"Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano…" (Mt 21,33-43).
Da
notare che nelle tre parabole il comportamento dei vari “padroni” è sempre
stato improntato alla bontà, alla pazienza, alla massima comprensione. Il
padrone di oggi, poi, va addirittura oltre ogni aspettativa, rasenta
addirittura l’assurdo; il suo è un amore puntiglioso e illogico: nonostante i
suoi inviati vengano sistematicamente bastonati, lapidati, uccisi, lui continua
sempre a provarci, cerca di dare ai vignaioli assassini nuove opportunità di
ravvedimento. Alla fine, in un estremo tentativo di riscatto, arriva a mandare
il proprio unico figlio. Ma anche questi subisce la stessa barbarie, e viene
ucciso.
L’allusione
è chiarissima: questo vangelo è la sintesi di secoli di storia del popolo
ebreo. C’è stato un amore iniziale seguito poi dal rifiuto. I servitori sono i
profeti che, lungo il corso della storia di Israele, Dio ha mandato nella sua
“vigna” per richiamare il popolo, perché si accorgesse di essere sulla strada
sbagliata; ma Israele non si è ravveduto, non ne ha voluto sapere. Alla fine
Dio ha inviato anche suo Figlio, e di fronte alla sua crocifissione e morte, ha
trasferito altrove il suo Regno, fondandone uno nuovo con altri popoli. È il
primo grande esempio, ma la storia ci insegna che è sempre stato così: Dio si
ferma dove viene accolto, altrimenti, in punta di piedi, se ne va.
La vigna
è il segno dell’amore infinito di Dio, è la proposta di felicità completa, di
vita piena. Se questa proposta non viene accettata, Egli si rivolge automaticamente
ad altri popoli, ad altri contadini.
Storia
del popolo ebreo dunque: un popolo che inizialmente accolse il Dio Vivo con
grande entusiasmo; ma poi lo respinse, lo uccise. Il Regno fu allora destinato
ai seguaci di suo Figlio, ai discepoli di Cristo, a quanti, col battesimo,
abbracciarono la fede cristiana. Sorsero allora comunità cristiane
fiorentissime: Filippi, Tessalonica, Corinto, Cartagine, Efeso. Servitori
mandati da Dio, come Paolo, Cipriano, Agostino, vi dedicarono anni di duro
lavoro conseguendo grandi affermazioni. Ma anche queste colonie pian piano sono
capitolate.
Oggi, in
quelle terre, non c’è più traccia del primitivo cristianesimo fervente; col
tempo la fede si è spenta e Dio se ne è migrato altrove, in altre nazioni. Un
fenomeno che puntualmente si ripete lungo i secoli: quando la fede di un popolo
si sclerotizza, si fossilizza, non si rinnova, quella fede muore, e la Vigna di
Dio, il Regno dei cristiani, degli innamorati di Cristo, si trasferisce
altrove.
Questo
dovrebbe preoccuparci seriamente, perché oggi anche i nostri paesi occidentali
sono giunti al limite: non è detto che in Europa, come pure nella nostra
cattolicissima Italia, in un domani ormai già in atto, non possa succedere
altrettanto.
Anche da
noi la fede sta purtroppo perdendo il suo smalto, la sua spiritualità, il suo
entusiasmo, la sua vitalità; di questo passo, tra breve, non ci sarà più
traccia di quel cristianesimo profondamente vissuto e amato dai nostri padri.
Esattamente come prospettatoci dal vangelo di oggi.
Gesù, il
figlio del Dio creatore e organizzatore della “vigna”, è stato mandato tra gli
uomini, i contadini, nel nome dell’amore, della bontà, della guarigione, della
non-violenza; è venuto per dare a tutti una vita piena e sensata. Ma poi, quei vignaioli
perversi, lo hanno rifiutato.
E anche
noi, attuali lavoratori, continuiamo come loro a rifiutare Gesù. Perché? Forse
non è abbastanza buono? Non dimostra di amarci abbastanza? Ci sentiamo ingannati?
No, al contrario! Egli ci guarisce, ci fa risorgere, ci sfama, ci perdona, ci illumina;
ci fa sentire in tutti i modi che ci ama perdutamente. Allora lo rifiutiamo
perché ci dice la verità? Perché non asseconda i nostri giochetti sporchi?
Conosciamo
tutti la sua vita, i suoi insegnamenti, ma non adeguiamo la nostra di vita, non
ci convertiamo. Ascoltiamo le sue parole, ma il nostro cuore non si lascia contagiare.
Possiamo sperimentare quotidianamente le sue meraviglie, ma la nostra mente è ormai
chiusa in discussioni teologiche, in distinguo improponibili, con lo scopo di crearci
un alibi per continuare ad ucciderlo impunemente e vanificare la sua presenza
sulla terra. Ci fa troppa paura.
