci, ha impresso in ciascuno di noi: una somiglianza che noi, purtroppo, con la lebbra delle nostre infedeltà abbiamo deformato, alterato, distrutto.
Ma, “Guarisci!”, ordina con voce chiara Gesù anche a noi; “torna com’eri originariamente, ristabilisci la tua somiglianza divina, mediante una radicale conversione di vita.
Quante volte, purtroppo, nel nostro delirio di onnipotenza, pretendiamo di cancellare questa nostra somiglianza con Dio, vogliamo essere “diversi”: disprezziamo cioè la nostra originale bellezza, dono incalcolabile, e preferiamo esibirci sul palco della vita ostentando una ridicola maschera di noi stessi: non accettiamo di essere “immagine splendida di Dio; preferiamo lasciarci stupidamente “deformare”, dai tanti “burattinai” di questo mondo.
Ma la vita non ci appartiene: e se fatalmente qualche evento tragico dovesse venire ad interrompere le nostre allucinazioni, se improvvisamente tutto il nostro scenario fatuo e posticcio, ci crollasse addosso, allora improvvisamente la nostra esistenza si rivelerebbe in tutta la sua cruda, squallida realtà: impresentabili, indegni, colpevoli, falsi. Allora, se avremo ancora un briciolo di umiltà per guardare nel profondo del nostro cuore, se avremo il coraggio di scendere nella nostra coscienza, nella nostra anima, potremo renderci conto che nel buio più totale, nonostante il nostro assoluto disinteresse, l’abbandono insensato di ogni nostra dignità, un piccolo spiraglio, un minuscolo raggio di luce è rimasto integro, intatto. È il nostro “marchio di fabbrica”, è lo Spirito divino che Dio, ha impresso in noi, a sigillo del suo amore; è quel “seme” di luce divina, eterna, inalterabile, che da sempre ci inabita: potremo fare le peggiori cose nella vita, potremo arrivare ad oscurare totalmente quella luce, potremo fossilizzarla, insudiciarla, ma non potremo mai, in nessun modo, distruggerla, cancellarla, demolirla.
È un po’ come scendere, dopo anni, in un locale completamente buio, abbandonato: non vediamo nulla, siamo avvolti nell’oscurità più totale, impenetrabile: ma sappiamo che al suo interno esiste silenziosa e invisibile una determinante, inestinguibile energia: dobbiamo solo premere un interruttore, e la luce immediatamente riesplode in tutta la sua brillantezza.
“Sii purificato!”. Ecco: Gesù aspetta che, nella nostra confusione, nel nostro rimorso e pentimento, ci decidiamo ad andare da Lui: e abbandonandoci tra le sue braccia, riusciamo finalmente a ripristinare il “contatto” con Lui, nostra Sorgente di Luce.
È l'unico modo per ottenere che il fascio luminoso, sfolgorante, del suo amore misericordioso, torni a illuminare il nostro cammino, a riscaldare il nostro cuore, a risanare le nostre ferite, a restituirci la nostra primitiva, nobile, divina, somiglianza col Padre. Amen.



giovedì 1 febbraio 2024

04 Febbraio 2024 – V DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO


 

Mc 1, 29-39 
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini. perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni.