Ma siamo
dei poveri illusi: come al solito non capiamo nulla!
Cosa dovrebbe
fare Gesù più di quanto ha fatto? Cosa dovrebbe promettere a noi vignaioli più
di quanto ha già concretamente promesso? Cosa dovrebbe dimostrare ancora, per
essere accettato, amato, accolto nel nostro cuore?
Cosa dovrebbero
fare di più per convincerci le migliaia di suoi incaricati, tutti quei suoi
ministri, umili e santi preti, che vivono coerentemente e convintamente la sua
Parola? Cosa potrebbero dirci o dimostrarci di più quelle innumerevoli prediche,
pubblicazioni, trasmissioni mediatiche, fatte in nome del Vangelo? Assolutamente
nulla!
Abbiamo
avuto e sentito tutto; tutta questa “grazia”, dovrebbe esserci più che
sufficiente, come scriveva Paolo ai Corinzi (2Cor 12,9): solo che purtroppo,
nella nostra “infermità”, rimaniamo impenetrabili, non assorbiamo nulla: siamo
fossilizzati, chiusi, insensibili. Non riusciamo a vedere in positivo; non
vediamo le migliaia di gesti d’amore che i nostri fratelli ci fanno; non
vogliamo vedere la bontà che c’è attorno a noi, di chi ci aiuta, di chi ci
sostiene. Siamo occupati continuamente a rimarcare i loro difetti, le loro lacune,
le loro debolezze, senza mai riuscire ad apprezzare il bene, la cortesia, la
gentilezza, la premura, con cui essi ci circondano.
A volte
ce ne rendiamo conto soltanto quando qualcuno di essi viene a mancare. Soltanto
quando perdiamo una persona vicina, finiamo per accorgerci di quanto fosse
importante, di quanto ci amasse. Solo allora i nostri occhi, il nostro cuore,
finalmente, si aprono: ma è ormai troppo tardi.
Allora,
perché non farlo prima? Perché rimanere talmente incentrati nel nostro ego
da lasciare che un piccolo gesto negativo, un soffio appena indisponente, basti
a distruggere migliaia di gesti d’amore?
Tutto è dono, tutto ci è
gratuitamente affidato da Dio, nulla può essere preteso. Per questo dobbiamo fidarci
di Lui, abbandonarci a Lui, alla Vita; perché noi tutti siamo nelle sue mani:
esistiamo, siamo vivi, ma non siamo “nostri”!
Quanta pazienza ha Dio con noi! Anche
quando, come i vignaioli, avanziamo pretese assurde, quando cerchiamo di
sovvertire l’ordine, quando non portiamo più frutto, ebbene: anche allora Dio
non ci abbandona; anzi ci manda continui “messaggi”, degli avvertimenti
importanti: “Stai attento perché le cose così non vanno!”. Ma noi molto spesso non
ce ne curiamo, andiamo avanti per la nostra strada, ridiamo e facciamo finta di
nulla. Come possiamo allora pretendere che Dio ci parli, si faccia sentire, se siamo
noi a non volerlo ascoltare?
Eppure, quando leggiamo questa
parabola, non possiamo ignorare la correttezza del messaggio, e dire in cuor
nostro: “Che mascalzoni quei contadini! Come hanno fatto a non capire? a
comportarsi così? Pensavano forse di farla franca?”.
Già, loro sono stati stupidi,
mascalzoni, assassini, ma noi? Noi li accettiamo i “messaggi” che Gesù ci
manda?
Eppure sono tanti e frequenti: quando
siamo insoddisfatti, quando siamo nervosi, irritabili, quando non proviamo più
stupore, né gioia, quando non ci entusiasmiamo più per nulla; quando la vita
religiosa è un peso, la Chiesa è un peso, la famiglia è un peso; ecco, sono tutti
segnali della nostra anima che langue, che sta morendo. Sono messaggi importanti.
Non illudiamoci attribuendoli al super lavoro, ad un periodo critico, pensando che
prima o poi tutto si sistemerà. Non è così, purtroppo. I segnali che Dio ci
manda vanno ascoltati. Non comportiamoci come i vignaioli omicidi.
Quella di oggi è una parabola
tragica, che ci deve veramente far riflettere: è la storia di Dio e
dell’umanità, la nostra storia, la storia di Dio e noi, delle nostre
incomprensioni; è la storia di un dolore, il dolore di Dio, che noi alimentiamo
con i nostri continui rifiuti.
È la storia di Dio, questo Dio
sconsiderato, che insiste, si ripete, che continua a mettere a repentaglio la
vita del Figlio, inviandocelo vivo ogni giorno nell’Eucaristia: pensando, così,
di suscitare in noi quel rispetto, quell’adesione, dovuti al suo infinito Amore,
al gesto estremo di un Padre, come sovrumana e impensabile prova d’amore, meritevole
di essere finalmente da noi compresa e ricambiata! Amen.