Il vangelo di oggi ci presenta un Gesù in piena attività: predica, consola, scaccia i demoni, prega, guarisce tutti gli ammalati che incontra. Non fa a tempo ad uscire dalla sinagoga, che viene subito informato che anche la suocera di Simon Pietro è ammalata, è a letto con la febbre: e subito Lui la raggiunge e le tende la sua mano guaritrice.
Il vangelo non dice nient’altro se non, appunto, che Gesù la guarisce; niente di straordinario: egli lo fa con chiunque, lo fa con gente estranea e sconosciuta, e quindi, a maggior ragione, lo fa con la suocera di uno dei suoi primi discepoli.
Potremmo quindi fermarci tranquillamente qui, se non fosse per la curiosità di conoscere altri particolari sulla vicenda come, per esempio, quale sia stata la causa scatenante del febbrone che ha improvvisamente colpito la donna, in maniera tanto grave e preoccupante, da richiedere l’intervento urgente di Gesù: una curiosità sollecitata peraltro dalla voluta essenzialità del racconto di Marco.
Cerchiamo allora di capire meglio questa particolare “situazione”, inserendola nel suo contesto più ampio.
Sappiamo, dal racconto di Marco sul malessere della “suocera”, che Simone è sposato, ha una famiglia, e possiede una casa sufficientemente ampia, in grado di ospitare anche la madre di sua moglie. Sappiamo che la sua attività di capo famiglia è la pesca, alla quale provvede nelle ore notturne, servendosi di reti e di una barca di sua proprietà: un lavoro povero con cui tuttavia riesce ad assicurare alla sua famigliola un’esistenza dignitosa. Ma sappiamo anche che poche ore prima, per aderire alla chiamata di Gesù egli, senza alcuna esitazione, aveva abbandonato tutto, casa, famigliari, attrezzatura e lavoro.
E allora pensiamo: non sarà forse questa “pazzia” di Simone la vera causa della febbre improvvisa di sua suocera? Lei e la figlia infatti non lavorano, si occupano soltanto della casa: Simon Pietro rappresentava pertanto il loro unico sostentamento.
C’è un verbo che fa pensare a questa possibilità: per indicare la febbre della donna, Marco infatti usa il termine greco “purèssusa”, da “purèsso” che significa, oltre che “avere la febbre”, anche “essere furioso, risentito, irritato; avere l’animo infuocato, bruciare dentro”: significato che fa pensare appunto ad una persona afflitta non tanto da una febbre corporea, esterna, quanto da un’alterazione spirituale interna; ad una con l’animo “alterato, infuocato”; in altre parole, la suocera di Pietro, più che febbricitante, era letteralmente in preda all’ira, arrabbiata furiosa, piena di risentimento, prima di tutto con il genero, colpevole, secondo lei, di aver stravolto di punto in bianco la loro tranquillità familiare; e poi con Gesù, da lei ritenuto la causa scatenante di questa loro sventura.
Appena Gesù viene a conoscenza del suo malore, appena “gli parlarono di lei”, Egli intuisce il vero dramma della donna: capisce immediatamente la vera causa della sua “malattia”, del suo febbrone: “Questa donna ce l’ha con me!”. Poteva benissimo far finta di nulla, come in genere facciamo noi in questi casi; poteva tranquillamente dire: “Se ha qualcosa contro di me, venga a dirmelo! È un problema suo, non mio!”. Ma Gesù non è come noi: egli capisce che la donna si trova veramente in difficoltà. E fa la prima mossa. È lui che va da lei. E appena entra in casa, le si avvicina, la fa alzare prendendola per mano.
Fra i due c’è distanza, incomprensione, diffidenza, non si conoscono: Gesù per questo “si fa vicino”, riduce la distanza, prende l’iniziativa, la “incontra”, si fa conoscere.
“La sollevò”: la donna è distesa, sulle sue, non vuole avere nulla a che fare con Gesù, ma Lui le parla, le sta vicino, finché lei gli dà ascolto e “si solleva”: si rasserena, si rialza cioè dal suo sgomento, dal suo profondo disappunto, dalle sue angosce per ciò che le sta accadendo.
“La prese per mano”: Gesù le fa capire con i fatti che vuole incontrarla, che vuole entrare in sintonia con lei; vuole che “senta” chi è lui, le offre l’opportunità di capire, di farsene un’esperienza diretta. E lei finalmente si lascia andare. E cosa avviene? “La febbre la lasciò”.
Non sappiamo in realtà come sia successo, cosa i due si siano detti. Ma queste poche parole ci confermano che la donna ha capito che l’uomo accanto al suo capezzale non è né un pazzo, né uno fuori di testa. Il capovolgimento dei suoi sentimenti è istantaneo e decisivo: “si mise servirli”; il rancore si tramuta immediatamente in umile servizio, l’ostilità in amore per l’uomo straordinario che le sta di fronte; il volerlo evitare si trasforma nello stargli docilmente vicina, a sua completa disposizione.
Finché la donna combatte Gesù, non può guarire: la febbre rimane a livelli di sofferenza.
Ma quando lo ascolta, lo comprende, quando si lascia toccare da lui, quando condivide le sue ragioni, allora tutta la sua animosità, il suo rancore, la sua febbre, improvvisamente svaniscono. E finalmente capisce che Simone, suo genero, di fronte alla chiamata di quell’Uomo, aveva preso la giusta decisione! Lei aveva bisogno di aiuto, di comprensione, di rassicurazioni. E Gesù gliele dà.
Esattamente come continuerà a darli a quanti incontra per le strade della Palestina. Ogni giorno. Il vangelo infatti sottolinea: “Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni”.
“Molti demoni”: certo, ai tempi di Gesù gli indemoniati dovevano essere proprio tanti!
Oggi, al contrario nessuno ne parla più, sembrano completamente spariti: in pratica, la gente non crede più al demonio. Un personaggio che non si vede, non si tocca, che non va mai in televisione, non c’è, non esiste: quindi, tutti tranquilli: il demonio è un fenomeno che non ci deve preoccupare. È una favola d’altri tempi!
Ma noi sappiamo molto bene, che non è così. Il demonio esiste, è presente, si dà da fare, eccome! Il Vangelo ce lo descrive come un essere spirituale, un’entità ribelle, un “qualcuno” che ci spia in continuazione, che ci segue ovunque; uno che è contrario all’Amore; uno insomma che va costantemente combattuto, perché rappresenta un pericolo concreto e costante per la nostra libertà, per la nostra serenità, per la nostra salvezza.
E i “demoni” che ci riguardano sono tanti: “demoni”, per esempio, sono tutte le continue lusinghe del male, accattivanti promesse di felicità, luci scintillanti del peccato, che accecano completamente la nostra ragione. Noi stessi possiamo essere autentici “demoni”, nel momento in cui adottiamo uno stile di vita opposto a quello che ci suggerisce lo Spirito di Dio, la nostra coscienza; “demoni” siamo noi quando, ammaliati dallo spirito che non è Vita, che non è Amore, ci lasciamo limitare, distruggere, condizionare, accettando di vivere con un’anima spiritualmente insensibile, svuotata, inerte, morta; siamo noi, quando ci disinteressiamo della nostra vita spirituale, quando non corriamo ai ripari, non appena percepiamo che essa è indebolita, ferita, inerte.
Come combattere questo demonio? Con la preghiera. Marco scrive che Gesù “al mattino presto, si alzò, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”. Non nella città, non tra la gente, non in mezzo alla confusione, ma in un luogo deserto: la preghiera è veramente tale quando nasce nel silenzio e nel raccoglimento del cuore; è infatti solo nel “deserto” della penitenza dei sensi, nella solitudine della mente, nel mettere a nudo l’anima, nel limitare il “troppo”, nel dominare le assurde pretese del mondo, nel mortificare lo spirito e la volontà, che riusciamo individuare e combattere i nostri demoni. È in tale “isolamento” che possiamo vincerli, come faceva Gesù, con la preghiera: una preghiera che deve essere, come la sua, intensa, umile, sincera, riconoscente; un dialogo intimo e intenso col Padre, un atteggiamento di completo abbandono nelle sue mani, nella sua volontà. Una preghiera insomma decisamente diversa da quella che noi facciamo di solito: una misera lista di cose “irrinunciabili” da chiedere: una specie di lista “della spesa”, che presentiamo a Dio ogniqualvolta la vita ci presenta un conto da pagare, e pretendiamo che sia Lui a farlo. Questa non è preghiera, è un insulto alla bontà di Dio.
Non è così, non è comportandoci da arroganti, da presuntuosi, che possiamo vincere i nostri demoni occulti e astuti! Amen.